La “povertà di genere” è un fenomeno che si riferisce all’esperienza delle donne di essere sproporzionatamente colpite dalla povertà rispetto agli uomini, a causa di numerosi fattori socioeconomici che limitano la loro partecipazione al lavoro e aumentano il pericolo di vulnerabilità finanziaria.
Secondo il Gender Equality Index (GEI), in Italia, il rischio di povertà per le donne è del 20% e del 18% per gli uomini (2022). Questo squilibrio è radicato in una serie di barriere strutturali che vanno dalla ineguale partecipazione al mercato del lavoro alla sbilanciata distribuzione delle responsabilità di cura all’interno delle famiglie, causando carriere interrotte e guadagni inferiori nel corso della vita. Inoltre, la discriminazione di genere sul lavoro e il mancato accesso a servizi per l’infanzia di qualità contribuiscono ad aumentare i tassi di disoccupazione femminile.
La partecipazione femminile al mercato del lavoro e disparità salariali
L’Italia si colloca tra i Paesi con il tasso di occupazione femminile più basso dell’Unione Europea (UE), pari al 55%, una percentuale decisamente inferiore alla media europea del 69.3% (Eurostat 2022).
Questo dato è ulteriormente aggravato dalla segregazione occupazionale in determinati settori. Le donne, infatti, sono sovrarappresentate nell’istruzione, nella salute e nel lavoro sociale, mentre la loro partecipazione nei settori scientifici e tecnologici (STEM) è nettamente più bassa. Ciò è particolarmente grave perché strettamente legato al divario di genere sia nell’occupazione che nelle retribuzioni. Le competenze STEM, infatti, sono attualmente tra le più richieste e meglio pagate sul mercato del lavoro. Dunque, le scelte educative e professionali hanno un impatto diretto sulle disparità salariali tra uomini e donne.
Inoltre, il divario di genere si estende anche alle pensioni: le donne italiane ricevono in media pensioni inferiori del 33.2% rispetto agli uomini (Eurostat 2019). Lo svantaggio economico dura, dunque, per tutta la vita, riducendo la capacità delle donne di garantirsi una sicurezza finanziaria in età avanzata (ne avevamo parlato qui, ndr).
Anche la pandemia di Covid-19 ha avuto un impatto significativo sull’occupazione femminile in Italia. Poiché maggiormente impiegate nei settori più colpiti dalla crisi, come quelli dell’alberghiero e della ristorazione e il lavoro domestico, le donne hanno registrato una diminuzione della partecipazione al mercato del lavoro circa 2.5 volte maggiore rispetto agli uomini: solo mese dicembre 2020, il 98% delle 100.000 persone che hanno perso il lavoro erano donne (Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026).
Il lavoro di cura non retribuito e l’equilibrio tra vita professionale e familiare
Sebbene in Europa la percentuale di donne coinvolte in attività di cura non retribuite sia comunque superiore a quella degli uomini, il contesto italiano è notevolmente impari, a causa del divario di genere nella cura familiare: l’81% delle donne è impegnato quotidianamente in questa attività rispetto al 20% degli uomini. Le donne italiane dedicano in media cinque ore al giorno al lavoro di cura non retribuito per la famiglia, uno dei tassi più alti tra i Paesi facenti parti dell’OCSE (Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026).
Questo squilibrio nel carico di cura tra uomini e donne, correlato anche alla già esistente disparità salariale, contribuisce a interrompere le carriere delle donne e a ridurre il loro potenziale di guadagno nel corso della vita. Nonostante le donne italiane siano mediamente più istruite degli uomini, con il 65.7% delle donne tra i 25 e i 64 anni aventi almeno un diploma, contro il 60,3% degli uomini, l’interruzione delle carriere dovuta alla maternità e alle responsabilità familiari perpetua il divario occupazionale e salariale (Istat 2023).
Sono laureate, ma anche più disoccupate: il paradosso per le donne nel mondo del lavoro
Inoltre, i dati indicano uno squilibrio significativo dell’occupazione part-time involontaria, con il 33% delle donne occupate che svolgono lavori part-time contro l’8% degli uomini (Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026). A ciò si somma il tema della scarsa disponibilità di strutture per la cura dei bambini da 0 a 2 anni, che porta il tasso di iscrizione a tali servizi in Italia ad essere uno dei più bassi d’Europa (circa il 26%, contro il 33% della media UE).
Anche alla luce della già presente diversità di guadagno tra donne e uomini, le politiche di congedo parentale in Italia non sono sufficientemente inclusive per incoraggiare una condivisione equa delle responsabilità di cura tra madri e padri. Solo il 20.5% del congedo parentale è utilizzato dai padri, percentuale ben inferiore alla media europea (Eurostat 2022).
Inoltre, i divari di genere nel mercato del lavoro si ampliano dopo che le donne hanno figli. Rispetto alle donne senza figli, nei due anni successivi alla maternità, la probabilità che una donna occupata smetta di lavorare raddoppia. In più, le donne che continuano a lavorare dopo la maternità guadagnano il 40% in meno rispetto alle donne senza figli, anche fino a 15 anni dopo il parto, soprattutto a causa della diminuzione delle ore lavorative, spesso dovuta al passaggio a contratti part-time.
Questa penalizzazione contribuisce in modo significativo al divario occupazionale di genere; eliminarla per le neo-madri aumenterebbe il tasso di occupazione femminile del 6.5% entro il 2040.
Le politiche di welfare per la parità di genere
Negli ultimi anni, l’Italia ha introdotto diverse politiche volte a promuovere la parità di genere nel mondo del lavoro e a supportare le famiglie. Tra queste, l’assegno unico universale per i figli e il “bonus mamme”, nonché un esonero contributivo per le madri lavoratrici con almeno tre figli, introdotti rispettivamente nel 2022 e nel 2024, hanno portato a un maggiore sostegno economico del welfare per le donne con figli.
Tuttavia, le critiche a queste misure evidenziano che, pur offrendo un sollievo finanziario non affrontano adeguatamente le cause profonde della disuguaglianza di genere nel lavoro e nella famiglia, e si rivelano insufficienti senza un cambiamento culturale più ampio che sfidi i tradizionali percorsi educativi, il loro divario remunerativo e un maggiore riconoscimento del valore del lavoro di cura non retribuito, che andrebbe equamente distribuito tra uomini e donne.
L’Italia è attualmente al 13° posto in Europa per l’uguaglianza di genere con un punteggio inferiore alla media europea nel GEI (2023). Sebbene ci siano stati progressi, rimangono preoccupanti i dati sull’occupazione e sul carico extra-lavorativo delle donne. Per affrontare queste disuguaglianze, sarà cruciale sviluppare politiche di welfare innovative e mirate.
Solo attraverso una combinazione di riforme strutturali e cambiamenti culturali, l’Italia potrà fare progressi significativi verso una maggiore parità di genere e ridurre la povertà femminile.
Per approfondire
- Carta F., De Philipps M., Rizzica L., Viviano E. (2023), Tackling gender gaps in the Italian labour market: evidence and policy implications, [cepr.org], 12 settembre 2023;