"La signorina Kores" – tra qualche riga sveleremo chi è – torna a far mostra di sé e lo fa con un libro collettaneo che raccoglie i contributi di ben diciannove autori. È un libro di storia e di storie, quasi un diario collettivo, “scritto”, in realtà, dalle centinaia di migliaia di donne che a Milano, tra il 1950 e il 1970, nascendovi o arrivandovi come emigranti, hanno trovato l’occasione per vivere le possibilità di emancipazione che il capoluogo lombardo offriva in quegli anni di ricostruzione post bellica e poi di miracolo economico. Moltissime vi erano giunte dalle campagne del Sud del nostro Paese (ma non solo: anche del Veneto e dell’Emilia Romagna) e il loro viaggio, almeno per quelle che l’avevano intrapreso alla ricerca di un lavoro, fu anche il modo per riscattarsi da un destino altrimenti già scritto.
Per una parte di esse, tuttavia (per scelta o perché senza altra occupazione anche a causa della ridotta scolarizzazione o perché il marito non voleva che la moglie lavorasse) il ruolo “sociale” sarà (o continuerà ad essere) quello della “casalinga” (moglie e madre) in un ventennio – quello considerato dal libro – in cui la trasformazione dell’Italia da Paese agricolo a paese industriale aveva progressivamente ridotto le opportunità di lavoro per le donne che avevano abbandonato la terra e la casa d’origine (in fabbrica ci andavano gli uomini, anche se, come vedremo, la componente femminile, almeno in certi settori produttivi, non sarà affatto poco significativa).
Ma le donne che riusciranno a darsi una vita diversa in una grande città del Nord come Milano – e ciò vale per le autoctone come per le emigranti – e che un lavoro sapranno trovarlo e difenderlo, saranno anche la fonte di quella straordinaria energia servita per costruire, con il loro, anche il futuro della città e della nazione. Queste donne parteciperanno da protagoniste ai cambiamenti epocali che si produssero in quella fase della storia italiana e realizzeranno le premesse per la “modernizzazione” della posizione femminile nel mercato del lavoro.
Il libro, pressoché unico nel suo genere – sin dal titolo dato alla sua introduzione, s’incarica di accendere la “luce di una donna che lavora” richiamando, così (e nel vero senso della parola, come tra breve si comprenderà), la luminosa immagine di una nota figura femminile milanese che ha lavorato in città per oltre quarant’anni e senza sosta: “La signorina Kores”, appunto. Qualcuno avrà già capito di chi stiamo parlando, ma per i più provvediamo subito a svelarne il mistero: “La signorina Kores” era il personaggio femminile che in Piazza del Duomo brillava, con i suoi neon intermittenti mentre, scrivendo a macchina, reclamizzava i nastri inchiostrati e la carta-carbone della società “Kores”. La sua era una delle pubblicità luminose che, proprio di fronte alla Madonnina, ricoprivano la facciata di palazzo Carminati e che avevano scandito, con i vari brand succedutisi nel tempo, i successi della Milano industriale e commerciale (non ancora “da bere”), orgogliosa delle sue produzioni e dei suoi consumi.
“La signorina Kores e le altre. Donne e lavoro a Milano 1950-1970” (questo il titolo del libro, edito dalla “Società per l’Enciclopedia delle donne”) intende colmare, anzitutto, un vuoto sin qui prodottosi nella pur copiosa produzione storiografica sul lavoro, un vuoto concernente un brano importante di questa narrazione: quello riferito a Milano ed alla storia del lavoro femminile durante gli anni del “boom” economico italiano.
In ciò sta l’originalità e l’interesse che suscita questo volume: descrivere ed analizzare, con l’ausilio di un ricchissimo corredo fotografico, il contributo che le donne hanno concretamente dato in un periodo (il ventennio 1950-1970 del secolo scorso) durante il quale l’Italia ha, letteralmente, cambiato pelle. Un contributo che soprattutto a Milano – centro propulsore dei cambiamenti avvenuti in quel periodo – si è espresso con particolare evidenza sia quantitativamente (e come vedremo alcuni “numeri” sono sorprendenti, anche perché, prima d’ora, poco o per nulla noti), sia qualitativamente, grazie all’inserimento delle donne in settori emergenti ed innovativi (e per questo, forse, anche meno gerarchici) nei quali, esse stesse, hanno saputo introdurre importanti novità. Il libro, oltre a consentire un’approfondita ricognizione del contributo femminile al “boom”, è anche un doveroso tributo nominativo ad alcune (molte) donne resesi protagoniste del miracolo economico che vengono ricordate con la loro storia e per i loro successi restituendoci un bagaglio d’informazioni altrimenti ben difficilmente acquisibile in un unico testo.
Il messaggio della “signorina Kores”, insomma, è chiaro e lo si comprende sin dalle prime pagine del libro: il “boom” non sarebbe stato possibile senza la partecipazione delle donne, non solo nel lavoro e a Milano, ma nella società italiana complessivamente intesa.
