Più 27%. È la crescita fatta registrare dal tasso di fecondità in Ungheria tra 2010 e 2021. Nel Paese del primo ministro Viktor Orbán, che è salito al potere proprio nel 2010, il numero medio di figli per donna in questi undici anni è passato da 1,25 a 1,59.
Il dato è anni luce distante da quello dell’Italia, che nello stesso periodo ha fatto registrare una contrazione del 14% da 1,46 figli a 1,25 per donna, in media. Pochi giorni fa Istat ha confermato un nuovo record negativo di nascite: 393.000 nel 2022, in calo dell’1,7% rispetto all’anno prima
La crescita ungherese, però, è significativa anche rispetto all’intera Unione Europea, che nel suo complesso fatica a trovare soluzioni alla questione demografica. Da un lato, lo è perché di casi simili di crescita delle nascite ce ne sono pochi, per esempio quello Ceco o Tedesco. Dall’altro perché avviene in un Paese guidato da un leader che ha fatto della natalità una questione centrale della sua retorica identitaria.
“In tutta Europa ci sono sempre meno bambini e la risposta dell’Occidente è la migrazione”, ha detto Orbán in un discorso ufficiale del 2019. “Gli ungheresi la vedono in modo diverso. Non abbiamo bisogno di numeri, ma di bambini ungheresi”.
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Stesse politiche, significato diverso
In realtà, “tutto questo non nasce con Orbán, ma lo precede”, spiega Stefano Bottoni, professore di storia contemporanea dell’Università degli studi di Firenze. La questione demografica in Ungheria è sentita da tempo, praticamente da sempre.
“Da quando l’Ungheria è diventata indipendente dalla fine della prima guerra mondiale, il tema del declino della popolazione è sempre stato centrale, ed è stato affrontato concentrandosi sul supporto alla famiglia tradizionale con sussidi per i padri lavoratori”, concorda Tomasz Inglot, professore di scienze politiche alla Minnesota State University.
Inglot spiega che la demografia in Ungheria ha sempre avuto un elemento ideologico: un Paese piccolo e minacciato, che ha una popolazione in calo e che, per questo, si sente ancora più debole. Anche durante il comunismo, secondo il professore, questo era un tema ricorrente e il sostegno alle famiglie per avere figli è sempre stato presente anche durante il regime.
“Oggi il contesto è cambiato, ma c’è continuità. Orbán sa che il tema è popolare, unificatore. È sempre stato una priorità, un po’ come in Francia, con la quale vi sono alcune similitudini”, commenta Inglot. Insomma, per il docente, il primo ministro ungherese “non sta facendo niente di nuovo, ma gli ha dato un nuovo significato, connesso alla sua ideologia populista e anti-immigrazione”.
Politiche per la natalità: per il Governo è il momento di fare i conti
Protettori del welfare
Il contesto cui si riferisce Inglot va delineato a partire da quando Orbán, alla guida del suo partito Fidesz, è diventato primo ministro per la seconda volta, nel 2010.
Fidesz è salito al potere in Ungheria, ha scritto la ricercatrice Dorottya Szikra, “in una profonda crisi economica e politica. Il precedente governo socialista aveva gestito la crisi globale del 2008 con tagli ai principali programmi di welfare. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea, da cui il Paese ha ricevuto prestiti, hanno imposto stretti vincoli al bilancio. All’opposizione, Fidesz ha condotto una campagna contro i tagli al welfare, le privatizzazioni e il ruolo delle agenzie sovranazionali”. Così facendo “alla fine degli anni Duemila, Fidesz si è affermato con successo sul piano narrativo come protettore del welfare degli ungheresi”. E, in questo tipo di welfare, come abbiamo visto, un ruolo storicamente importante lo ricoprono le politiche per la famiglia.
Questa non è una tendenza solo ungherese. Il quadro all’interno del quale Orbán si è mosso è anche di tipo regionale e legato ai Paesi del cosiddetto Gruppo di Visegrad. “Negli ultimi due decenni, il sostegno finanziario alle famiglie in Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia è aumentato notevolmente. Si è anche politicizzato: i sussidi mensili in denaro, gli assegni parentali e le agevolazioni fiscali sono diventati un mezzo importante per i governi per cercare popolarità e legittimità e, allo stesso tempo, per perseguire obiettivi pro natalità”, hanno scritto Zuzanna Brzozowska e Tomáš Sobotka, su Neodemos.
