E’ il paradosso della crisi: disoccupazione giovanile al 42% e tante aziende che non trovano il personale di cui hanno bisogno. Secondo un’indagine di Intesa Sanpaolo sui distretti industriali italiani, antichi mestieri o professioni che richiedono manualità sono richiesti e non trovati da 6 aziende su 10 nei settori calzaturiero-pelletteria e meccanica e da 7 su 10 nei settori casa e moda. Sarti, magliai, rimagliatori, modellisti, operai capaci di fare rifinizioni a mano, fresatori e montatori di scarpe, allestitori, operatori del legno. Ma anche disegnatori tecnici e conduttori di macchine utensili, secondo l’indagine della Fondazione Obiettivo lavoro: le offerte di lavoro sono tante e in costante crescita, ma mancano le professionalità.
Le ragioni sono diverse. La più profonda ha a che fare con un dato culturale: l’idea per cui il lavoro dignitoso sia solo quello intellettuale e che solo questo permetterebbe di emanciparsi, mentre un lavoro manuale è di per sé degradante e, ultimamente, una scuola professionale non può che favorire la diseguaglianza. Non importa, poi, se nella realtà la liceizzazione spinta degli ultimi decenni ha di fatto livellato l’offerta formativa facendo sì che abbandoni scolastici e scarsa qualità dell’istruzione colpiscano maggiormente i poveri e le regioni meno sviluppate.
Si tratta di una mentalità manichea, ammantata di pensiero progressista, che oltre tutto tende a ignorare il fatto che i ragazzi non sono tutti uguali e che solo rispettando le loro diverse attitudini e aspirazioni li si aiuta a crescere e a realizzarsi. Come se la conoscenza agìta dalle mani non fosse vera conoscenza, come se la conoscenza che “eleva” fosse solo quella formalizzata, come se un corso professionale non potesse adeguatamente aiutare a crescere, conoscere, conoscersi, avvantaggiarsi di diverse esperienze.
I mestieri artigianali hanno inoltre a che fare con una capacità tutta particolare di costruire, creare, toccare e trasformare la realtà, contaminarla, entrandoci in un rapporto personale e comunque arricchente. Sono lavori in cui si usano le mani, la testa e il cuore. Non è un caso che da essi nascano le eccellenze del Made in Italy. Ma per scoprire che cimentarsi in un taglio di capelli, fare un bignè, costruire un impianto elettrico possa dare soddisfazione occorrono adulti che vivono questo piacere. Insegnare un mestiere non è facile, non è la mera trasmissione di una tecnica, ma richiede di comunicare un gusto e di saper scoprire capacità, predisposizioni, immaginazione.
Di recente ho fatto visita ad alcune scuole professionali di nuova generazione a Torino e nella bergamasca. Ho incontrato ragazzi che dopo percorsi scolastici sfortunati, non credevano più che quel fuoco, sopito nel loro cuore ma non spento, potesse essere una grande risorsa e guidare le loro mani, renderle pian piano capaci di tagliare il legno e modellare un mobile, costruire un motore, fare di tanti insignificanti alimenti un piatto saporito. I loro insegnanti hanno avuto il coraggio di guardarli davvero, prenderli sul serio, percorrere i loro sentieri a volte desolati e in questo cammino hanno fatto rinascere in loro la domanda di essere, di non buttare via la vita e di scoprire cosa hanno dentro e cosa possono arrivare a fare.
Saper fare, creare, costruire è diventato per loro fonte di conoscenze ed esperienze, anche se costa impegno, fatica e correzione. Qualcuno che desidera educare i ragazzi, amarli prendendoli con sé, incurante dei loro tanti rifiuti è alla fine il segreto di queste nuove “botteghe”, così simili e così diverse da quelle che hanno costruito il genio italiano. Tornare ad educare, anche formando e lavorando, è ciò di cui abbiamo più bisogno.
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