Milàn l’è on gran Milàn
Molti la silhouette della “signorina Kores” se la ricorderanno bene. Per tanti milanesi è un ricordo d’infanzia perché era una pubblicità che incuriosiva anche i bambini: luminosa e in costante movimento, era capace di attirare l’attenzione anche dei “grandi”, grazie all’effetto ottico provocato dal ritmo delle accensioni e degli spegnimenti dei suoi neon che rendevano bene l’idea del gesto compiuto dalle mani della “signorina” ripresa nell’atto di scrivere a macchina. Era, insomma, l’immagine quasi vivente di uno dei lavori femminili allora tra i più diffusi a Milano: quello dell’impiegata (negli uffici delle aziende, negli studi professionali, nelle pubbliche amministrazioni) svolto da migliaia di “signorine”, come allora venivano chiamate.
Dire “signorina”, nel parlato comune, significava sottintendere che la persona cui ci si rivolgeva non era sposata, ma in ambito lavorativo quel termine acquisiva un significato quasi “tecnico”, identificativo di una sorta di “categoria”. Un esempio su tutti è ricordato dal libro: in una famosa banca dell’epoca, all’ingresso di una grande sala che immaginiamo piena di tavoli e macchine per scrivere perfettamente allineate, un apposito cartello delimitava l’area di lavoro: “Signorine”, recitava l’indicazione con inequivocabile chiarezza.
La pubblicità della “Kores” era dunque anche altro: era l’immagine di una delle principali opportunità offerte da Milano alle donne, soprattutto ragazze, per entrare nel mondo del lavoro. Molte di quelle insegne pubblicitarie periodicamente cambiavano ma lei, “la signorina Kores”, ha resistito per decenni ed è sempre stata lì, proprio come fanno i collaboratori davvero engaged (diremmo noi oggi, in aziendalese purissimo): mai un’assenza, sempre “sul pezzo”, proprio come un’insostituibile e fedelissima impiegata. Quasi a suggerire come fare per diventare “La Segretaria dell’anno” (era questo il titolo di uno speciale concorso che, in quel periodo, si svolgeva annualmente in città).
Milano, 1952 – Impiegata al lavoro nel reparto schede perforate nella sede della Cassa di Risparmio di Via Verdi, 2
"Per chi giungeva a Milano in quegli anni, la luce dei neon pubblicitari che dominavano Piazza del Duomo simboleggiava il progresso e la possibilità di accedere ad un futuro migliore", spiega Margherita Marcheselli che con Rossana Di Fazio ha curato l’edizione del libro (entrambe, poi, sono le curatrici anche dell’"Enciclopedia delle Donne", opera online in costante costruzione che dà il nome ad un omonimo sito internet e ad un’associazione). "Il neon della Kores, con la signorina che batte a macchina” – prosegue Margherita Marcheselli – “ha idealmente salutato migliaia di donne per oltre quarant’anni. Era l’immagine di una donna che lavorava, come tante a Milano e la signorina Kores può scrivere le storie delle molte che ha visto passare sotto di sé. Per questo l’abbiamo scelta come protagonista”.
Il volume, dopo un precedente passaggio in Triennale nell’ambito di Bookcity2016, è stato ripresentato il 9 febbraio scorso in una delle sale della Fondazione Aldolfo Pini. Con le curatrici sono intervenuti Filippo Del Corno, Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Maria Canella, docente di Storia della Moda all’Università degli Studi di Milano e Candida Morvillo, giornalista (“Corriere della Sera”, “Io Donna”) e scrittrice.
L’Assessore Del Corno (che, detto per inciso, è un compositore diplomato al Conservatorio di Milano i cui lavori sono stati eseguiti a livello internazionale da famosi interpreti) ha introdotto la presentazione del libro proprio con una suggestione musicale che ci ha ricordato la funzione del metronomo: “La signorina Kores era una sollecitazione visiva, ma anche sonora: con le sue mani che andavano su e giù sulla tastiera, con un ritmo veloce e ininterrotto, segnava quasi il ritmo della città. Un ritmo frenetico, con il quale il lavoro dava la cadenza alla vita quotidiana”.
E lì fuori, oltre le finestre dell’ottocentesco palazzo che ha ospitato la presentazione, si sente pulsare Milano, la città che negli anni presi in considerazione dal libro era (come tuttora è) la città italiana con il maggior tasso di occupazione femminile (attualmente attestato al 65% delle donne residenti). Si tratta di un dato recentemente evidenziato dal progetto EQuIPE 2020 di Italia Lavoro (con un’analisi realizzata per conto del Ministero del Lavoro), il quale ci ha consegnato l’immagine, ben nota, di una città produttiva e laboriosa nella quale (e forse questo è meno noto) il tasso di occupazione femminile ha avuto sviluppi da primato e non solo a livello nazionale. Di ciò ne dà conto, su dati Eurostat 2015, il rapporto “A Milano il lavoro è donna. Il mercato del lavoro milanese in un’ottica di genere” (curato da Roberto Cicciomessere, Lorenzo Zanuso, Anna Maria Ponzellini e Antonella Marsala).
