A decidere il voto Usa potrebbe essere anche la natalità.
Martedì 5 novembre si terranno le elezioni presidenziali statunitensi e, in una campagna elettorale senza precedenti che ha visto l’avvicendamento in corsa tra i democratici Joe Biden e Kamala Harris, si è parlato molto anche di quanti figli fanno gli americani. E di quanti non ne fanno più.
“Il calo delle nascite in America sta diventando un tema importante per le elezioni”, ha scritto ad inizio settembre il Washington Post. Ad agosto, il magazine Slate si è spinto ancora più in là definendo l’imminente voto The Fertility Election.
Il tasso di fecondità degli Usa è in calo da anni ed ha raggiunto il punto più basso in oltre un secolo: nel 2023, spiega una nota del National Center for Health Statistics, “è diminuito del 3% rispetto al 2022, raggiungendo un minimo storico. Questo segna il secondo anno consecutivo di calo, dopo un breve aumento dell’1% tra il 2020 e il 2021. Dal 2014 al 2020, il tasso è diminuito costantemente del 2% all’anno”.
Il dibattito USA sulla fertilità
È vero, i dati statunitensi rimangono molto più alti di quelli europei e italiani: il numero di figli per donna in Usa è intorno a 1,7 mentre quello Ue è 1,4 circa e quello del nostro Paese è sceso a 1,2. Ciò nonostante, il calo delle nascite si è fatto sentire nel dibattito politico tra i candidati a presidenza e vice presidenza: Donald Trump e JD Vance per i Repubblicani, Kamala Harris e Tim Walz per i Democratici.
“Siamo nel bel mezzo di una strana elezione in cui la politica della fertilità sta prendendo il sopravvento”, ha scritto su Slate la giornalista e avvocata Jill Filipovic, citando diversi episodi legati ai protagonisti della campagna elettorale. Vance ad esempio ha ripetutamente inveito contro le donne senza figli definendole “gattare” e ha detto che i genitori dovrebbero avere più voti delle persone senza figli. Walz invece ha parlato apertamente di come i suoi due bambini siano nati grazie alla fecondazione in vitro e ha proposto di migliorare i congedi per i genitori.
Si è discusso anche di sostegni economici, di facilitazioni nell’accesso alle cure contro l’infertilità e, soprattutto, di aborto. In questo contesto, sottolinea Filipovic, “le decisioni sulla procreazione sono state ridotte a semplici argomenti di discussione partitica”. Se questa ulteriore polarizzazione avrà un impatto sull’esito del voto Usa lo si saprà tra pochi giorni. Il caso statunitense, però, è interessante a prescindere perché si inscrive in una tendenza più ampia, che tocca anche il nostro Paese: quella di una crescente attenzione – e polarizzazione – della politica sulla questione della natalità.
Secondo Gianpiero Dalla Zuanna, professore di Demografia all’Università di Padova, a livello internazionale si registra “una crescita di interesse per la biopolitica, tutti quei temi politici che hanno a che fare con i diversi momenti della vita delle persone”, dalle nascite all’aborto fino all’eutanasia. “Nello specifico, poi, per quanto riguarda la natalità, la politica percepisce le difficoltà delle persone, capisce che quello del fare o non fare figli è un tasto molto dolente”, aggiunge.
La natalità non è esclusiva di una parte politica
In Europa questo è un fenomeno ormai ben visibile in diversi Paesi. A gennaio il presidente francese Macron ha parlato di “riarmo demografico” lanciando un piano per aumentare le nascite, in calo anche in un Paese che ha storicamente un tasso di fecondità tra i più alti del continente. Appelli e piani simili sono stati promossi negli ultimi anni anche nei Paesi scandinavi, come Norvegia, Finlandia e Svezia.
Il tema della natalità però è stato cavalcato soprattutto a destra. É il caso della Polonia e dell’Ungheria, per esempio, che hanno approvato costose politiche fatte di sostanziosi sussidi monetari per le famiglie con figli. Ma anche dell’Italia, dove il Governo Meloni ha sempre citato la natalità tra le priorità dell’esecutivo.
Un’agenda concreta per agire (velocemente) sulla natalità italiana
Secondo la giornalista Eleonora Voltolina si è progressivamente affermata una “narrazione conservatrice della natalità” legata a “una visione antiquata del concetto di coppia e famiglia”. Proprio per questo, nel 2022, Voltolina ha lanciato il progetto di informazione The Why Wait Agenda, che ha “un carattere profondamente laico e pro-choice” e, per questo, crede “nella libertà di ogni persona si scegliere se avere figli, quanti averne, quando averne”.
