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Questo articolo è parte del numero 2/2024 di Rivista Solidea, pubblicazione promossa dall’omonima Società di mutuo soccorso e parte del network del nostro Laboratorio.

Il non profit in sanità

Secondo l’ultimo censimento Istat (2023) nel 2021 le istituzioni non profit (INP) che operano in ambito sanitario erano 12.578, il 3,5%. Le INP che operano in ambito sanitario sono sono tra le più longeve – il 62% è antecedente al 2004 – e strutturate.  Impiegano l’11% dei dipendenti del non profit, terze dopo i settori dell’Assistenza sociale e protezione civile e attività ricreative e di socializzazione, e in media 40 volontari, la media più alta di tutti i settori (il dato medio nazionale è di 18 volontari). Inoltre il 91% delle INP attive in sanità usa almeno una tecnologia digitale, una percentuale seconda solo a quelle del settore delle relazioni sindacali e ben sopra la media complessiva, 79,5%.

Guardando alla rete di rapporti sociali ed economici in cui sono inserite, gli stakeholder con cui le INP attive in sanità hanno relazioni significative sono nella maggior parte dei casi Aziende sanitarie locali, ospedaliere o di servizi pubblici alla persona (51% contro il 9,5% della media delle altre INP), seguite da Regioni ed enti pubblici locali, 37%; e Scuole, università e centri di ricerca, 21%. Solo il 23% ha avuto relazioni significative con altre istituzioni non profit, segnale di come vada migliorato il coordinamento e la sinergia interna al settore non profit.

Concentrandosi sul volontariato, secondo il Report Nazionale sulle Organizzazioni di Volontariato, dieci anni fa si contavano ben 5.230 associazioni di volontariato impegnate nel ramo della sanità. Il volontariato in sanità offre svariati servizi: trasporto e soccorso, assistenza ai malati, orientamento ai servizi, supporto a familiari e caregiver, raccolta fondi per attrezzature e ricerca, attività di prevenzione e promozione della salute, donazione di sangue, organi, tessuti. In virtù dell’azione capillare che svolgono sui territori e delle relazioni che stringono con i cittadini e le comunità locali, le organizzazioni di volontariato svolgono inoltre un ruolo di needs-detectors e di intermediazione tra la cittadinanza e le istituzioni. Esse intercettano infatti molto spesso le persone più fragili, quelle che non hanno ancora avuto accesso ai servizi esistenti (Costa e De Luca 2022).

Il contributo di volontariato e Terzo Settore alla riforma della sanità

Le organizzazioni che operano nell’ambito della sanità sono inoltre organizzazioni strutturate – hanno almeno tre organi di gestione -, spesso hanno personalità giuridica e un patrimonio, hanno quasi sempre uno statuto e nella maggior parte dei casi un regolamento, delle linee guida per i volontari, in modo da sapere come devono comportarsi rispetto agli utenti. Nel 75% dei casi cooperano con i servizi pubblici attraverso convenzioni con le amministrazioni, in particolare con le aziende sanitarie locali. Le risorse economiche che queste organizzazioni acquisiscono sono soprattutto pubbliche – nel 62% dei casi dipendono da questo tipo di finanziamento (Mucchetti 2016).

Per la loro capacità di intercettare bisogni e offrire risposte, per l’elevato livello di professionalizzazione e strutturazione, e per la loro esperienza di collaborazione coi soggetti pubblici sarebbero quindi soggetti particolarmente idonei e in parte “già pronti” per essere coinvolti nella programmazione dei servizi sanitari (e non solo socio-sanitari) territoriali, secondo appunto quanto indicato nel DM 77/2022, Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale.

La leva del PNRR

Sulla scia dell’esperienza pandemica, il PNRR ha inteso potenziare il sistema sanitario destinando alla Missione Salute 15,63 miliardi di euro, pari all’8,16% dell’importo totale – ma complessivamente le risorse straordinarie superano i 20 miliardi di euro. Gli interventi della Missione Salute sono divisi in due Componenti, la prima dedicata a “Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale”, la seconda a “Innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale”.

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Con il DM 77/2022, che sulla base del PNRR ha definito i modelli e gli standard di riferimento per la rete territoriale, è stato attivato un radicale processo di rinnovamento e potenziamento dei servizi territoriali per la salute. È soprattutto con le Case di Comunità, perno della riforma, che si punta a orientare tali servizi verso un approccio sistemico, collaborativo e partecipativo. In realtà esse non costituiscono del tutto una novità: già le Case della Salute, introdotte nel 2007, avrebbero dovuto favorire la partecipazione democratica e il contributo di cittadini e associazioni di tutela dei pazienti alla programmazione dei servizi e delle attività, ed andare nella direzione dell’integrazione socio-sanitaria, in particolar modo attraverso lo Sportello unico di accesso (PUA) e il Centro unico di prenotazioni (CUP).

Tuttavia, solo alcune Regioni e solo alcuni contesti locali sono riusciti a andare in questa direzione. Secondo la relazione realizzata nel 2020 dal Dipartimento della Conferenza delle Regioni su incarico del Dipartimento Affari Sociali e Sanità del Servizio Studi della Camera dei Deputati, solo 13 Regioni e Province Autonome avevano previsto Case delle Salute o strutture similari (ne sono un esempio le strutture sanitarie territoriali in cui è prevista l’integrazione tra medici di medicina generale/pediatri di libera scelta e i servizi sanitari delle Aziende Unità Sanitarie Locali, come le Case della Salute, le Unità Complesse di Cura Primaria, i Presidi Territoriali Assistenziali).