Il capoluogo lombardo si posiziona ai livelli delle grandi capitali del Nord Europa: pur sempre dietro il 74,8% di Helsinki e Stoccolma, il 69,9% di Parigi e il 67,6% di Berlino, ma davanti a Madrid con il 61,7%, Londra con il 60,4% e Bruxelles con il 46,7% (quest’ultima superata anche da Roma con il 57,9%). Milano batte anche il benchmark con la media europea (attestata al 59,6%) ed è nettamente superiore alla media nazionale (molto bassa perché ferma al 47,2% – Istat 2015).
Se consideriamo che, oggi, circa la metà delle persone che lavorano a Milano è donna (48% donne vs. 52% uomini) ciò significa che “la signorina Kores” sarà capace di raccontare una storia del lavoro e un’antropologia di questa città ben diversa da quella che solitamente possiamo immaginare. Anche da questa prospettiva, insomma, “Milàn l’è on grand Milàn”.
Un ventennio straordinario: lavorare alla RAI di Milano
1950-1970: ricostruzione, lavoro e poi “boom” economico. C’è bisogno di moltissime “signorine Kores” e le giovani donne entrano negli uffici delle aziende, delle redazioni dei giornali, delle case editrici e in quelli delle imprese che diventeranno le protagoniste di un nuovo promettente settore: la moda. Le donne entrano anche negli organici della televisione che a Milano rinasce negli anni ‘50 (le prime trasmissioni sperimentali dell’E.I.A.R. – che diventa RAI nel 1944 – erano iniziate proprio nella città meneghina già alla metà degli anni ’30 e s’interruppero a causa della Seconda Guerra mondiale).
Le donne lavoratrici entrano alla RAI non solo come impiegate negli uffici (a Milano l’organico è di ben 400 persone), ma, ovviamente, anche come “volti”. Sono le annunciatrici, le “signorine buonasera” (altre “signorine” quindi), la prima delle quali era di Milano – l’allora ventisettenne Fulvia Colombo. Ma le donne sono anche, e subito, le protagoniste di alcune trasmissioni, non solo come “vallette”: sono presentatrici – come Elda Lanza e Maria Grazia Picchetti – oppure soubrette – prima fra tutte, in quell’alba televisiva, la milanesissima Sandra Mondaini – o sono attrici di teatro scritturate dalla tv – come le milanesi Franca Valeri e Franca Rame.
Qualcuna debutta anche come giornalista – è il caso di Enza Sampò che, a nemmeno vent’anni, conduce “Anni Verdi”, una trasmissione settimanale per gli adolescenti e che “sfonderà”, qualche anno dopo, con Mike Bongiorno ed Enzo Tortora, con “Campanile Sera”, primo quiz televisivo della RAI per il quale girava in esterno collegandosi ogni volta dalla piazza principale di una città diversa. Per intenderci sul “clima” esistente allora rispetto al nuovo modo di porsi della donna, soprattutto di quella che lavora, basterà pensare che siccome in una puntata la Sampò aveva “osato” indossare i pantaloni per questo le piovvero addosso non poche critiche, anche per lettera, da numerosi telespettatori (quindi uomini) a dir poco scandalizzati (il libro ricorda una missiva che la invitava, d’ora in avanti, a starsene a casa perché “una ragazza per bene non se ne sta in mezzo alla piazza in pantaloni”). La Sampò, invece, diventerà anche una delle prime donne a condurre il telegiornale (sia pure nell’edizione del pomeriggio) alternandosi con un’altra donna: Bianca Maria Piccinino che per tantissimi anni sarà la protagonista assoluta dei servizi televisivi sulla moda che intanto Milano crea e produce sempre di più.
Nel ’56 approda alla RAI di Milano Piera Rolandi, giornalista e laureata in giurisprudenza. Sarà lei a realizzare inchieste di qualità nell’ambito di un programma di sua ideazione (“Personalità”) che fu spesso dedicato alla condizione femminile (celebri le puntate intitolate: “Il lavoro di mia moglie” e “Processo alla donna che lavora”).
Non si possono citare tutte, ma tante altre si distinsero nella regia, nella sceneggiatura ed anche in ambiti professionali “tipicamente” maschili (quelli tecnici, come la programmazione elettronica). Quelle che in quegli anni lavorano e hanno successo in televisione sono donne con una marcia in più. Come sottolinea Silvia Cassamagnaghi – ricercatrice di Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Milano e autrice del capitolo che il libro dedica al nuovo spazio lavorativo apertosi per le donne con lo sviluppo della RAI – il denominatore comune “che lega tutte le storie delle donne che lavorarono in televisione, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, è quello della competenza, della capacità, dello studio e della caparbietà”.
