Il Workers Buyout è l’azione di salvataggio di un’azienda in crisi da parte dei suoi stessi dipendenti che si costituiscono in cooperativa. I dati ci dicono che i Wbo sono ancora un fenomeno di nicchia, ma la pandemia probabilmente cambierà le cose. È questo il tema della nostra ultima inchiesta pubblicata su Corriere Buone Notizie: nell’articolo che segue (disponibile anche qui) Paolo Riva ci aiuta a contestualizzarlo. Qui invece Lorenzo Bandera riflette sul ruolo a cui è chiamato il mondo cooperativo.
«Noi i siamo state fortunate. Grazie a un Workers Buyout abbiamo riaperto il supermercato. Ma quante aziende in crisi conoscono i Wbo?». La presidente di Frosincoop, Rossana De Pastina, pone la domanda con emozione e determinazione. Quelle tre lettere, per lei, sono un’esperienza di cui è entusiasta e che vuole diffondere il più possibile. Anche perché con la pandemia le imprese a rischio chiusura sono aumentate. Secondo uno studio di Cerved Group sarebbero 115mila, per un totale di circa 300mila lavoratori coinvolti. Per questo, i Wbo sono uno strumento da far conoscere.
«Il supermercato Coop per cui ho sempre lavorato nel giugno 2019 chiude», ricorda De Pastina. L’azienda propone dei ricollocamenti in altri punti vendita ma Rossana e una collega rifiutano e, grazie al sostegno di Legacoop, intraprendono la strada del Wbo. «È stato un salto nel buio», dice oggi. Le due donne investono Naspi e risparmi nella neonata Frosincoop, ottengono dalla catena di supermercati la concessione del franchising e quindi, a luglio 2020, vengono sostenute con 390mila euro da Cfi. «Abbiamo riaperto il supermercato lo scorso 29 ottobre. Non è stato facile. Senza Cfi non ce l’avremmo fatta», prosegue De Pastina, oggi presidente della cooperativa che dà lavoro a lei e altre nove persone.
Il caso ciociaro è uno dei più recenti. Il più antico invece è quello della Scalvenzi di Brescia, salvata nel 1985 e ancora in attività: produce compattatori e, dal 2015, anche componenti per scooter elettrici. Nel mezzo molti altri esempi. Dalla Cartiera Pirinoli in provincia di Cuneo alla Wbo Italcables nel Napoletano fino al Birrificio Messina (Secondo Welfare ne parò qui, ndr), nell’omonima città siciliana. Dal 1985 a oggi i Workers Buyout in Italia sono stati almeno 329, ma bisogna tener conto che Cfi non ha operato con continuità negli anni. Più significativo quindi prendere in considerazione l’ultimo decennio nel quale, con il coinvolgimento di oltre 2.500 lavoratori, sono state «rigenerate» 99 aziende, soprattutto al centro-nord e nel settore industriale.
Camillo De Berardinis, amministratore delegato di Cfi, ha conosciuto molte di queste cooperative. E molte altre è convinto che le conoscerà presto. «Nei prossimi mesi ci aspettiamo un aumento delle domande», dice. Mauro Lusetti, presidente di Legacoop, concorda: «Nel secondo semestre 2020 ci sono pervenute richieste di intervento per 11 crisi, con circa 500 lavoratori coinvolti. Il ricorso ai Wbo sta crescendo ed è prevedibile che si rafforzerà con la fine del blocco dei licenziamenti e la difficoltà di ripresa».
Agci, Confcooperative e Legacoop sono state tra i fondatori di Cfi e ancora oggi sono presenti nel capitale della partecipata con i rispettivi fondi mutualistici. Inoltre in alcuni casi sostengono direttamente delle operazioni di Workers Buyout. Credono nei Wbo perché, riprende Lusetti, «provano l’utilità della forma cooperativa per rispondere alle crisi aziendali, tutelando occupazione, competenze e patrimoni produttivi». Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative, ha a cuore l’argomento da sempre: «I Wbo non sono assistenzialismo ma autoimprenditorialità. I lavoratori credono nell’impresa cooperativa, rischiando in prima persona». Senza contare che, aggiunge Gardini «un dipendente licenziato costa allo Stato 40mila euro di ammortizzatori sociali, mentre un Workers Buyout costa in media circa 13mila euro a lavoratore».
Certo, i Wbo non possono essere la soluzione a tutte le crisi aziendali. A oggi sono un’esperienza numericamente limitata, soprattutto perché sono realizzabili solo a determinate condizioni, la prima delle quali è la volontà dei lavoratori. Rimangono però uno strumento con ampi margini di sviluppo. Da far conoscere e crescere. Per riuscirci, riprende De Bernardinis, «a gennaio Cfi ha siglato un accordo di promozione dei Wbo con le organizzazioni cooperative e sindacali e, da quest’anno, parteciperà ai tavoli di crisi del Ministero dello Sviluppo Economico».
Non solo. Il fondo con il quale Cfi finanzia gli interventi è stato rifinanziato e, nel 2022, supererà gli 80 milioni di dotazione. Quello economico è un nodo cruciale. «Se i Wbo cresceranno, e serviranno più fondi per sostenerli, si potrebbe coinvolgere Cassa Depositi e Prestiti», propone Flaviano Zandonai, open innovation manager di Cgm. «Del resto i Workers Buyout – prosegue – sono un investimento sicuro: sono una politica pubblico-privato consolidata negli anni, che dà risultati e che affronta un problema sociale diffuso». A Frosinone lo sanno bene. «Da quando abbiamo riaperto il supermercato – dice Rossana De Pastina – non facciamo altro che ricevere curriculum. In due mesi ne sono arrivati centinaia».
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 23 febbraio 2021 nell’ambito della collaborazione tra Secondo Welfare e Buone Notizie; è qui riprodotto previo consenso dell’autore.