Secondo Voltolina, “non è affatto detto che tutti i partiti di destra siano ugualmente portatori di una visione antistorica e reazionaria della famiglia”, ma ad oggi molti di essi hanno una piattaforma valoriale che non rappresenta “una grande parte di persone che fanno i conti con la difficoltà di fare figli”. In questo senso “un aspetto che mi disturba tantissimo della narrazione corrente è che spesso accusa le donne senza figli di essere egoiste o contro natura” continua.
Il punto è lo stesso che ha destato scalpore durante la campagna elettorale Usa, quando sono riemerse le dichiarazioni del 2021 di JD Vance in cui definiva alcune politiche democratiche, tra cui Harris, “un gruppo di gattare senza figli con vite miserabili”. Criticato da più parti, il candidato repubblicano alla vicepresidenza ha difeso quell’espressione sarcastica e ha spiegato di voler dire che “l’intera nostra società è diventata scettica e persino ostile all’idea di avere figli”.
Niente figli: scelta o costrizione?
L’affermazione di Vance è forte, esagerata e difficilmente verificabile. Si possono però citare dati, proporre riflessioni e fare paragoni per inquadrare la questione in maniera più costruttiva e capire in che contesto socio-culturale si collochi. Negli Usa, secondo un sondaggio del Pew Research Center, “circa quattro elettori su dieci (43%) affermano che il fatto che le persone abbiano meno figli non è né positivo né negativo per la società; il 35% vede questa tendenza negativamente, mentre il 22% afferma che è positiva per la società”. In Italia, secondo una rilevazione di Ipsos, alla domanda se vorrebbero o progettano di avere figli in futuro il 30% degli adulti senza figli risponde: “No, non è un mio desiderio/progetto”.
“Oggi diventare madre o padre è una scelta molto riflettuta, molto più che in passato. Questo perché deve esserci la possibilità di conciliare l’essere genitore con altre importanti dimensioni della vita, come il lavoro”, commenta Manuela Naldini, professoressa di sociologia della famiglia all’Università degli studi di Torino.
“Oggi, un figlio lo si cerca quando i benefici sono considerati superiori alle noie che un bambino porterà. E la valutazione dei benefici è molto cambiata rispetto al passato” aggiunge Dalla Zuanna. Questo nuovo atteggiamento da parte dei possibili futuri genitori secondo il demografo è diventato “un rumore di fondo” presente nei Paesi cosiddetti occidentali. È un elemento ormai saldamente inserito dell’equazione natalità. Ma, nel contesto italiano, non è oggi quello più determinante. A contribuire al calo delle nascite, infatti, nel nostro Paese non è tanto chi è idealmente “ostile all’idea di avere figli”, ma soprattutto chi ne rimane senza per ragioni concrete, di natura economica o conciliativa.
“La grandissima parte delle persone senza figli è childless piuttosto che childfree, ossia è senza figli per costrizione, piuttosto che per scelta. I motivi economici sono quelli prevalenti”, ha scritto il Dalla Zuanna su Neodemos. A dimostrarlo è il fatto che “le donne senza figli sono più numerose nelle aree più povere del Paese, addirittura il 40% fra le attuali quarantenni in Sardegna, Calabria, Basilicata e Molise, contro il 25% nel Triveneto”.
A conferma di ciò vi sono anche altri dati raccolti da Ipsos: tra chi non desidera figli o li vorrebbe ma non prima di 5 anni, il 35% degli intervistati cita motivazioni lavorative (con un picco del 44% al Sud) e il 34% adduce motivazioni economiche personali (con il nord sopra media, al 37%). Viene quindi da chiedersi, a fronte di dati sulle nascite che continuano a peggiorare, la crescente attenzione politica al tema quali misure abbia prodotto.
La necessità di misure strutturali
“Negli ultimi anni e in particolare con il Governo Meloni c’è stata una certa enfasi sulla denatalità. Tuttavia, le misure prese hanno messo l’accento su dimensioni poco attente alla natura del problema e cioè la differenza che esiste nel nostro Paese tra il numero di figli desiderati e la fecondità poi effettivamente realizzata” riflette la professoressa Naldini. La sociologa si riferisce al cosiddetto fertility gap, che è presente in molti Paesi occidentali ma che è molto più marcato in quelli dell’Europa meridionale, con l’Italia tra i peggiori insieme a Grecia e Spagna.
