Il seguente articolo è ripreso integralmente dal numero 3/2020 di Rivista Solidea, pubblicazione curata dall’omonima Società di Mutuo Soccorso del Sociale e dedicata ai temi del lavoro, del welfare e della mutualità.


Sappiamo che le disparità di genere costituiscono uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo sostenibile, alla crescita economica e alla lotta contro la povertà. L’obiettivo 5 dell’agenda ONU 2030 fornisce le linee su cui i governi devono concentrare i loro sforzi. È dunque necessario agire concretamente questa sfida epocale e universale: cambiare tutto, oppure perdere irreparabilmente la possibilità di guardare al futuro, di investire sul futuro, anche in termini creativi.

Si tratta allora di andare ben oltre la questione di parità di genere o di giustizia sociale. Infatti per l’Obiettivo 5 dell’Agenda ONU 2030, la parità di genere, l’emancipazione e l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze non è un tema tra gli altri, ma il TEMA strategico che trasversalmente segna tutti gli altri obiettivi. Nessuno di essi può esser affrontato senza quella lente di genere che prevede un ruolo attivo, di protagonismo e di empowerment delle donne, nessuna società può prosperare se spreca, disperde, saccheggia la metà delle sue risorse umane.


Obiettivi ambizioni e stato dell’arte

Chi parla di obiettivi ambiziosi, ancora una volta dimentica o rimuove che questi obiettivi hanno una lunga storia di battaglie condotte negli anni dalle donne, battaglie che hanno avuto il loro apice nella Quarta Conferenza Mondiale sulle donne di Pechino e il Forum delle ONG che si svolsero tra il 4 e il 15 settembre 1995, nella capitale cinese e nella provincia di Hanoui.
Un momento storico, perché è da Pechino, 25 anni fa, che i movimenti delle donne di tutto il mondo hanno affermato la loro pretesa di “guardare il mondo con occhi di donna” e hanno urlato che “i diritti delle donne sono diritti umani”.

Parole chiave come “punto di vista di genere”, “empowerment”, “mainstreaming”, “rete”, da allora sono entrate nel dibattito femminista e anche in quello di governi e società. “Eguaglianza, sviluppo, pace” furono le parole chiave di questa quarta edizione. Quanto ai temi, religione, economia, formazione, mass media, guerra, comunicazione, sessualità, rappresentarono, attraverso i nessi che le donne presenti costruirono, una diagnosi globale dei problemi delle donne per poi passare alla elaborazione di una strategia mondiale per affrontarli.

La Piattaforma d’azione di Pechino, sottoscritta da 189 Paesi, divenne il documento ufficiale alla base di questa strategia e fu articolata in dodici aree critiche per la condizione femminile: povertà, istruzione e formazione, salute (sessualità), violenza contro le donne, conflitti armati, economia, potere e processi decisionali, meccanismi per favorire il progresso, diritti fondamentali, media, ambiente, bambine.
Il documento stabilì anche i meccanismi e gli obiettivi che ogni Stato avrebbe dovuto darsi per la partecipazione attiva delle donne nella vita pubblica e privata.

In 25 anni molto è stato fatto. Ma quanto ancora si potrebbe e dovrebbe fare esattamente sulle stesse dodici aree critiche e, in particolare, per raggiungere gli obiettivi fissati dall’Agenda 2030?

Proviamo a fare il punto

Facciamo il punto a partire da alcuni dati, prendendo in considerazione le aree critiche più paradigmatiche ovvero povertà, istruzione e formazione, salute sessuale e riproduttiva, violenza che, come vedremo, sono strettamente intrecciate tra loro.

Nella relazione sul Bilancio di Genere del Mef, illustrata in audizione alle commissioni Bilancio di Senato e Camera dalla sottosegretaria all’Economia, Cecilia Guerra, si legge: «Il reddito medio delle donne italiane rappresenta circa il 59,5% di quello degli uomini a livello complessivo. La diversità dei redditi si riflette anche nel gettito fiscale con una minore aliquota media per le donne, con l’unica eccezione del più basso decimo di reddito. Queste evidenze sulle disuguaglianze di genere nei redditi, quando non derivanti da vere e proprie discriminazioni sul mercato del lavoro a scapito delle donne, sono in larga parte il riflesso della “specializzazione” di genere tra lavoro retribuito e non retribuito».

