I dipendenti pubblici sono tre milioni e trecentomila e i loro stipendi costano più di 10 punti di Pil. A prima vista, sembrano cifre enormi, ma tutto è relativo. In confronto ad altri grandi Paesi europei, siamo sotto le medie. Se però usiamo indicatori di rendimento, l’Italia scende verso il fondo delle graduatorie Ue.
Pochi giorni fa, nella sua Relazione annuale, la Corte dei Conti ha puntato il dito contro le «perduranti criticità» del pubblico impiego, riassumibili in due parole: bassa efficienza e scarsa produttività. Le cause sono quelle note da decenni. Si va dall’assenza di controlli e incentivi alla «prevalenza di una cultura giuridica, a scapito di professionalità specifiche» (un giudizio importante, visto che è dato da una «Corte»); dai condizionamenti politici sull’attività gestionale alla diffusa corruzione; dall’eccessiva anzianità del personale ai suoi bassi livelli d’istruzione. È sempre sbagliato fare di ogni erba un fascio. Ma non si può neppure fare finta di niente.
Rispetto ai privati, i dipendenti pubblici sono in una botte di ferro per quanto riguarda il posto di lavoro. È di ieri una sentenza della Cassazione che conferma la non applicabilità della riforma Fornero e del Jobs act al settore statale. Una interpretazione forse non obbligata, ma oggettivamente in linea con il frastagliato quadro normativo vigente. La Corte sostiene che per estendere le nuove regole sul licenziamento ai dipendenti pubblici occorre un intervento di «armonizzazione normativa».
In altre parole: è il governo che deve muoversi. Nel settore statale i sindacati sono molto radicati e altrettanto agguerriti. E poi di mezzo ci sono milioni di voti. Questi due elementi spiegano perché nessuna delle tantissime «riforme» sia riuscita rendere la macchina pubblica più efficiente e produttiva. Il posto a vita è sempre stato un tabù che non si poteva neppure menzionare. Gli ostacoli al cambiamento sono ancora tutti lì. Ma è un segnale positivo che almeno oggi se ne discuta apertamente.
Ci sono almeno due fronti su cui è urgente passare subito dalle parole ai fatti. Il primo riguarda frodi e assenteismo. La sentenza della Cassazione riguardava il caso di un dipendente licenziato perché faceva il doppio lavoro. Il malcostume più diffuso è quello delle assenze abusive e delle vere e proprie frodi in materia di «cartellini». Il governo si appresta a varare un decreto legislativo che dovrebbe accrescere l’effettività delle sanzioni e contrastare il diffuso lassismo di molti giudici del lavoro. Il vero test sarà il comportamento dei dirigenti, ai quali competono sia i controlli sia l’attivazione dei provvedimenti disciplinari.
Il secondo fronte riguarda gli incentivi alla produttività. Si tratta di una questione persino più importante della prima. Non solo per le sue ricadute sul piano del rendimento, ma anche perché una corretta valorizzazione del merito contrasterebbe l’omertà diffusa e attiverebbe un interesse «dal basso» a differenziare tra chi s’impegna e chi no. La prassi dei premi a pioggia deve finire, anzi essere espressamente sanzionata. Marianna Madia ha annunciato un intervento del governo per riordinare la questione del «salario accessorio», legandolo a misurazioni puntuali dei risultati. Era ora. Nel solo comune di Roma sono stati accertati 350 milioni di premi a pioggia indebitamente erogati.
E’ vero che costa poco rispetto agli standard europei. Ma la nostra amministrazione pubblica non vale le risorse che assorbe e ha più che mai bisogno di una scossa. Per diventare più efficiente, facilitare la crescita e, non da ultimo, per recuperare la dignità perduta agli occhi dei cittadini.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Corriere della Sera del 10 giugno 2016