Secondo le stime della Banca mondiale, a livello globale la pandemia ha bruciato circa 250 milioni di posti di lavoro e creato più di 150 milioni di nuovi poveri. I Paesi più colpiti sono quelli del Sud-Est asiatico e dell’Africa sub-sahariana. Quelli che hanno retto meglio sono invece i Paesi della Ue. Il merito va in larga parte attribuito al cosiddetto “modello sociale europeo“, ossia alla presenza di sistemi di welfare (compresa la sanità) generosi e inclusivi, ai quali nell’ultimo anno si sono aggiunte misure straordinarie di sostegno alle categorie più vulnerabili.
La società del rischio
Il Covid 19 ha drammaticamente confermato la tesi del sociologo Ulrich Beck: oggi viviamo in una “società del rischio“, più ricca di opportunità ma anche più esposta agli effetti di una mondializzazione molto difficile da gestire e controllare. Per restare all’avanguardia nel mondo, il welfare europeo va aggiornato. Alcuni dei rischi tradizionali (pensiamo alla vecchiaia, definita come «età superiore ai 67 anni») non generano più, automaticamente, bisogni; mentre i bisogni collegati ai nuovi rischi di salute pubblica o quelli legati al cambiamento climatico e tecnologico non sono ancora adeguatamente protetti.
L’importanza dell’Europa sociale
Prima del Covid-19, il modello sociale europeo era una somma di modelli nazionali caratterizzati da principi e pratiche simili, entro un quadro comune sovranazionale. Uno dei cambiamenti indotti dalla pandemia è stato il rafforzamento del ruolo della Ue: dalla semplice regolazione del “sociale” in Europa, si è passati alla presenza diretta dell’ “Europa” nel sociale, tramite spesa pubblica finanziata da debito comune. Nella primavera del 2020 è stato introdotto lo schema Sure, per il co-finanziamento delle casse integrazioni nazionali. Poi è arrivato il pacchetto Next Generation Eu, che per un quarto è volto a sostenere la modernizzazione delle infrastrutture sociali dei Paesi membri: sanità, istruzione e formazione, servizi sociali.
Una svolta provvisoria o permanente?
Secondo i Paesi cosiddetti «frugali» (Austria, Olanda, Danimarca e Svezia), i nuovi schemi devono restare un’eccezione, appena possibile occorre ripristinare lo status quo. Francia, Italia e Spagna si sono invece già espresse per renderli permanenti. Come sempre, l’ago della bilancia è la Germania, attualmente divisa: l’esito delle elezioni di settembre sarà importante anche su questo versante.
Il tema della sussidiarietà
I leader frugali osteggiano l’idea di «più Europa nel sociale» in base a due argomenti. Il primo è che i loro elettori sono contrari. Ma i sondaggi segnalano che non è più così: la pandemia ha rafforzato lo spirito comunitario. In secondo luogo, i frugali invocano il principio di sussidiarietà: inutile assegnare a Bruxelles compiti che possono essere svolti dai governi nazionali. Si tratta tuttavia di un’arma spuntata, anzi di un boomerang. La pandemia ha dimostrato che la Ue è diventata un’unica, grande società del rischio, nessun Paese può farcela da solo. L’integrazione economica in quanto tale è diventata essa stessa una fonte di destabilizzazione, che può avvantaggiare alcuni Paesi a scapito di altri (pensiamo alla concorrenza fiscale). La logica della sussidiarietà impone oggi il contrario di ciò che vorrebbero i Paesi frugali: l’accentramento di alcune funzioni che non possono più essere efficacemente gestite a livello nazionale.
La condivisione del rischio
Federico Fubini ha ben descritto sul Corriere di domenica scorsa i possibili costi sociali della transizione verde. Ridurre le emissioni è diventata una priorità della Ue. I vantaggi della de-carbonizzazione (o i danni del non-aggiustamento) travalicheranno i confini fra Paesi, nessuno potrà difendersi costruendo barriere. È dunque interesse comune condividere il rischio: che non è solo economico e sociale, ma anche politico. Gli inevitabili sacrifici occupazionali o il maggior costo di alcuni consumi potrebbero infatti generare aspre proteste sociali (come è già avvenuto in Francia con i gilets jaunes) e alimentare nuove ondate di euroscetticismo.
La ricerca dell’equilibrio
In buona misura, la sfida da affrontare oggi è simile a quella che accompagnò il passaggio dalla società agraria a quella industriale. La principale differenza è che la conciliazione fra le esigenze dell’economia e quelle di protezione sociale deve oggi essere cercata a livello paneuropeo. Dobbiamo costruire un “modello sociale Ue”, basato su un duplice equilibrio: fra sfera del mercato e sfera del welfare, da un lato, e fra livello nazionale e sovranazionale, dall’altro lato. Nella sua drammaticità, la pandemia ha creato le condizioni favorevoli per questo salto di scala. Come ha iniziato a fare, il governo italiano deve impegnarsi a fondo sia in Italia sia in Europa affinché l’occasione non venga sprecata.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 9 agosto ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.