Se è vero, come è vero, che l’Italia è il Paese che ha registrato complessivamente i maggiori progressi nel periodo 2005-2017 per contrastare il gender gap, sulla base dell’Eu Gender Equality Index, il nostro resta ancora l’ultimo Paese in Ue per quanto riguarda il mondo del lavoro, con il tasso di occupazione femminile ancora molto basso (50,1%) e una distanza di 17,9 punti percentuali da quello maschile.

Come scrive Barbara De Micheli in un articolo del 26 ottobre scorso, dedicato al ruolo delle donne nella pandemia: «Le donne, oltre a farsi carico in modo prevalente delle attività di cura, e quindi a essere più esposte alle conseguenze legate alla chiusura dei servizi di istruzione, sanità e welfare, spesso svolgono professioni precarie e fragili e quindi più a rischio in momenti di crisi».

Questo, in sintesi, il quadro italiano, mentre sappiamo che in larga parte del mondo la condizione delle donne, per quanto attiene la loro situazione economica, è disastrosa e i dati ci dicono che del miliardo e 300 milioni di poveri nel mondo, il 70% circa sono donne, un dato la cui gravità aumenta se si esamina l’aspetto qualitativo oltre quello quantitativo.

Indice di povertà umana: quale posizione per le donne nel mondo?

Il programma di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite che si impegna a proporre una “crescita favorevole ai poveriha elaborato da tempo, anche grazie all’analisi fatta dai movimenti delle donne, un nuovo modo di concettualizzare la povertà, affermando che non è solo sul reddito che noi possiamo definire una condizione di povertà. Esiste un concetto più complesso, che si chiama Indice di
povertà umana
, che potremmo riassumere come povertà di diritti, ovvero quella di coloro che non hanno le risorse necessarie per garantirsi alcune sicurezze di base: ad esempio il non essere sfrattati, poter conservare accesso alla terra, ma anche poter accedere al credito in mancanza di garanzie.

Se si definisce la povertà in base ai criteri della povertà umana (non ho diritto di partecipare alla vita politica, non ho accesso alle cure mediche, non ho accesso all’educazione, ho difficoltà di accesso ai beni collettivi materiali e culturali) allora una donna può a tutti gli effetti considerarsi impoverita, deprivata, tanto quanto una persona che non ha disponibilità di reddito. Dunque, in tutti questi aspetti della povertà (che oggi sono ormai costitutivi di una immagine complessa e pluridimensionale) le donne sono sovra-rappresentate.

La prospettiva di genere per un futuro migliore

È urgente e necessario un capovolgimento di sguardo in cui le donne vengano riconosciute come protagoniste delle scelte del futuro. Servono strumenti di welfare, servizi educativi per l’infanzia, infrastrutture sociali, ma non solo.

In tutto il mondo, seppur con condizioni di vita differenti, le donne che conoscono la vulnerabilità delle vite e la loro interdipendenza, propongono un cambio di paradigma che metta al centro la cura.

La cultura economica che conosciamo è caratterizzata da una ferrea distinzione tra economico/non economico, lavoro/non lavoro e, considerando che la produzione di valori di scambio è la principale attività economica, il solo lavoro considerato è quello “retribuito”. Ancora le responsabilità dell’economico appartengono all’uomo, le responsabilità del non economico alla donna. Su questa dicotomia sono costruite le relazioni sociali e anche interpersonali che strutturano le relazioni di potere tra i sessi.

Smarcarsi da questa dicotomia vuol dire mettere al centro la sostenibilità della vita, costruire una visione del mondo che dà valore ai legami tra economico, sociale, culturale e simbolico e ristabilire un ordine simmetrico tra i generi.