Ma lavorare alla RAI, anche come impiegate, è un sogno per poche. Per la maggioranza c’è l’impiego privato altrove e non parliamo solo di “comodi” uffici, ma anche e soprattutto di fabbriche, quindi di operaie. E nel ventennio straordinario essere una e trina (“moglie-madre-lavoratrice”) è davvero dura. Come oggi, del resto.
Un ventennio straordinario: che numeri!
1950-1970: vent’anni intensi e determinanti per la nostra storia, per quella delle donne e per la storia del lavoro e dell’economia più in generale. Il libro la racconta con un corredo fotografico scorrendo il quale, come nei fotogrammi di un lungometraggio, si rivive davvero il “film” dell’evoluzione del lavoro femminile e del ruolo che la donna ha via via assunto nel passaggio epocale che l’ha proiettata, sino ai giorni nostri, in ogni settore e pressoché in ogni possibile ruolo professionale. Sullo sfondo del periodo considerato dal libro c’è il secondo dopoguerra, quando prende avvio l’epoca d’oro dell’industrialismo italiano. E’ in particolare il primo decennio (1950-1960) ad essere caratterizzato da mutamenti socio-economici a dir poco sorprendenti che faranno impennare il prodotto interno lordo a livelli che oggi definiremmo “cinesi” (tra il 1951 e il 1963 il PIL aumentò in media del 5,9% annuo, con un picco dell’8,3% nel 1961).
Prendono avvio la produzione e il consumo di massa favorito, quest’ultimo, dall’ingresso nelle case della réclame (la pubblicità allora si chiamava così) che dilaga e plasma gli stili di vita grazie alla televisione: entrambe, tv e pubblicità, avranno proprio a Milano il loro centro di maggior sviluppo. “Carosello” inizia nel 1957, ma di donne al lavoro raramente ne mostra; gli spot sono incentrati sulla donna intesa come un unico target che “contiene” tre consumatrici interessanti per altrettanti diversi mercati: quello dei prodotti per i figli e l’alimentazione (dai pannolini alle merendine, dal dado per il brodo al lievito per le torte), quelli per la cura della casa (dai detersivi agli elettrodomestici) e quelli di bellezza (le creme, la lacca per i capelli).
Invece le donne al lavoro ci sono e sono tante e non fanno sempre le segretarie o le commesse in sfavillanti negozi del centro, ma stanno in fabbrica, dove si lavora duro, con ritmi e sistemi fordisti alleviati in parte, ma occorreranno anni, dall’automazione di alcuni dei processi produttivi (la Candy nel 1947 produce una lavatrice al giorno: nel 1967 una ogni quindici secondi e l’esempio non è casuale perché l’Italia diventa, proprio in quegli anni, il primo produttore europeo di elettrodomestici, in particolare di frigoriferi).
Milano, 1966, Impiegate fotografate per un articolo dell’house organ della CARIPLO, Archivio Banca Intesa
Lo sviluppo improvviso dell’industria manifatturiera non avverrà senza traumi e tra questi avrà notevole rilevanza la massiccia urbanizzazione d’ingenti schiere di migranti interregionali. In quei vent’anni succede qualcosa di biblico: quasi metà della popolazione si sposta. Saranno milioni gli italiani che abbandoneranno le campagne, specie al Sud (ma anche nel Veneto, da dove emigra lo stesso numero di persone che lascia la Puglia). La gran parte di questa migrazione farà aumentare le popolazioni delle grandi città, tra le quali, ovviamente, Milano che nel 1970 raggiunge il suo record d’insediamenti con quasi 1,7 milioni di abitanti, crescendo del 37% rispetto al 1950. Torino – quasi una company town della FIAT – diventa, di fatto, la terza città “meridionale”, dopo Napoli e Palermo. Una crescita impetuosa, scarsamente guidata dalla politica, che lascerà sul terreno problemi tuttora aperti che le grandi differenze (il lavoro prima di tutto) tra Nord e Sud del Paese ci raccontano ancora ogni giorno.
Tra le grandi trasformazioni vi fu anche il progressivo mutamento del rapporto uomo/donna che inizierà a prodursi in quegli anni per la combinazione di alcuni fattori decisivi (l’emigrazione nelle città, l’affermazione del modello consumistico, l’accresciuto livello di istruzione delle donne, il maggior reddito disponibile, la secolarizzazione della vita quotidiana). Per le donne (del Sud in particolare) l’entrata nel mondo del lavoro – per quanto in posizione svantaggiata rispetto agli uomini – rappresenterà la prima forma di emancipazione dalla gerarchia familiare e la più importante fonte di autonomia finanziaria, pur sempre in un panorama ancorato al ruolo egemone dell’uomo nell’ambito della società e della famiglia (prevale il modello del male bread-winner).