Per il demografo Giancarlo Blangiardo, vi è “un modello Est Europa” tra le soluzioni che i Paesi Ue stanno provando a mettere in atto per rispondere al problema demografico. “Vi è l’approccio nordico, fatto di servizi e condivisione tra i genitori. Vi sono quelli specifici dei grandi Paesi come Francia e Germania”, ci spiega il professore dell’Università degli studi di Milano-Bicocca che è stato in passato anche presidente dell’Istat. “E poi – aggiunge – vi è quello dell’Ungheria e di altri Stati dell’Europa orientale come la Repubblica Ceca, che incentiva i giovani a mettere su famiglia relativamente presto e quindi rende più facile fare anche il secondo figlio”.
Ma quali sono esattamente le misure adottate dal governo di Budapest?
E quali i risultati?
Le misure per la natalità dell’Ungheria
Il “pacchetto completo” delle misure per le famiglie in Ungheria, spiega il professor Inglot, “è molto ampio”. E si è andato costituendo negli anni di governo del partito di Orbán.
“Il primo anno di Fidesz è stato intenso e ricco di cambiamenti paradigmatici nelle politiche sociali. Il governo ha ripristinato la durata del congedo universale per la cura dei bambini, ridotto da tre a due anni dal governo socialista. Inoltre, l’Esecutivo di Orban ha stabilito generosi sgravi fiscali per le famiglie, promuovendo in particolare le famiglie ad alto reddito con tre o più figli”, ha scritto ancora Szikra.
I contributi economici per le famiglie con figli, infatti, oggi sono diversi. Si va dall’assegno familiare (Családi pótlék, in ungherese) a quello per la cura dei bambini (Gyermekgondozást segítő ellátás o GYES) fino al Sostegno all’educazione dei figli (Gyermeknevelési támogatás o GYET), che sostengono genitori e famigliari dai primi mesi di vita dei minori fino alla maggiore età, con formule diverse che vanno dai 32 ai 75 euro circa al mese.
“Nel vasto e complesso sistema di sostegno alle famiglie, gli assegni universali per i figli sono piuttosto bassi e il loro valore relativo è diminuito nel tempo”, spiegano Brzozowska e Sobotka sempre su Neodemos. “Si è prestata molta più attenzione alle prestazioni che dipendono dai salari, comprese le agevolazioni fiscali, e all’erogazione di sussidi per l’assistenza all’infanzia ai genitori che crescono figli di età inferiore ai tre anni. L’elemento principale di questo sostegno è l’assegno di assistenza all’infanzia (GYED), che ammonta al 70% del guadagno precedente del genitore. Dal 2014, questo sussidio può essere richiesto anche dai genitori che continuano a lavorare a tempo parziale o a tempo pieno”, aggiungono i ricercatori.
Il GYED viene erogato fino al compimento dei due anni di età del figlio e può arrivare a un importo massimo mensile pari al 70% del doppio del salario minimo, e quindi a quasi 860 euro per il 2023.
Non solo. Attualmente, in Ungheria, le donne che hanno più di quattro figli sono esentate a vita dal pagare le tasse, chi ha figli e acquista una casa per la prima volta ha un sostegno finanziario di circa 35.000 euro, mentre le coppie sposate con più di tre figli hanno ulteriori aiuti, tra cui un sussidio per l’acquisto di automobili da sette posti e un prestito di circa 30.000 per il mantenimento dei figli stessi.
Sostegni esclusivi e effetti paradossali
Le misure adottate sono quindi ampie e numerose, ma non universali. Anzi. Vanno nella direzione opposta, per diversi motivi.
Il primo è molto importante e riguarda la definizione di famiglia che viene usata dallo stato ungherese. “Esclude molte categorie, tra cui le persone LGBT e migranti”, riprende il professor Inglot.
La seconda ragione riguarda la natura delle misure stesse. “La motivazione principale dei cambiamenti nella politica familiare – spiega la ricercatrice Szikra – è diventata l’aumento dei tassi di fertilità delle famiglie “responsabili”, cioè “che lavorano””. Cosa significa? Lo spiega una pubblicazione del 2020 dell’Istituto di Ricerca Demografica ungherese, che abbiamo contattato per approfondimenti ma che ha preferito non rispondere alle nostre domande.
