Riccardo Padovani, direttore della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), in occasione della presentazione del rapporto 2012 sull’economia del Mezzogiorno, ha definito quella che stiamo vivendo come una “crisi troppo lunga”, e questo è particolarmente vero per il Sud d’Italia. Sono infatti ormai cinque anni, sottolinea Padovani, che il Mezzogiorno si sta avvitando “in una spirale di arretramento economico e sociale”, e le previsioni per il 2012 e il 2013 rimangono fortemente preoccupanti.
Il rapporto evidenzia infatti un complesso di processi negativi in atto, con riferimento al sistema produttivo del Meridione, ai suoi trend demografici, al mercato del lavoro, ai consumi, alla scuola e alla condizione femminile, solo per citare alcune delle principali dinamiche.
Tra il 2001 e il 2011, il Pil del Mezzogiorno è rimasto fermo a 0, in termini di variazione percentuale, contro lo 0,4% del Centro Nord e l’1,4% della media UE. È tuttavia nel Pil pro capite che si riflette con assoluta evidenza il profondo divario esistente tra il Nord e il Sud:« In termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2011 ha confermato lo stesso livello del 57,7% del valore del Centro Nord del 2010. In un decennio il recupero del gap è stato soltanto di un punto e mezzo percentuale, dal 56,1% al 57,7%. Continuando così ci vorrebbero 400 anni per recuperare lo svantaggio» (Intervento di Riccardo Padovani, p. 1, nei riferimenti). Il rapporto della Svimez sottolinea, del resto, come le quattro manovre finanziarie approvate tra il 2010 e il 2011 abbiano avuto un impatto fortemente depressivo sul Pil del Mezzogiorno (nel solo 2012 si è registrato un calo di 2,1 punti percentuali determinato prevalentemente dal crollo degli investimenti).
Alle preoccupanti dinamiche del Pil si associano quelle relative ai consumi (si prevede, nel corso del 2012, un valore di -3,8% per i consumi al Sud contro il -2,4% per il Centro Nord). È in particolare l’industria a dare segnali di un drammatico arretramento, con le evidenti ricadute che tale situazione potrà avere nei prossimi anni sul tessuto sociale: «È proprio l’industria l’architrave del sistema economico meridionale che rischia di cedere, facendo crollare l’intera economia. E purtroppo le cronache di questi mesi dell’ILVA di Taranto, così come quelle nei mesi scorsi di Termini Imerese e dell’IRISBUS fino alla complessa vicenda FIAT, sembrano confermare i rischi di una fuoriuscita da comparti strategici, che presentano una concentrazione degli stabilimenti nel Sud. Dobbiamo avere presente che, contrariamente al resto del Paese, troppo piccola è in questa area la quota di imprese esportatrici in grado di compensare la debolezza della domanda interna con una crescita dell’export; troppo forte è la dipendenza dagli appalti della pubblica Amministrazione che, senza risorse, ha bloccato nuovi appalti e, ancor peggio, ritarda i pagamenti dei beni e servizi acquistati» (Intervento di Riccardo Padovani, p. 6, nei riferimenti).
A questo quadro si deve aggiungere il non efficace impiego dei fondi europei destinati alle politiche di coesione sociale, a causa, in particolare, delle insoddisfacenti performance delle amministrazioni centrali e periferiche nella gestione dei progetti finanziati e della frammentazione degli interventi.
Le ricadute di questo stato delle cose sull’occupazione sono state alquanto pesanti. Se nel 2010 il tasso di disoccupazione al nord era del 6,3%, al sud raggiungeva il 13, 6%, cioè più del doppio. Ma a questo dato va aggiunto quello del sommerso: nel 2011 dei 12 milioni e 900 mila irregolari stimati in Italia dalla Svimez, ben 1 milione e 200 mila lavoravano al sud.
La sofferenza della società meridionale si riflette anche nei numeri della migrazione verso il Nord: 2,5 milioni di persone negli ultimi venti anni, di cui 109 mila solo nel 2010. Uno su quattro di questi migranti si dirige in Lombardia. Con riferimento a tale flusso migratorio, risulta particolarmente significativa l’età di coloro che abbandonano il Sud: circa il 57% è costituito da giovani sotto i 34 anni. Si tratta quindi di un fenomeno destinato a sottrarre al Mezzogiorno le sue migliori “energie”, riducendo significativamente la sua capacità trovare risposte innovative alla crisi. Il quadro è aggravato dal perdurare, al Sud, del fenomeno dell’abbandono scolastico: nel 2010, 14 studenti su 100 hanno lasciato la scuola dopo il 1° anno della secondaria superiore. È quindi in definitiva la popolazione giovane del Mezzogiorno a pagare il prezzo più alto della difficile fase economico-finanziaria in cui si trova il Paese, se solo si considera che nel 2008 i giovani neo-occupati al Sud erano 430 mila, mentre nel 2011 sono risultati 100 mila in meno.
