Le imprese che inviano i propri lavoratori in un altro Stato Membro dell’UE per erogare servizi devono versare i contributi sociali nella misura prevista dal Paese di destinazione. Inoltre, gli stessi lavoratori possono essere “distaccati” per un massimo di 12 mesi. Sono queste le due modifiche chiave che Emmanuel Macron vuole apportare alla nuova Direttiva europea sui lavoratori distaccati, al fine di contrastare il “social dumping”.
Semplificando, il problema sollevato dal Presidente francese è quello annoso dei lavoratori dell’Est che “rubano il lavoro” a quelli dell’Ovest, come il famoso idraulico polacco oppure il muratore rumeno. Per risolvere questo problema, Macron non si è limitato a formulare proposte ai tavoli di Bruxelles. A fine agosto, ha incontrato i Primi ministri di Austria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania e Slovacchia, ottenendo un (per ora timido) appoggio.
Una scelta critica per almeno tre ragioni
L’iniziativa dell’Eliseo solleva tuttavia più di una criticità. In primo luogo, le tempistiche. Macron ha messo in discussione il testo della Direttiva dopo un processo di negoziato e revisioni durato diciotto mesi, tutto giocato sulla spaccatura tra Ovest e Est, all’interno sia del Parlamento europeo sia del Consiglio. La bozza di accordo (che deve ancora essere approvata in versione finale) prevede un periodo di distacco massimo di 24 mesi, il doppio di quello ora chiesto da Parigi . Non è prevista l’uniformazione delle aliquote contributive. Le imprese sono “semplicemente” tenute a rispettare le normative dei Paesi di destinazione L’iniziativa di Macron rischierebbe insomma di far saltare il banco.
La seconda criticità riguarda la strategia politica scelta da Macron. Polonia e Ungheria, i paesi membri più recalcitranti, sono stati esclusi dal tour. Parigi reputa impossibile convincere Varsavia e Budapest? O cerca di dividere il fronte di Visegrad? Così sembrerebbe, considerando le promesse fatte ai paesi che hanno partecipato al vertice di Salisburgo: il sostegno all’ingresso nell’area Schengen di Romania e Bulgaria (a quest’ultima anche un aiuto per entrare nell’eurozona), un rallentamento sull’Europa “a due velocità”, pazienza e sconti sulle quote rifugiati.
Il terzo elemento critico riguarda i contenuti. Come ha sottolineato il think tank Bruegel, il social dumping non passa solo (e nemmeno soprattutto) attraverso il distacco dei lavoratori, ma anche attraverso la delocalizzazione delle imprese e le importazioni. Inoltre i ragionamenti di Macron rischiano di essere a senso unico. La stampa polacca ha ad esempio ricordato che la libertà di movimento ha consentito ad aziende come Auchan o Carrefour di conquistare i mercati della distribuzione in molti paesi dell’Est, distruggendo numerose piccole attività locali. I francesi si lamentano se l’idraulico polacco aggiusta i tubi a casa loro, ma sono ben felici se questo compra prodotti francesi nei supermercati francesi di Varsavia o Bucarest. Osservazioni obiettivamente fondate.
Perché allora tanto interesse da parte del Presidente francese? Su Euractiv, Antonia Colibasanu, scrive: “In Francia il nazionalismo è in ascesa […] Macron ha bisogno di far vedere che difende gli interessi francesi”. Eppure, il suo slogan elettorale recitava “L’Europa che protegge” (tutti).
La paura dello straniero nella patria di Chauvin
Come è noto, il tema della mobilità di lavoratori e persone intra-UE (impropriamente chiamato “immigrazione”) ha giocato un ruolo di primissimo piano nella campagna elettorale che ha condotto alla Brexit, il cavallo di battaglia di Nigel Farage e dei conservatori anti-UE. I sentimenti nazionalisti quando non espressamente xenofobi sono però diffusi anche in altri paesi membri e ben rappresentati da formazioni politiche neo-populiste. Il grafico qui sotto da un’idea quantitativa degli atteggiamenti “chauvinisti” per quanto riguarda l’accesso al mercato del lavoro in sei paesi UE. La domanda posta dal sondaggio Rescue prevedeva tre opzioni: l’accesso al mercato del lavoro da parte di cittadini provenienti da altri paesi UE deve essere 1) completamente libero; 2) temporaneo e condizionato alla presenza di un contratto di lavoro; 3) soggetto a filtri che diano priorità ai lavoratori nazionali.
Vi sono notevoli differenze fra paesi. I polacchi sono i più aperti: dopo tutto la mobilità verso altri paesi UE riguarda soprattutto loro. In Germania e Spagna la maggioranza assoluta è a favore dell’apertura incondizionata. In Svezia la percentuale scende al 49% e in Italia al 47%. Nel nostro paese i favorevoli ad un regime di restrizione e priorità per i nazionali è superiore a un terzo del totale: abbastanza sorprendente se si pensa alla nostra storia di emigrazioni verso Germania, Francia e Belgio durante gli anni Cinquanta e Sessanta. E’ però la Francia a registrare il grado più alto di chauvinismo. Ben il 46% vorrebbe un regime discriminatorio nei confronti degli altri lavoratori UE. Del resto sappiamo che il Front National da anni aizza e cavalca le xenofobie dei francesi. E’ questo partito che fece scoppiare l’affaire dell’idraulico polacco una decina di anni fa, schierandosi contro la direttiva Bolkestein. Macron è riuscito a vincere le elezioni con un programma filo-UE. Ma da politico scaltro com’è non può permettersi di ignorare gli umori diffusi della sua opinione pubblica. Dopo tutto, uno dei più famosi progenitori del fanatismo xenofobo era francese. Si chiamava Nicolas Chauvin e faceva il soldato (pare) nella Grande Armata di Napoleone (MF).
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 11 settembre e qui riprodotto previo consenso dell’autore