Nonostante il ruolo delle donne nel mercato del lavoro sia ancora subalterno rispetto a quello degli uomini, in quel ventennio le occupate non scesero mai sotto un quarto del totale degli occupati del periodo (oggi sono il 47,2%). Il ruolo delle donne, dunque, fu tutt’altro che trascurabile, seppur secondario in termini quantitativi: a Milano, nel periodo 1950-1970, la forza lavoro femminile crebbe costantemente in numero, ancorché la sua incidenza percentuale abbia evidenziato una certa stabilità (attorno al 30%) dovuta al fatto che, a sua volta, ogni anno cresceva (e di più) anche la forza lavoro maschile.
Un andamento che faceva di Milano, sin dal 1951, la città con l’incidenza di lavoro femminile più elevata a livello nazionale (quest’ultima si attestava al 21,1% e alla fine del periodo considerato, nel 1971, sarebbe arrivata al 27,5%, senza mai raggiungere la percentuale milanese). Questi sono solo alcuni dei dati che Eloisa Betti (ricercatrice all’Università di Bologna) e Barbara Curli (docente di Storia contemporanea e Storia globale all’Università di Torino) utilizzano nel capitolo dedicato all’analisi, anche socio-demografica, del lavoro femminile a Milano negli anni del “boom”. Queste pagine sono ovviamente essenziali per dimensionare il fenomeno e poter maggiormente apprezzare quanto il libro descrive nei capitoli successivi, dedicati ai vari ambiti produttivi nei quali, a Milano, il lavoro delle donne si è espresso.
E di questa presenza che riempiva sempre di più gli spazi che le donne al lavoro, man mano, riuscivano a conquistare se ne accorsero, ben presto, anche gli uomini il cui pensiero poteva identificarsi, all’epoca, in un motivo cantato da Giorgio Gaber intitolato “Donna Donna Donna” (correva l’anno 1959). Una delle strofe recitava “se la donna fino a ieri curava la casa – non aveva che questa mansione – oggi in lei si è già fatto un po’ strada il concetto di emancipazione. Non ho niente in contrario se fuma, se discute in mezzo alla gente, se lavora, se fa una fortuna per sentirsi anche lei indipendente”. Non era propriamente un inno all’indipendenza femminile perché la canzone, alla fine, esprimeva la speranza che “lei”, nonostante i suoi progressi, potesse restare alla fine “comunque una donna”.
Stavano cambiando molte prospettive perché stavano cambiando molto le cose: sempre nel 1959 va in onda, in televisione, “La donna che lavora”, un’inchiesta in sette puntate girata in tutta Italia, mentre l’anno prima un film (“Essere donne”, di Cecilia Mangini) è andato dritto alla questione che sta intanto nascendo (e della quale si discute anche oggi): la conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro. Altro che smart working: nella fabbrica fordista del 1950-70 c’è il caporeparto che ti “prende i tempi” e sui ritmi non si transige. Come evidenzia l’interessante capitolo sui “numeri” del lavoro femminile nella Milano del “boom”, oltre alla giovane età media delle addette (prevalentemente under 30), la rigidità dei ritmi produttivi spiega perché (l’esempio è riferito al 1961) ben il 62,5% delle donne lavoratrici nel settore manifatturiero sia nubile.
Se ci si sposa (e si hanno figli) e se non si viene prima licenziate per questo (all’epoca il matrimonio poteva essere causa della risoluzione del rapporto di lavoro), si resta spesso a casa abbandonando il lavoro (le over 40 sono solo un quarto delle donne attive nel settore considerato verosimilmente per i sopravvenuti carichi familiari). Sorprende (ma fino a un certo punto) che quest’ultima percentuale sia la stessa anche oggi (una donna su quattro lascia l’occupazione per i carichi familiari).
Le donne lavorano fuori e dentro casa. Molte sono “solo” casalinghe, mentre altrettante si sobbarcano anche un lavoro esterno retribuito. In tantissime diventano protagoniste di un altro “boom”: quello demografico. La famiglia – pur con le molte difficoltà che una donna lavoratrice incontra per conciliare vita e lavoro (gli asili comunali, quando li fanno, vengono istituiti con una legge che arriva solo nel 1971) – non solo resiste, ma cresce: sia nel numero dei nuclei che si formano, sia nel numero dei suoi componenti (nascite). Ci si sposa (in quel ventennio la media è prossima alle 400.000 unioni annue, mentre, oggi, ci attestiamo poco sotto la metà) e si fanno figli, tanti figli, almeno rispetto ad oggi. Al 2015 siamo fermi a 1,35 nati per donna, ma nel 1950 il tasso di fecondità è pari a 2,5 con un picco, nel 1963, 1964 e 1965, rispettivamente di 2,55, poi 2,70 ed infine 2,66 figli: è un “boom” anche questo e le generazioni nate in quegli anni saranno successivamente definite, non a caso, come quelle dei “baby boomer”.