La sanità territoriale tra piani, decreti, sfide e… silenzi

Il DM 77 dovrebbe aggiungere un tassello ulteriore: non parliamo più di Case della Salute, ma di Case di Comunità. Entra così anche in salute, con un po’ di ritardo rispetto ad altri settori, il paradigma del welfare di comunità, che vede l’apertura dei servizi pubblici ai soggetti della comunità e non solo in fase di erogazione – come di fatto già accade da tempo – ma anche in quella di programmazione. Le comunità quindi dovrebbero essere coinvolte nella lettura dei bisogni, nella progettazione delle soluzioni e nella messa a terra delle risposte, in un modo il più possibile coordinato.

Le buone intenzioni, tuttavia, si stanno scontrando con la realtà. Anzitutto, i monitoraggi mostrano che il percorso attuativo di Case di Comunità, Ospedali di Comunità e COT è fortemente rallentato o, in numerose Regioni, addirittura fermo (AGENAS 2024); c’è poi il nodo della carenza di personale, soprattutto di quei professionisti, come medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e infermieri, che in queste Case dovrebbero operare. E soprattutto – rilevante per l’oggetto del presente articolo – l’ambigua questione del coinvolgimento del Terzo Settore. Infatti, fatto salvo di enunciare il principio del coinvolgimento delle comunità, il PNRR nella Missione 6 non fa esplicito riferimento al Terzo Settore e tantomeno alla riforma del Terzo Settore e all’art. 55 del Codice del Terzo settore, che invece trovano spazio nella Missione 5, dedicata all’inclusione sociale e alla coesione, che pur si collega e si integra con la Missione 6, per quanto attiene disabilità e anziani.

Si confermerebbe quindi un approccio in cui la sanità si apre al Terzo Settore solo nella misura in cui i problemi sanitari si vanno a sovrapporre a quelli sociali, quindi un’apertura nell’ambito più strettamente socio-sanitario (e non sanitario “a 360 gradi”). La stessa tendenza si riscontra anche analizzando i provvedimenti regionali (siano esse delibere, programmi o azioni specifiche). Benché molti dei piani sanitari e dei piani di assistenza territoriale facciano riferimento a comunità, Terzo Settore e cittadini, in genere non vengono previsti luoghi o processi in cui il loro coinvolgimento trovi spazio e valorizzazione. Di fatto dunque la scelta viene lasciata alla singola Azienda sanitaria, se non alla singola Casa di comunità.

Come migliorare i sistemi di cura e prossimità grazie al PNRR

A fare la differenza risultano anzitutto “l’attitudine” del Direttore dell’azienda sanitaria locale, cioè la sua conoscenza del Terzo Settore sia in termini di relazioni personali che del suo funzionamento. Inoltre, precedenti esperienze di collaborazione più o meno formalizzata, tra aziende sanitarie e Terzo Settore e la presenza di una cornice di riferimento in cui l’azione possa collocarsi (es. regolamenti sull’amministrazione condivisa, accordi o convenzioni precedenti) costituiscono un terreno fertile su cui quanto previsto dal DM 77 può trovare attuazione. Ciò tanto a livello locale che regionale. È chiaro che in quelle Regioni dove erano già stati avviati percorsi partecipativi e dove ci si era già mossi in questa direzione con le Case della Salute, sussistono ora strumenti, reti e processi già avviati che facilitano l’implementazione del DM 77/2022.

Le soluzioni possibili

Come spiegato, i modelli preesistenti sono destinati a condizionare gli esiti della riforma e in particolare la possibilità di realizzare Case di Comunità che siano veramente spazi di cittadinanza e di integrazione socio-sanitaria, evitando che si fermino all’essere poliambulatori, luoghi di mera aggregazione di servizi sanitari rafforzando così una logica prestazionale.

A questo proposito sarebbe utile incoraggiare percorsi e coprogettazioni che coinvolgano aziende sanitarie e Terzo settore, anche piccole azioni concrete su cui iniziare a sperimentare collaborazioni e sinergie. Molto importante è inoltre investire nella formazione, tanto dei professionisti sanitari che degli ETS, alimentando la conoscenza reciproca e fornendo loro una cornice e un linguaggio comune di riferimento.

Case della Comunità: obiettivi e percorsi di integrazione socio-sanitaria condivisi

Più in generale, è urgente promuovere la conoscenza della riforma della sanità territoriale: molti cittadini non ne conoscono contenuti e aspetti operativi. Faticano già a riconoscere le Case di Comunità come “luoghi sanitari”, ancora meno come spazi “di comunità” – tra l’altro in un momento in cui a causa della chiusura di servizi e reparti e delle lunghe liste di attesa percepiscono un arretramento del sistema sanitario nazionale, non un suo rinnovamento.

Promuovere le Case di Comunità e riempirle di servizi e attività anche progettando con il Terzo settore potrebbe quindi avvicinare servizi e cittadini, contribuendo a rinnovare la medicina territoriale secondo un approccio comunitario.

 

 

Bibliografia

Foto di copertina: Karolina Kaboompics, Pexels.com