Il periodo di lockdown ha messo al centro del dibattito lo smart working, precedentemente ritenuto da molti come uno strumento per (pochi) visionari. È importante chiarire che il lavoro agile “forzato”, l’home working che ha caratterizzato i mesi appena passati non è lo smart working previsto dalla legge 81/2017 perché ha eliminato un elemento fondante, la volontarietà circa la scelta di tempi e luoghi per praticarlo.
Sono state quindi rilevate diverse forzature e molti limiti nell’utilizzo dello strumento, ma abbiamo comunque potuto sperimentare su larga scala la gran parte dei principi che lo animano: il lavoro per obiettivi, il coordinamento del team, la comunicazione a distanza, una leadership basata più sulla fiducia che sul controllo. Le numerose analisi compiute da diversi soggetti in questi mesi e volte a indagarne gli impatti hanno dimostrato che cambiare modo di lavorare non solo è desiderabile per la maggioranza delle persone, ma è anche possibile, con qualche punto di attenzione che non va dimenticato.
Per tirare le fila di questo lungo "esperimento" di smart working "di massa" e per gettare le prospettive sul futuro, ci siamo confrontati con Arianna Visentini, CEO di Variazioni Srl, società leader nella definizione di percorsi di cambiamento organizzativo e adozione dello smart working.
Il periodo di lockdown è stato un banco di prova per lo smart working. Dal vostro osservatorio qual è il bilancio di questo periodo? Lo smart working ha funzionato oppure no?
Bisogna fare innanzitutto una distinzione tra le aziende che già prevedevano l’utilizzo di questa modalità di lavoro e chi si è trovato improvvisamente a sperimentarla.
Variazioni ha condotto a partire dal mese di aprile una ricerca su un campione di 15.000 rispondenti volta a indagare come lavoratrici e lavoratori del settore privato abbiano vissuto l’esperienza di smart working in emergenza. Ciò che ne è emerso è stata una maggior capacità di sapersi organizzare da parte delle aziende che già prevedevano il lavoro agile e che durante il lockdown hanno esteso considerevolmente la platea di smart worker. Il cambiamento repentino ha sorpreso invece le aziende impreparate, senza regole e procedure necessarie a riorganizzarsi in tempi rapidi.
Nonostante queste criticità le evidenze che abbiamo raccolto dimostrano che lo smart working ha generato valore per i singoli lavoratori e lavoratrici e anche per le aziende: il 70% dei manager ha dichiarato che i propri collaboratori hanno raggiunto gli obiettivi assegnati.
Sul tema del benessere dei lavoratori il dibattito è stato molto acceso in questi mesi e secondo i detrattori dello smart working sono emersi numerosi rischi. Cosa raccontano a tal proposito i dati che avete raccolto?
Nel complesso il quadro appare meno cupo di come è stato spesso raccontato. Dalle evidenze raccolte con la nostra survey le persone si sono adattate al cambiamento e si sono riorganizzate: più dell’80% delle persone ha affrontato bene il lockdown, seppure con qualche difficoltà, e solo il 4% segnala di aver sofferto parzialmente l’isolamento. Inoltre, il 75% del campione è riuscito ad organizzare bene il lavoro, nonostante la convivenza con persone bisognose di attenzioni e cura.
Va fatta una riflessione specifica sui manager che nel complesso dichiarano di aver avuto maggiore difficoltà nel gestire i tempi e sicuramente va considerato il loro ruolo di responsabilità e coordinamento di tutto il team a distanza. Ciò molto probabilmente ha generato delle complessità rispetto alle quali le competenze dei manager si sono rivelate in alcuni casi non totalmente adeguate e questo è certamente un aspetto che dovrà essere tenuto in conto nella pianificazione futura della formazione.
Sono emersi in modo esplicito anche alcuni rischi, parlo dell’overworking e dell’iperconnessione. Questi temi richiedono certamente di essere indagati, è importante che le modalità di gestione e i carichi di lavoro siano ben monitorati. Le persone hanno bisogno di sviluppare una competenza di gestione del tempo e del proprio work life balance.
In generale comunque l’86% dichiara di voler proseguire l’esperienza di smart working e vorrebbe che restasse un’opzione di scelta per il futuro. Nei dibattiti è importante avere fiducia in primis nelle persone e in secondo luogo nei dati che emergono quando le stesse vengono coinvolte.
Si sta parlando molto anche di smart working e mancata conciliazione vita-lavoro delle donne. Iniziata la fase 2 i dati ci hanno raccontato che, dei lavoratori rientrati, il 72% era di genere maschile. Quali sono le responsabilità dello smart working nell’allargamento della forbice tra le opportunità lavorative di uomini e donne?
