Secondo gli indicatori Ue, l’impatto sociale della crisi è stato in Italia un po’ meno forte che negli altri Paesi ad alto debito. Rispetto a Grecia e Portogallo, è stato anche meno regressivo: tutte le fasce di reddito hanno sofferto, non solo (o soprattutto) quelle più basse. Vi è però un’eccezione, costituita dalle famiglie povere con figli a carico e con persona di riferimento disoccupata. E’ su questi nuclei che la scure ha colpito con particolare intensità, relegando il nostro Paese agli ultimissimi posti nelle graduatorie Ue, vicino a Bulgaria e Romania.
Questa vera e propria emergenza dovrà costituire la priorità sociale numero uno del nuovo governo. L’agenda predisposta dai saggi nominati da Napolitano riconosce il problema della povertà, ma resta sorprendentemente timida e conservatrice in merito alle possibili soluzioni. I suoi piatti forti per sostenere il reddito delle famiglie sono il rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga e la salvaguardia dei cosiddetti esodati. Siamo sicuri che convenga congelare l’occupazione esistente tramite deroghe automatiche, anche quando le imprese interessate non hanno alcuna possibilità di riprendersi?
La tutela del reddito potrebbe essere affidata alla nuova Assicurazione per l’impiego (Aspi) introdotta dalla riforma Fornero: è con questo tipo di schemi che gli altri Paesi stanno fronteggiando la crisi occupazionale. Si eviterebbero erogazioni a perdere, da un lato, e si allargherebbe la platea dei potenziali beneficiari, dall’altro lato. Per quanto riguarda gli esodati, fatto salvo il principio generale che non si lascia nessun dipendente senza reddito e senza pensione, non sarebbe meglio astenersi da sanatorie automatiche (tutti in pensione con le vecchie regole) e procedere invece con salvaguardie incrementali e calibrate sulle situazioni concrete di «esodo»? Il rischio da evitare è quello di sempre: aiutare solo gli insider e abbandonare a se stessi tutti gli outsider, in particolare i minori in povertà.
Il Movimento Cinque Stelle vorrebbe, come è noto, il reddito di cittadinanza. Diamo per scontato che la proposta sia quella di un trasferimento minimo garantito, in base a una valutazione delle condizioni di bisogno economico e alla disponibilità all’impiego (o ad altre forme di "attivazione"). La Commissione dei saggi riconosce che schemi di questo genere hanno dato buona prova di sé in molti Paesi. Aggiunge però subito che nelle attuali condizioni di bilancio il reddito minimo è irrealizzabile, a meno di una «decisa redistribuzione delle risorse disponibili». Perché arrendersi così in fretta? Innanzitutto, limitando inizialmente la misura ai nuclei con minori, i costi non sarebbero così proibitivi: poco più dello 0,25% del Pil, quanto si spende per le pensioni sociali.
In secondo luogo, l’obiettivo di una decisa redistribuzione delle risorse disponibili a favore di chi ha veramente bisogno non è più rinviabile. Se ne parla dai tempi della Commissione Onofri (era il 1997); è stato esplicitamente indicato dalla riforma dell’assistenza varata nel 2000; sono state fatte e rifatte varie sperimentazioni; importanti istituti per le ricerche sociali come l’Irs hanno elaborato progetti molto articolati. Possibile che non si possa chiedere a un governo «di larghe intese» di passare dalle parole ai fatti? Anche molti Paesi dell’America Latina ormai dispongono di schemi nazionali di reddito minimo: volendo si può fare anche in Italia. Naturalmente la precondizione è che funzioni uno strumento affidabile di verifica dei redditi. Il varo del nuovo Isee (Indicatore della situazione economica equivalente), lasciato in sospeso dal governo Monti per l’opposizione della regione Lombardia, va dunque anch’esso inserito nel paniere delle priorità (anche i saggi qui concordano).
Come raccomandato dall’Unione europea, le politiche di contrasto alla povertà non devono poggiare soltanto sui trasferimenti, ma anche su servizi: formazione, tirocini, sostegno al reinserimento lavorativo e sociale. È quella logica di «inclusione attiva» che ispira la strategia Europa 2020. Dove trovare le risorse per tutto questo? Un Isee più mirato ed esteso a tutte le prestazioni collegate al reddito genererebbe da solo un notevole flusso di risparmi, a cui potrebbero aggiungersi una parte di quelli provenienti dalla revisione delle detrazioni e deduzioni fiscali. Almeno per la componente servizi, bisogna inoltre sfruttare i margini che si stanno aprendo a livello europeo.
L’Italia potrebbe essere fra i primi Paesi a chiedere e ottenere un «accordo contrattuale» con Bruxelles, che consenta di allentare temporaneamente i vincoli sul deficit e/o di ricevere maggiori risorse dal bilancio Ue. Se si vuole seguire questa strada, è però necessario un progetto serio, presentato da un governo serio. In questo Paese, purtroppo, di questi tempi né l’uno né l’altro possono essere dati per scontati.
*Articolo pubblicato su Il Corriere della Sera del 23 aprile 2013