“Negli ultimi anni – vi si legge – l’enfasi si è spostata in modo sostanziale verso prestazioni che dipendono dal salario lavorativo, mentre la spesa per le prestazioni familiari universalmente garantite è diminuita. L’importo speso per gli assegni familiari (che coprono il maggior numero di famiglie) è diminuito di anno in anno. Il motivo è che la bassa fertilità ha portato a un calo del numero di famiglie con figli, e l’importo dell’assegno familiare – a differenza del sussidio per l’assistenza all’infanzia – non è stato aumentato per 10 anni. Lo stesso si può dire per l’assegno di assistenza all’infanzia universalmente garantito (GYES)”. In pratica, la scelta politica è stata quella di puntare su sostegni alle famiglie i cui membri lavorano a discapito delle misure universali, che riguardano tutte le famiglie a prescindere dalla loro condizione occupazionale, che ancora esistono, ma che sono state molto poco finanziate.
C’è poi la questione del matrimonio.“Molti benefici – spiega lo storico Bottoni – sono dati soltanto a coppie sposate e così le persone si sposano per ottenerli. In Ungheria, però, il divorzio è possibile da molto prima che in Italia e la società è molto secolarizzata”. Le misure per le famiglie generano quindi risultati paradossali. Quando le coppie si separano le conseguenze possono essere molto forti:“la gente finisce rovinata perché magari come famiglia aveva fatto un mutuo o comprato casa, anche grazie ai sussidi pubblici” che, in alcuni casi, vanno restituiti. Il finanziamento di 30.000 euro per chi fa 3 figli, per esempio, può essere richiesto da tutte le coppie sposate in anticipo rispetto alle nascite, ma se poi queste persone non riescono ad avere 3 bambini, devono ridare i soldi allo Stato.
Infine, c’è da tenere in considerazione anche la condivisione dei compiti di cura e familiari, che in Ungheria è ancora fortemente sbilanciata e che non sembra trarre benefici dalle politiche messe in atto. “In Ungheria, gli studi sulla divisione dei lavori domestici all’interno delle famiglie hanno dimostrato che, nonostante la loro partecipazione al mercato del lavoro sia molto elevata, le donne tradizionalmente si fanno carico delle responsabilità domestiche”, ha scritto in un articolo Zsuzsanna Veroszta, dell’Istituto di Ricerca Demografica ungherese. E per di più, aggiunge lo studio della ricercatrice “dopo la prima nascita che l’equilibrio del lavoro domestico tra i partner si inclina più fortemente a sfavore delle donne”.
Ungheria: un modello da seguire?
Il modello ungherese è, insomma, controverso. È messo in pratica da un governo semi-autoritario che esclude molte categorie. Ed è costoso. Secondo i dati Eurostat relativi al 2021, l’Ungheria spende il 2,3% del PIL in protezione sociale a favore di famiglie e minori, un dato molto superiore a quello medio Ue e a quello italiano, fermo all’1,1%. Addirittura, secondo dei calcoli dell’esecutivo di Budapest, che tengono anche degli sgravi fiscali, la spesa pubblica complessiva a favore delle famiglie toccherebbe il 5,5% del prodotto interno lordo nazionale.
A fronte di un investimento così forte, quali obiettivi si possono dire raggiunti? “Negli ultimi anni – ha scritto l’Istituto di Ricerca Demografica ungherese – anche se il tasso di fertilità è cresciuto, il numero di bambini nati è rimasto stagnante in Ungheria. Ciò è dovuto a un forte calo del numero di donne in età fertile” e, quindi, “secondo le proiezioni demografiche, la popolazione del Paese continuerà a diminuire”.
Per Blangiardo, però, il bicchiere di Budapest può essere considerato mezzo pieno, seppur con diverse cautele. “L’Ungheria di Orbán ha invertito la tendenza e rialzato il tasso di fertilità: è già un buon risultato. Certo, bisogna stare a vedere: i figli fatti oggi non li fai domani e quindi un boom può anche essere seguito da un crollo”, commenta il demografo.
“Un effetto iniziale c’è stato, ma poi il tasso di fertilità si è di fatto stabilizzato”, aggiunge Inglot, che ci tiene a precisare come il tasso di fertilità “è determinato da così tanti fattori che è difficile legare una sua crescita ai soli aiuti statali”.
Proprio il tasso di fertilità, dopo le crescita registrata nel periodo 2010-2021, lo scorso anno ha fatto segnare la prima battuta di arresto, retrocedendo da 1,59 a 1,52 figli per donna. Non un calo drastico, ma un potenziale campanello d’allarme. Anche per chi, in Italia, soprattutto durante la discussione sulla Legge di bilancio, guarda a Budapest come modello cui ispirarsi.