Formidabili quegli anni? Attenzione. Se a sposarsi era una donna che lavorava (e che magari aveva conosciuto proprio in azienda il suo futuro marito, come nell’esempio che leggerete) dalla direzione del personale poteva anche arrivare una “letterina” non proprio beneaugurale (nel libro se ne dà conto traendone il testo da un documento del 1966, un primo “Libro bianco sulla condizione femminile nelle fabbriche”). Leggiamola: “Siamo lieti di comunicarle che la direzione ha concesso il permesso per congedo matrimoniale di quindici giorni. Vi rendiamo noto che, dopo il suo matrimonio, la Società dovrà trattenere in servizio solo uno dei due dipendenti, pertanto la preghiamo di regolarsi in conformità”.
La tutela della maternità e il diritto di non essere licenziate in caso di matrimonio vanno a braccetto perché, dopo il varo della legge che tutelava le lavoratrici-madri (Legge 860/1950), in molte aziende – teoricamente almeno fino alla proibizione contenuta nella Legge 7/1963 – invalse la pratica dell’assunzione delle donne con la “clausola di nubilato”: ossia matrimonio uguale prevedibile gravidanza, quindi oneri per l’azienda, quindi licenziamento perché, come ricorda il libro e come recitava nel 1961 un efficace titolo di “Conquiste del Lavoro” (il giornale della Cisl): “donna innamorata, mezza licenziata”. E se proprio non si arrivava a tanto, c’era pur sempre la possibilità (almeno fino a quando non venne limitata dalla Legge 230/1962) di sottoscrivere contratti di lavoro a termine di breve durata, di volta in volta rinnovabili, in modo tale che il datore di lavoro potesse monitorare le scelte esistenziali della lavoratrice: se tra una scadenza di contratto ed il successivo eventuale rinnovo quella si fosse sposata il rinnovo non sarebbe arrivato (così non c’era neppure l’imbarazzo, ammesso che ci fosse, di doverla licenziare).
“Milano produce tutto”
E poi “ha la massima fiera campionaria d’Europa e il maggiore negozio italiano, La Rinascente”. Così Guido Piovene riassumeva Milano nel suo “Viaggio in Italia” (compiuto negli anni ’50 su incarico della RAI). Anche altre città italiane producevano e molto (Torino ad esempio), ma Milano si distingueva per il livello elevato dei consumi, per la grande diversificazione produttiva e quindi per la notevole diversità dei settori economici nei quali il lavoro poteva esprimersi. È in questa versatilità dell’offerta che si pongono le basi per incontrare una domanda capace di grandi adattamenti (e sacrifici) e anche d’innovazione: quella delle donne.
Le milanesi e le emigrate giunte a Milano dalle altre zone del Paese non si sono sempre accontentate di lavorare come “signorine” o come operaie (pur essendo state tantissime quelle addette alla produzione assunte in aziende allora molto note: Geloso, Innocenti, Mivar, Borletti, Osram, Montedison, Brionvega, CGE e l’elenco potrebbe continuare). Certamente a Milano la figura dell’impiegata è un’icona di massa che si consolida proprio negli anni del “boom”: è a Milano, d’altronde, che l’8 giugno di ogni anno si festeggiava la “Giornata della Segretaria” al termine della quale, con un concorso, si eleggeva la “Segretaria italiana dell’anno”.
La ricerca storica compiuta dal libro ci restituisce immagini davvero precise del contesto sociale e lavorativo dell’epoca, sino ad evocare persino le metamorfosi comportamentali che lavorare nella Milano che produce tutto poteva provocare: “Il mio impegno mi dava una certa sicurezza anche nel camminare. La mattina in tram prendevo l’atteggiamento di chi non ha un minuto da perdere”, ricordava l’umbra Flora Volpini in un suo romanzo del 1950.
Tra il 1950 e il 1970 l’industria, almeno in alcuni settori, rappresenta il canale d’ingresso nel mondo del lavoro per molte donne: oltre che nel settore del tessile, dell’abbigliamento e dell’alimentare, le operaie sono presenti nel settore meccanico di precisione e in quello chimico (in quest’ultimo nel 1951, a Milano, si concentrava addirittura più del 40% delle occupate del comparto su base nazionale). Ma negli anni del “boom” le donne che lavorano a Milano fanno anche di più, soprattutto dopo aver studiato: se ancora in molte, tra queste, si orientano verso il tradizionale sbocco dell’insegnamento, altre osano (innovano rispetto ai tradizionali percorsi lavorativi femminili) e diventano designer, stiliste, fotografe, dottoresse, avvocatesse, redattrici e giornaliste: poche nei quotidiani, ma molte nei periodici e non solo nei “femminili” che hanno la loro sede quasi sempre a Milano e nei quali, sin da un altro precedente e ben noto ventennio, la loro presenza è numerosa: alla redazione dell’”Europeo”, per esempio, una delle “firme” è Oriana Fallaci e fino al 1955 c’è anche Camilla Cederna, mentre per un’altra testata prestigiosa, “Il Mondo”, scrive Anna Maria Ortense, una delle più grandi scrittrici italiane del XX secolo. Poi, appena la legge lo consentirà (nel 1963), in numero crescente le donne entreranno in Magistratura fino a diventare, a livello nazionale, la quota maggioritaria di questa professione (oggi, nel 51% dei casi, giudice è una donna).
