Per una volta il governo francese e italiano non sembrano così distanti nelle loro visioni su cosa l’Unione europea dovrebbe fare. Sia Macron sia Conte chiedono l’adozione di un salario minimo europeo. In realtà, un salario minimo esiste già in quasi tutti gli Stati membri. Ciò che cambia sono i livelli e le modalità di determinazione. Non a caso, la proposta di Macron e Conte mira a contrastare le eccesive disparità di trattamento dei lavoratori all’interno del Mercato unico. Così facendo, essa intreccia due questioni spinose: il salario minimo deve essere deciso a livello nazionale o sovranazionale? E come? Per mezzo della contrattazione collettiva o per via legale? Domande che vanno al cuore delle possibili tensioni tra integrazione europea e sistemi nazionali.
A livello europeo, la garanzia di un salario capace di assicurare un tenore di vita decoroso è stata sancita dalla Carta comunitaria dei diritti sociali dei lavoratori del 1989 e, più recentemente, dal Pilastro europeo dei diritti sociali. Tale garanzia non fa però riferimento esplicito all’adozione di una soglia minima valida in tutti i paesi europei. Una simile soluzione, imposta per via legislativa, potrebbe essere utile ad accrescere i troppo bassi salari in molti Stati membri. Essa appare tuttavia di difficile realizzazione e perfino rischiosa se venisse intesa come soglia comune verso la quale convergere.
Diversi partiti in Europa hanno avanzato la proposta di un livello del salario minimo al 60% di quello mediano, ma è improbabile che possa essere accolta a Bruxelles. Tra i paesi dove il minimo salariale è stabilito per legge, solo la Francia e il Portogallo superano questo livello, mentre la Germania è contraria. Un’eventuale soglia inferiore si attesterebbe invece al di sotto di quanto già previsto in media in Italia dai CCNL firmati dalle organizzazioni più rappresentative.
Come indicato dalla Confederazione europea dei sindacati nella campagna Pay Rise promossa nel 2018, l’esigenza non è solo quella di garantire un salario minimo, ma un salario giusto per tutti i lavoratori. Tale campagna si poneva due obiettivi. Il primo era promuovere la diffusione della contrattazione collettiva, che negli ultimi anni ha conosciuto un processo di forte erosione in molto paesi europei, favorendo il ripiego sui minimi legali. Il secondo obiettivo era sostenere la crescita dei salari, rimasti spesso al palo rispetto all’aumento della produttività.
In Italia, il tasso di copertura dei contratti collettivi appare ancora molto elevato. Il problema è semmai il loro mancato rispetto e la loro proliferazione a discapito della rappresentatività. Inoltre, i salari reali italiani non sono bassi per via del mancato adeguamento alla produttività del lavoro, in stallo da anni. La questione centrale è la scarsa adeguatezza degli stessi salari mediani.
L’idea di un salario minimo europeo potrebbe essere quella di fissare un obiettivo comune per orientare il processo di coordinamento delle politiche nazionali in materia, favorendo una convergenza al rialzo. Occorre dunque definire una comune “stella polare”. Tale stella dovrebbe ribadire la necessità di contrastare le diseguaglianze salariali, accrescendo a tal fine il reddito di lavoro in tutte le sue componenti, alla luce dell’interazione con il fisco e con i vigenti assetti degli oneri sociali.
Un intervento disordinato sulla questione salariale, che ne trascuri la complessità e miri soltanto al consenso elettorale, rischia invece di portare a un’eterogenesi dei fini. A meno che i fini siano diversi da quelli indicati dalla nostra stella polare.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del’8 aprile 2019 ed è stato qui riprodotto previo consenso dell’autore.