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La conciliazione vita-lavoro fa bene alle donne? Patrizia Di Santo e Claudia Villante, ricercatrici presso la società di ricerca, formazione e consulenza Studio Come, affrontano la questione del work-life balance con spirito critico. In “Genere e responsabilità sociale di impresa”, in uscita in questi giorni con Ediesse, le due autrici passano al setaccio nove aziende italiane che si sono distinte per aver adottato importanti misure di pari opportunità a favore dei dipendenti valutandone l’impatto sul loro benessere e sulle loro prospettive di carriera.

Perché se l’adozione di politiche family-friendly da parte delle aziende è sempre più diffusa, il punto è capire non solo l’impegno della proprietà a perseguirli concretamente ma anche l’effetto che questi strumenti hanno sul lavoro delle donne. Sono utilizzati? Sono utili? In genere le ricerche o si soffermano sulle politiche o si addentrano nelle pratiche: Di Santo e Villante prendono invece in considerazione entrambi gli aspetti. Le imprese oggetto dello studio variano di dimensione e locazione geografica ma sono all’avanguardia in materia di strumenti di flessibilità oraria (part-time, flex-time, banca delle ore, ecc.), di congedi (integrazione dello stipendio da parte dell’azienda, paternità obbligatoria), di servizi per l’infanzia (nidi o voucher) e di azioni di “empowerment” e formazione al management.

Molti gli effetti benefici che le due ricercatrici riscontrano, confermando i risultati della letteratura sul tema: un luogo di lavoro women-friendly aumenta la produttività e riduce i costi per l’azienda, migliora la condizione economica delle donne e la soddisfazione di tutti i dipendenti. Non mancano però le controindicazioni. Ecco la prima – banale quanto scomoda – verità: anche nelle imprese che da anni hanno introdotto l’ottica di genere nella gestione delle risorse umane il part-time e i congedi parentali sono utilizzati solo pressoché dalle donne. Ciò significa che i ruoli di cura ricadono ancora quasi esclusivamente su di loro. Le conseguenze sono note: il part-time non ha nessun effetto o addirittura ha un impatto negativo sia sulla presenza femminile nei ruoli apicali (segregazione verticale) che sulla “settarizzazione” delle mansioni (segregazione orizzontale).

I casi presi in considerazione confermano questa dinamica, tant’è che le autrici ammettono come ci sia ancora “molto da fare per trasformare l’organizzazione del lavoro” e che pure in tali imprese “le donne fanno fatica ad arrivare a livelli di responsabilità”. Insomma, per quanto la riduzione dell’orario lavorativo consenta a un maggior numero di donne di entrare nel mercato del lavoro (vedi il caso olandese), la “qualità” di questo lavoro resta discutibile, con il tetto di cristallo che, paradossalmente, diventa sempre più duro da infrangere. A meno che il part-time venga concesso ai ruoli manageriali (come accade in un caso del libro) e, soprattutto, sia equamente distribuito tra uomini e donne (circostanza quest’ultima che, invece, non avviene). Perché il vero nocciolo della questione è proprio questo: la distribuzione delle responsabilità di cura tra i sessi. Finché ciò non accadrà, ogni teoria delle “preferenze” non potrà che scontrarsi con la realtà, e cioè con il fatto che la maggior parte delle donne, come molte ricerche empiriche dimostrano, non vorrebbe scegliere tra i figli e il lavoro. E invece è costretta a farlo.

Riequilibrare le responsabilità domestiche tra i sessi diventa allora la chiave di volta di ogni politica. Non sempre però i legislatori ne sono consapevoli, complice la (molto italiana) tendenza a considerare la cura una prerogativa femminile. Così, le due autrici denunciano le corte vedute della politica: il programma Italia 2020, per esempio, siglato dagli allora ministri Maurizio Sacconi (Lavoro) e Mara Carfagna (Pari Opportunità), “fa molto più riferimento alla questione della conciliazione lavoro-famiglia delle donne, piuttosto che alla condivisione delle responsabilità familiari tra i sessi”. Esattamente all’opposto della direzione intrapresa dall’Unione Europea. E’ tempo insomma di soffermarsi sui contenuti e sull’impatto delle politiche: il rischio altrimenti è perdersi in proclami o, ancor peggio, rafforzare i ruoli tradizionali di genere, con buona pace delle nuove esigenze (lavorative e di cura) di uomini e donne.

 

Camilla Gaiaschi ha recentemente pubblicato, sullo stesso tema, l’articolo "La conciliazione vita-lavoro fa bene alle donne?" sul blog La Ventisettesima Ora del Corriere della Sera.

 

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