L’ideale racconto della “La Signorina Kores” ci restituisce anche le note biografiche di alcune delle donne che scelsero percorsi professionali all’epoca inusuali o meno tradizionali. Ci si può così soffermare su personaggi come Anita Klinz, istriana che arriva a Milano nel dopoguerra praticamente a piedi, in cerca di un lavoro. Negli anni ’50 diventerà la prima donna in Italia a raggiungere il ruolo della direzione artistica di una casa editrice del livello della Mondadori (sue sono molte copertine dei libri che compongono le numerose collane editoriali). A lei si affianca Lora Lamm (emigrante al contrario, perché di origine svizzera) che lavorando per Pirelli e La Rinascente diventerà una delle più affermate grafic designer italiane. In quegli anni iniziano i lavori della Linea 1 della metropolitana: tutta la prima segnaletica è progettata da una donna di Milano, Franca Helg, laureatasi al Politecnico e poi divenutane docente negli anni ‘60.
In migliaia lavorano in settori che a Milano “tirano” e fanno decollare l’economia nazionale: le industrie produttrici di elettrodomestici, l’editoria, il design, la moda e la televisione (non solo intesa come servizio televisivo, ma anche come produzione del nuovo e sempre più diffuso “apparecchio”). La Brionvega, ad esempio, ha un’anima femminile, la padovana Rina Brion, che intuisce che il televisore è il futuro e che a Milano costruisce uno stabilimento a ciò dedicato. Ma farà anche di più: assocerà l’apparecchio elettrico domestico (non solo il televisore) all’industrial design facendo collaborare in azienda architetti e designer, sino a vincere, nella “sua” Milano, il Gran Premio Internazionale alla XIII Triennale.
Tagliare, cucire e ricamare: non erano solo tre competenze per diventare una “brava padrona di casa”, ma anche per accedere a un mestiere nel quale essere donna era la regola. A Milano una certa tradizione di atelier era già presente sin dai decenni precedenti, ma dopo il 1945 si assiste ad una proliferazione di laboratori che fanno della Moda (con la maiuscola) il loro core-business. In questo campo le avanguardie sartoriali hanno alla testa delle “sarte” imprenditrici del calibro di Elvira Leonardi (Biki) che trasformerà il look di Maria Callas e di Jole Veneziani, considerabile una delle fondatrici dell’Alta Moda e la cui vicenda professionale esemplifica il contributo dato dall’imprenditorialità femminile alla nascita, ai successi e al consolidamento della moda italiana in quel periodo.
Oltre alla moda il design. Anche in questo settore Milano produce molto e il lavoro femminile ne è protagonista. Nel 1947, alla riapertura della Triennale, nella sezione “Arredamento”, si mette in luce Anna Ferrieri Castelli, laureata in Architettura al Politecnico di Milano (a lei si dovranno poi la progettazione degli uffici dell’Alfa Romeo ad Arese e della Kartell a Binasco di proprietà del marito, Giulio Castelli). A Franca Helg s’è già fatto cenno: qui possiamo aggiungere che negli anni ’60 sarà lei ad “esportare” La Rinascente a Roma, progettando il palazzo destinato ad ospitare nella Capitale il negozio milanese per antonomasia. Nel 1956 nasce a Milano l’ADI, l’Associazione per il Disegno Industriale, della quale nel triennio 1967-1969 sarà, per la prima volta, vicepresidente una donna: Gae Aulenti l’architetta/designer italiana probabilmente più famosa in assoluto.
Le sindacaliste: una storia difficile
Come ha sottolineato Maria Canella nel suo intervento durante la presentazione del libro, “scrivere la storia delle donne è oggettivamente difficile” anche perché “le donne non hanno tenuto traccia della loro storia e tradizionalmente documenti e archivi sono sempre stati gestiti da uomini e in relazione a vicende maschili”. È il caso della storia delle donne sindacaliste, cui non sfugge neppure quella delle sindacaliste milanesi. Sull’attività sindacale delle donne – come evidenzia, nel libro, l’intervento di Debora Migliucci (Vicedirettrice dell’Archivio del Lavoro presso la Camera del Lavoro di Milano) – si è indagato raramente e in modo non organico e certamente si è scritto molto meno rispetto all’operato dei colleghi maschi.