Da sempre Variazioni insiste nel dire che una migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro è da considerarsi un effetto dello smart working sui lavoratori, ma non l’obiettivo principale che le aziende si pongono quando introducono il lavoro agile in azienda.
Lo smart working è da concepire innanzitutto come una soluzione di natura strategica ed organizzativa, e i dati della nostra survey dimostrano che, quando il lavoro agile viene posizionato e veicolato come strumento di innovazione manageriale, uomini e donne lo utilizzano in egual misura. Durante il lockdown lo smart working ha permesso una ricomposizione e redistribuzione più eterogenea dei carichi di cura e, in linea con i dati Istat, abbiamo rilevato una stessa propensione e attenzione al work-life balance da parte di uomini e donne. Addirittura, le donne hanno percepito maggiormente i vantaggi del lavoro agile rispetto ai colleghi uomini, hanno avuto l’occasione di migliorare le proprie competenze lavorative e di stare in un contesto che ha facilitato la gestione dei propri tempi di vita.
Penso che le criticità rilevate da più fronti, soprattutto nella fase 2, siano generate principalmente dalla mancata riapertura delle scuole in un momento in cui le aziende stanno ripartendo e dall’assenza o insufficienza di servizi ricreativi a sostegno delle famiglie con figli oltre che al drammatico tema di cura degli anziani in un momento di aumento della loro vulnerabilità. Che poi questo scenario porti le famiglie a optare per una rinuncia delle donne al rientro in ufficio e ad una loro “segregazione” nell’home working è un enorme problema, ma che si lega ad aspetti legati più alle carenze del nostro sistema (ad esempio sul fronte della carenza di servizi per l’infanzia, delle disuguaglianze nel mercato del lavoro, della cultura di genere) che all’utilizzo dello smart working che, ci tengo a ripetere, non è da inquadrare come un mero strumento di welfare ma come una vera e propria innovazione organizzativa.
Quali sono le sfide nell’immediato futuro?
Il lockdown è stato un banco di prova che ha messo a nudo falsi miti e convinzioni non fondate. Primo fra tutti quello sull’isolamento. Non è vero che lo smart working rende le relazioni aride. L’ufficio non perde il suo valore, ci sono attività che richiedono la presenza nello stesso luogo, mentre per altre può essere preferibile un contesto al di fuori delle mura aziendali. Il tema degli spazi è una delle sfide più evidenti che ci troveremo a fronteggiare e che non sarebbe stata immaginabile fino a febbraio scorso. A tal proposito il 90% dei rispondenti alla nostra indagine ha risposto che adotterebbe lo smart working per non dover raggiungere il luogo di lavoro quando non necessario e il 70% sceglierebbe di fare smart working per essere più concentrato e produttivo. È nata una nuova consapevolezza e le aziende devono ora capire quali siano le leve per dare un senso tutto nuovo agli spazi di lavoro e renderli più funzionali alle logiche organizzative del futuro.
Il lockdown ha fatto da acceleratore e ci ha catapultato in modo molto più concreto verso il tema dell’innovazione dei modi di lavorare. Oltre al tema degli spazi possiamo individuare almeno altre due importanti sfere di riflessione: l’evoluzione normativa sul fronte contrattuale e retributivo e come cambieranno le dinamiche fra centro e periferia.
La ricerca ha dimostrato che lo smart working favorisce di gran lunga il lavoro per obiettivi, il tempo in tal senso non è fine ma strumento. Questo porta sul fronte della normativa ad un ripensamento della dimensione contrattuale e retributiva. Fino a che al centro si colloca l’orario di lavoro e non l’utilità della prestazione, resterà un modello costruito sulla presenza fisica secondo l’equazione tempo=risultato. Se la prospettiva è la valorizzazione del raggiungimento di risultati le attuali regole contrattuali non saranno più coerenti e andranno ripensate.
Un altro aspetto riguarda la riflessione su centro e periferia. L’emergenza sanitaria ha di fatto svuotato i grandi centri produttivi e animato la provincia, una maggior attuazione dello smart working porterà a generare nuovi equilibri in cui le metropoli dovranno sempre più diventare attrattive dal punto di vista culturale, sociale e associativo e dall’altro i piccoli centri andranno potenziati sul fronte dei servizi per diventare nuove sedi di lavoro dislocate. Una grande opportunità per ripensare i quartieri e le periferie.
Trasversalmente l’ultimo aspetto, ma non per importanza, è quello culturale. Non potrà esserci innovazione senza un cambio di mentalità. Fino a prima della pandemia tutto queste sfide apparivano come utopie lontane anni luce dal nostro presente, c’è voluto uno tsunami che ha travolto il mondo per comprendere quanto un nuovo paradigma organizzativo possa essere un’occasione di cambiamento. Conquistare una nuova visione sul mondo del lavoro, e non solo, resta la sfida più grande.
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