Anche Voltolina mette l’accento su questo concetto. “Quale obiettivo hanno le politiche approvate finora? Alzare il tasso di fecondità o ridurre il fertility gap? Per me, non vanno convinte le persone a fare figli, ma le persone che li vogliono vanno messe nelle condizioni di farli. Questo in un Paese come l’Italia porterebbe automaticamente ad aumentare anche il tasso di fecondità”, ragiona la promotrice di The Why Wait Agenda.
Ma quali sarebbero le misure più auspicabili per farlo? Tra esperti e accademici c’è consenso sul fatto che servano provvedimenti strutturali e stabili. L’assegno unico universale, in tal senso, ha molti elementi positivi mentre i bonus una tantum, solitamente erogati alla nascita e rinnovati di anno in anno, sembrano molto meno efficaci.
“L’Assegno Unico Universale è stato un compromesso alto e bipartisan, cosa che sarebbe sempre auspicabile su temi come questo” commenta Dalla Zuanna. “Per incidere sulle scelte delle persone, serve un respiro pluriennale, come pluriennale è un figlio. Non c’è niente di peggio di misure che durano un anno e poi vengono cambiate.”, chiosa. Eppure, una Legge di Bilancio dopo l’altra, sono anni che in Italia vengono finanziati i cosiddetti bonus bebé. L’ultimo caso è quello della Carta per i nuovi nati, appena proposta dal Governo.
Per Voltolina, “i fondi per la natalità vanno spesi, ma non così. Servono investimenti per il congedo di paternità paritario e per i servizi per l’infanzia, tra cui gli asili nido”. A suo parere, non sono solo misure preferibili, perché portano benefici maggiori all’intera collettività, ma anche provvedimenti sui quali è più difficile fare marcia indietro.
Investire nel capitale umano
C’è infine un’altra dimensione del problema natalità che raramente viene evidenziata da chi nel campo conservatore ne ha fatto un cavallo di battaglia politico. E che, anzi, a volte viene troppo spesso offuscata proprio dal tempo e dai fondi spesi per approvare misure che hanno risultati scarsi o limitati, ma che garantiscono un certo consenso politico, proprio come i bonus per le nascite.
Questa dimensione è l’investimento sociale.
“La stragrande maggioranza dei bambini in Italia nasce all’interno di una coppia: per questo i giovani andrebbero aiutati a trovare rapidamente un lavoro sicuro e un reddito decente per mettere su famiglia”, sottolinea il demografo Dalla Zuanna. I problemi sono tanti: dalla disoccupazione giovanile alla precarietà fino al difficile accesso alla casa. Non vanno affrontati singolarmente. Secondo Naldini bisogna agire in maniera sistematica con interventi che partono dalla primissima infanzia e arrivano fino ai percorsi di autonomia economica e abitativa per i giovani adulti. Solo così è possibile investire concretamente sulle nuove generazioni e creare capitale sociale.
Questi sono temi storicamente poco ricorrenti a destra e nel panorama conservatore o, se presenti, sono usati in chiave escludente. Al contempo è raro che vengano collegati dalle forze di sinistra e progressiste ai temi della natalità e, in generale, della volontà di avere figli. A conferma di ciò, Voltolina dice di aver assistito più volte a reazioni di “sorpresa”, quando ha presentato le idee di The Why Wait Agenda in questo ultimo paio di anni. “Era come se le persone pensassero: ‘Ma quindi, questo tema si può guardare anche da questo punto di vista?’”, racconta. La giornalista pensa che la forza del suo progetto stia nel considerare tutti insieme gli elementi che possono essere di ostacolo al fare figli, anziché concentrarsi su uno solo, ad esempio i costi, o l’infertilità. Il suo lavoro di informazione sta contribuendo a diffondere posizioni poco presenti nel dibattito pubblico, e ancora minoritarie in quello politico.
In Italia, conferma Naldini, c’è ancora poca attenzione per le dimensioni dell’investimento sociale e del capitale umano relativamente ai temi della natalità che invece “complessivamente, potrebbero contribuire a delle scelte di fecondità più felici di quelle che vediamo oggi nel nostro Paese”.