Si è già detto della presenza femminile ed operaia nei settori manifatturieri e dunque non ci si può stupire se le donne metalmeccaniche, peraltro già nel 1947, risultassero sindacalizzate nel 55% dei casi (oltre 20.000 iscritte su 37.000 addette). Le protagoniste femminili del sindacalismo furono generalmente (con)tenute dalla componente maschile in ruoli di secondo piano, benché numerose fossero non solo le “signorine” del sindacato (ossia le impiegate addette alla gestione amministrativa della vita sindacale: raccolta dei contributi, distribuzione delle tessere, gestione logistica delle riunioni nelle sedi), ma anche le donne sindacaliste di base, quelle attive nelle fabbriche. Il libro le racconta con una raccolta fotografica che le mostra spesso alla testa di cortei o mentre parlano al microfono nel corso dei comizi.
Silvestre Loconsolo, Milano 8 marzo 1969
Insomma, anche in questo campo occorreva farsi largo con una certa caparbietà, perché anche lì, nel sindacato, c’era un “padrone” da combattere: il collega sindacalista che di spazio ne offriva poco. I problemi del lavoro femminile cominciano, così, ad essere affrontati in apposite “commissioni femminili sindacali”, inserite sia a livello confederale, sia nelle singole categorie. Prendono così maggior vigore alcune questioni aperte. Intanto quella che vede le donne escluse dal lavoro operaio specializzato, quello che paga di più, quello che se anche svolto, continua a non essere riconosciuto con il corretto inquadramento contrattuale (le donne sono sempre assunte a un livello inferiore e meno costoso per l’azienda rispetto agli uomini addetti ad analoghe mansioni). Altra fondamentale battaglia: la parità salariale, perché le donne guadagnano meno anche a parità di mansione non specializzata. La parità di salario è una battaglia sindacale femminile che proprio a Milano ottiene in quegli anni i primi successi (parziali tuttavia: all’ENI, ad esempio, le donne ottengono la parità salariale soltanto qualora vivano sole). È rileggendo storie come queste che aumenta il disagio provocato dai dati sul gender pay gap che, come sappiamo, è un tema sempre attuale e non solo italiano, collegato a quello del “soffitto di cristallo” che impedisce alle donne di raggiungere le posizioni più remunerative.
Per un nuovo “boom”. Civile.
Alla fine di quegli anni ci saranno la contestazione, l’"autunno caldo", poi i primi drammatici segnali dell’inizio degli “anni di piombo” che avrebbero caratterizzato tutto il decennio 1970-80 (e oltre) e le grandi “battaglie” del femminismo. Milano sarà il centro di molti confronti (e scontri) che risulteranno decisivi per cambiare la società: arriveranno, alla fine del ventennio straordinario, lo Statuto dei Lavoratori (1970) e poi, nel decennio successivo, il referendum sul divorzio (1974) e la legge contro l’aborto clandestino (1978). Come sappiamo queste conquiste sono state anche (e in qualche caso soprattutto) il risultato dell’impegno delle donne.
Emma Bonino che di quelle “battaglie” è stata protagonista e che proprio alla fine di quegli anni viveva a Milano (era studentessa alla Bocconi, dove si laurea nel 1972), commentando il dato sul tasso di occupazione femminile milanese, emerso dal citato Rapporto “A Milano il lavoro è donna”, ha affermato che “Milano è una città per le donne più di altre città”, ma anche che “Milano ha ancora molta strada da fare” e qualche gap da colmare.
Milano, infatti, è stata ed è anche on gran Milàn, ma oggi non è ancora propriamente una città per le donne che lavorano ed hanno figli perché quando ci si scontra con la scarsità dei servizi a misura dei bambini e quando la presenza di servizi per l’infanzia messi a disposizione all’interno delle aziende è, nella normalità dei casi, solo una chimera, si è di fronte a pesanti deterrenti per chi voglia avere figli (o più figli). La diffusione di buone prassi di work-life balance (recentemente enfatizzate dal “lavoro agile” e favorite dall’adozione, sempre più diffusa, di piani di welfare aziendale), certamente aiuta, ma non basta. È allora “la Città” (intesa nel senso della civitas, ossia in tutte le sue componenti attive: aziende, amministrazione, società civile organizzata e sindacati) che dovrebbe fare di più e fornire qualche risposta più concreta.
Se si continua a vivere in un sistema produttivo in cui il modello di sviluppo e di civiltà ha preso forma dalla visione del mondo di un sesso solo, la “questione femminile” resterà sempre aperta. Occorre un cambio di prospettiva e potrebbero (dovrebbero) essere proprio le donne lavoratrici ad orientarlo per prime ed in particolare quelle che, tra loro, abbiano già raggiunto o raggiungeranno in futuro posizioni di responsabilità (pubbliche o private che siano): sono loro (o anche loro) che devono avere l’intraprendenza e il coraggio per mettere in pratica regole nuove, per uscire dai confini conosciuti e proporre innovative modalità di organizzazione del lavoro. Per un nuovo “boom” di crescita. Soprattutto civile.
Riferimenti
Di Fazio E., Marcheselli M. (2016), La signorina Kores e le altre. Donne e lavoro a Milano 1950-1970, Enciclopedia delle Donne
Il sito di Enciclopedia delle Donne