L’Italia sta chiedendo più flessibilità all’Europa sulle regole di bilancio e in cambio promette incisive riforme economiche. La partita è delicata, ma non potrà iniziare sul serio se il governo Renzi non dà prima qualche segnale immediato sulle riforme. Il fronte su cui, giustamente, vi sono le maggiori aspettative è il mercato del lavoro, che funziona malissimo e ostacola la crescita. I dati parlano chiaro.
Su cento italiani fra 20 e 64 anni, meno di 60 hanno un’occupazione. In Germania sono 77, nel Regno Unito 75, in Francia 70. Anche negli altri Paesi c’è stata la crisi, perciò non si può dar la colpa solo a questo. La distanza rispetto ai valori dell’area euro era già molto alta prima del 2008. Nello scorso maggio si sono creati 50 mila nuovi posti di lavoro. È una buona notizia, ma nello stesso mese la Germania ne ha creati (fatte le debite proporzioni) quattro volte di più. Dobbiamo cambiare passo, e alla svelta.
I problemi «strutturali» del mercato del lavoro italiano sono noti. I servizi per l’impiego sono inefficienti e molte imprese non trovano persone con le qualifiche richieste. La cassa integrazione tiene artificialmente in vita aziende e posti di lavoro decotti, mentre gli ammortizzatori sociali non proteggono adeguatamente i veri disoccupati. Fisco e burocrazia scoraggiano gli investimenti, in particolare dall’estero. E, soprattutto, i rapporti di lavoro sono disciplinati da una giungla di norme e di fattispecie contrattuali, peraltro soggette a continui conflitti interpretativi. Oggi in Italia assumere è un vero e proprio terno al lotto. Dal 1996 ad oggi sono state fatte tre grandi riforme (Treu, Biagi e Fornero). Il bilancio? Grandi ambizioni, misure non all’altezza degli obiettivi, applicazioni incomplete, niente valutazione. E nessuna modifica (o quasi) alla disciplina del lavoro a tempo indeterminato, risalente ai primi anni 70.
Il credito che Matteo Renzi si è guadagnato a Bruxelles è in buona parte dovuto agli impegni presi sul fronte dell’occupazione. Il Jobs Act è stato presentato come un provvedimento capace di aggredire, questa volta davvero, i problemi strutturali, inclusa la rigidità in uscita. Sono finora seguite due iniziative concrete: il decreto Poletti sui contratti a termine e il disegno di legge delega sul mercato del lavoro. È proprio su quest’ultimo che il governo deve giocare bene le sue carte. Il testo contiene novità promettenti sugli ammortizzatori e sulle politiche attive.
Ma il vero nodo è l’articolo 4 della delega, dove si prevede una drastica semplificazione del codice del lavoro, rendendolo finalmente certo e comprensibile. Verrebbe inoltre introdotto un contratto di lavoro a tempo indeterminato «a tutele crescenti» in sostituzione dell’attuale disciplina e un «contratto di ricollocazione» per accompagnare i lavoratori nella transizione da un posto ad un altro. Queste innovazioni cambierebbero in modo virtuoso gli incentivi per imprese e lavoratori e segnerebbero una inequivocabile svolta rispetto al passato.
Riuscirà Matteo Renzi a far passare la riforma, superando le resistenze del sindacato e di una parte del Pd? La delega è ferma in Commissione al Senato e si rischia il voto finale a settembre. Un brutto segnale, che certo non depone a favore della serietà e fermezza d’intenti. È chiaro che l’articolo 4 è una forca caudina sul piano politico. Ma se Renzi non sarà capace di attraversarla, la sua credibilità riformatrice ne uscirà indebolita. Forse irrimediabilmente.
Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 21 luglio