A dire poco allarmanti sono poi i dati sull’occupazione femminile, che contribuiscono a fare emergere una vera e propria “questione femminile” nel Mezzogiorno: «Il dato forse più rilevante è testimoniato dall’inattività, che riguarda ormai due donne meridionali su tre. Mentre nel corso degli ultimi dieci anni il Centro-Nord ha colmato in parte la distanza del suo tasso di attività femminile dalla media europea (recuperando due punti percentuali da -7-7 a -5,4), nel Sud il divario è aumentato di 4 punti percentuali, passando da -24,5 del 2000 a – 28,2 nel 2011). L’inattività femminile cresce al Sud perché da un lato le donne scoraggiate pensano di non trovare un’occupazione e non si mettono quindi neppure a cercarla; dall’altro perché i canali d’intermediazione formali sono carenti e inefficienti. Ciò che colpisce, però, è che quasi l’82% delle donne inattive del Mezzogiorno affermano che la decisione di non cercare lavoro non dipende dall’assenza, dall’inadeguatezza o dall’eccessivo costo dei servizi di cura, pubblici o privati bensì dalla prospettiva di un’occupazione con una retribuzione bassa e discontinua.» (Rapporto Svimez, p. 21, nei riferimenti).
Il Rapporto Svimez fotografa una realtà di progressivo, ulteriore rallentamento, rispetto a precedenti decenni, della produttività al Sud, e, conseguentemente, un sostanziale peggioramento delle condizioni del lavoro. Tale prospettiva è destinata a riverberarsi con conseguenze drammatiche sui giovani e sulle donne. Per queste ultime, la carenza di domanda di lavoro qualificato e un welfare che carica sulle loro spalle le principali responsabilità di cura, a causa della penuria di servizi, disegnano un futuro a tinte fosche (si veda in tal senso anche l’approfondimento di Secondo welfare sul rapporto di Save the Children “Mamme nella crisi”). Tuttavia, la Svimez non si limita a fornire le cifre del declino del Meridione, bensì offre alla politica una serie di prospettive di sviluppo, rappresentate dai settori che potrebbero trainare l’economia del Mezzogiorno fuori dalla condizione attuale e verso un destino di crescita. In primo luogo, secondo il rapporto è necessario investire adeguate risorse in innovazione e ricerca, istituire fondi di finanza innovativa specifici per il Sud e favorire la crescita dimensionale delle piccole e medie imprese (PMI), mediante lo strumento dei contratti di rete. In secondo luogo, si tratta di rendere prioritario l’investimento nell’industria culturale: «In senso stretto, infatti, il settore in Europa dà lavoro a 3,6 milioni di persone, di cui meno del 10%, circa solo 256 mila, in Italia, nonostante l’ingente patrimonio artistico millenario. In particolare, 208mila lavorano al Centro-Nord e soltanto 48mila al Sud, con percentuali di occupati sul totale minimo in regioni come la Calabria (0,6%) e il Molise (0,3%). Politiche di valorizzazione dell’industria culturale finanziate con risorse nazionali e comunitarie potrebbero permettere al Sud di recuperare il gap di occupazione con il Centro-Nord in pochi anni, con 40mila nuovi posti di lavoro di cui 15mila laureati» (Rapporto Svimez, p. 24, nei riferimenti). In terzo luogo, devono essere trovati gli strumenti adatti a promuovere il Terzo settore meridionale – che si sta rivelando assolutamente strategico per lo sviluppo del Sud d’Italia anche in questi anni di crisi – in particolare nelle forme della cooperazione e dell’impresa sociale: «L’impresa sociale si è sviluppata soprattutto nei paesi a welfare debole. Le cooperative sociali attive in Italia nel 2010 erano 10.245: in dieci anni sono aumentate dell’85,8%. Circa la loro distribuzione sul territorio nazionale, più della metà è localizzata al Centro Sud (2.085 nel Centro, pari al 20,4% del totale nazionale e 4.235 nel Mezzogiorno, per una percentuale del 41,3% , mentre nel Nord opera il 38,3% del totale (pari a 3.925 unità). Nel dettaglio il 14,7% è attivo nel Nord-est e il 23,6% nel Nord-ovest. Nel periodo in questione, al Sud si è registrato un aumento significativo in Campania (+469,6%), Sicilia (+139,7%), Puglia (+189,9%) e Calabria (+152,1%).» (Rapporto Svimez, p. 24, nei riferimenti).
In quarto luogo, ovviamente, è necessario potenziare il turismo, in ragione delle opportunità offerte nel Sud d’Italia da un patrimonio artistico, storico e paesaggistico con pochi eguali al mondo.
Del resto il Presidente della Repubblica, proprio in occasione della presentazione del rapporto Svimez, il 25 settembre scorso, ha sottolineato che gli obiettivi della crescita possono e devono essere perseguiti, pur nel quadro dell’obbligato risanamento dei conti pubblici (telegramma del Presidente della Repubblica al Presidente della Svimez, nei riferimenti)
Siamo quindi di fronte ad una sfida sociale ed economica che non può essere persa.
Riferimenti
Intervento del direttore della Svimez, Riccardo Padovani
Telegramma del Presidente della Repubblica al presidente della Svimez, Adriano Giannola
"Non è solo camorra. Ecco il Sud che vince", La Repubblica, redazione, 30 settembre 2012