Il dibattito socio politico intorno alla "ripresa" dell’Italia per via di qualche decimale di PIL in più lascia veramente stupiti. Se si guardasse con un po’ di onestà intellettuale la reale situazione del nostro Paese nel suo complesso – considerando oltre al PIL altri fattori come gli indicatori del Rapporto BES, il Benessere Equo e Sostenibile, predisposto dall’ISTAT o i dati, sempre dell’Istat, sugli italiani che vivono in povertà o a rischio povertà, o ancora quelli sulla crescita esponenziale delle disuguaglianze – ci si accorgerebbe sicuramente che il quadro è molto distante dalle fanfare della ripresa economica.
Il 2016 è risultato essere l’anno della definitiva uscita del nostro Paese da una crisi pesante e prolungata che ha cambiato profondamente la struttura produttiva italiana e i comportamenti individuali. Eppure, nonostate alcuni miglioramenti registrati in ambito socio economico – sempre relativi perché basta paragonarli con le altre economie europee per scoprire che l’Italia "cresce" molto meno degli altri Paesi dell’UE – i benefici degli stessi appaiono non omogenei nelle diverse fasce della popolazione e, soprattutto, nelle varie aree della Penisola.
Se la ripresa c’è stata, è innegabile che questa finora sia risultata profondamente diseguale. Guardiamo per esempio alll’occupazione giovanile: le persone tra i 25 e i 34 anni sono quelle che hanno pagato il conto più alto della crisi e non sono stati raggiunti minimamente dalle politiche del Jobs Act. Ad oggi solo 6 su 10 appartenenti a questa fascia risultano in attività e in generale sono 3,2 milioni i Neet (cioè giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano e non lavorano).
E anche per quanto riguarda l’occupazione nel suo complesso, le differenze territoriali appaiono enormi. Guardando il tasso di occupazione (rapporto percentuale occupati su popolazione), scopriamo che a Bolzano lavorano 73 persone su 100 ma a Reggio Calabria invece solo 37 su 100! E le differenze crescono ancora di più se si considera il tasso di occupazione femminile. Praticamente tutto il Meridione appare staccato dal resto del Paese, quasi abbandonato a se stesso.
Con l’esplodere delle disuguaglianze si va consolidando un disagio sociale e un malcontento che finirà per frenare anche quel poco di crescita che ci ha toccato, che appare frutto dei mutamenti in atto nell’economia mondiale più che di sforzi fatti dal nostro Paese. A questo va aggiunto il fatto, come ha rilevato il Rapporto BES 2017, che l’uscita dalla crisi non viene percepita dalla maggioranza degli italiani, che come evidenziato dall’ ultimo rapporto del CENSIS è ormai incline a vivere di "rancore".
Ma probabilmente la prova più clamorosa circa le difficoltà reali del nostro Paese al di là di qualsiasi proclama ce la offrono i dati ISTAT sulla povertà. Nel 2016, stima che le persone residenti in Italia a rischio povertà (comprensive di quelle che già vivono in povertà assoluta o relativa) sono oltre 18 milioni. Si tratta di quasi il 30% del totale della nostra popolazione!
Se la crescita più che modesta del nostro Pil convive con le diseguaglianze e le drammaticità evidenziate, questo è il segno che la crescita degli indicatori economici non necessariamente coincide con la crescita del benessere complessivo delle persone. Il Pil è stato concepito per misurare il valore totale di beni e servizi finali prodotti da un Paese in un determinato periodo di tempo. Fingere di credere che la crescita del Pil sia uguale alla crescita del benessere non solo non è vero da un punto di vista economico, ma non è vero soprattutto se si osserva la realtà in tutti i suoi fattori.
Oggi più che mai occorre pertanto superare una misurazione basata unicamente su uno strumento come il PIL, perché ci offre una visione falsata della realtà. Occorrere in questo senso rafforzare e dare più spazio e visibilità agli indicatori del BES, che ISTAT e CNEL stanno cercando di rilanciare per offrire un punto di vista che sia il più possibile realistico.