6 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Il mercato del lavoro viene tradizionalmente analizzato attraverso tre indicatori: occupazione, disoccupazione e inattività. La complessità del nuovo contesto socio-economico, tuttavia, ha spinto Eurostat ad elaborare nuovi indicatori, in base ai quali è stato realizzato uno studio sul caso italiano da cui sono emersi risultati interessanti, soprattutto per quanto riguarda il Meridione. 

Nuovi indicatori per un nuovo contesto economico

Tradizionalmente il mercato del lavoro è costituto da persone occupate – ovvero che possiedono un impiego – , disoccupate – ovvero che non possiedono un lavoro ma sono in cerca di un impiego -, e inattive – ovvero che non sono in età lavorativa o, pur rientrando in quest’ultima categoria, non sono in cerca di impiego. Queste tre condizioni sono rilevate e misurate in tutti i Paesi economicamente avanzati attraverso indicatori basati su definizioni standard sviluppate dall’ILO (International Labour Organization) e attraverso indagini periodiche (come l’Indagine sulle forze di lavoro) curate dagli Istituti statistici nazionali o da centri di ricerca specializzati.

Tuttavia, da tempo ci si chiede se tali indicatori siano in grado di fotografare e cogliere la complessità di un mercato del lavoro sempre più diversificato, in cui i livelli di partecipazione hanno un’elevata variabilità, e caratterizzato da categorie di ambigua collocazione, come i cosiddetti “scoraggiati” – coloro che sarebbero disposti a lavorare ma nella convinzione di non riuscire a trovare occupazione rinunciano a cercarlo -, o i “sotto-occupati” – disponibili a lavorare più intensamente, come, ad esempio, i lavoratori part-time involontari. Dunque, il tasso di disoccupazione sembrerebbe non essere in grado di individuare tutta la forza lavoro inutilizzata e di offrire un quadro esaustivo dell’andamento del mercato del lavoro.

Per tali ragioni l’Istituto statistico dell’Unione Europea, l’Eurostat, in accordo con gli istituti statistici degli Stati Membri, dell’ILO, dell’OECD e della Banca Centrale Europea, dal 2011 ha iniziato ad utilizzare tre nuovi indicatori che possono essere considerati complementari agli strumenti finora utilizzati:

1. Inattivi disponibili a lavorare immediatamente, ma che non cercano attivamente un’occupazione (persons available to work but not seeking), ossia persone tra i 15 e i 74 anni non occupate o disoccupate che:
– desiderano lavorare;
– sono disponibili a lavorare entro le due settimane successive a quella di riferimento;
– non hanno cercato un lavoro nelle quattro settimane che precedono quella di riferimento.

2. Inattivi che cercano attivamente un’occupazione, ma che non sono disponibili a lavorare immediatamente (persons seeking work but not immediately available), persone tra i 15 e i 74 anni non occupate o disoccupate che:
– hanno cercato attivamente un lavoro nelle quattro settimane che precedono quella di riferimento ma non sono disponibili a lavorare entro le due settimane successive;
– inizieranno un lavoro entro tre mesi dalla settimana di riferimento ma non sarebbero disponibili a lavorare entro le due settimane successive, qualora fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro;
– inizieranno un lavoro dopo tre mesi dalla settimana di riferimento;
– hanno cercato un lavoro non attivamente ma passivamente (ad esempio, sono stati in attesa degli esiti di un colloquio di lavoro) nelle quattro settimane che precedono quella di riferimento e sono disponibili a lavorare entro le due settimane successive.

3. Sottoccupati part-time (underemployed part-time workers), persone tra 15 e 74 anni che lavorano con un orario ridotto, ma vorrebbero e potrebbero lavorare più ore o a tempo pieno.

La somma dei primi due gruppi rappresenta le Forze di Lavoro Potenziali (FdLP)Potential Additional Labour Force (PAF), categorie che normalmente non vengono considerate nelle forze di lavoro tradizionali, composte unicamente da occupati e disoccupati.

Roberto Cicciomessere e Leopoldo Mondauto dell’Ufficio “Statistica, studi e ricerche sul mercato del lavoro” di Italia Lavoro sulla base di questi indicatori nel gennaio 2013 hanno pubblicato un saggio con l’obiettivo di osservare da un punto di vista diverso i cambiamenti del mercato del lavoro italiano. La loro attenzione, in particolar modo, si è focalizzata sulle regioni meridionali e sulla questione di genere.

La forza lavoro nelle Regioni del Sud

In base ai dati 2011, dei circa 11 milioni di inattivi che costituiscono complessivamente le forze di lavoro potenziali nei 27 paesi dell’Unione Europea, circa 3 milioni si trovano in Italia (in Germania 1,2 milioni, in Francia 800 mila). Di questi il 66% risiede nel Mezzogiorno (14% e 20% nel Centro e nel Nord, rispettivamente) e il 60% è costituito da donne. L’incidenza dei sottoccupati part-time, invece, è fra le più basse d’Europa: 1,8% a fronte del 3,6% della media europea, fenomeno attribuibile alla scarsa diffusione del part-time in Italia.

Gli autori hanno dunque realizzato un confronto tra le misurazioni operate in base ai tre classici indicatori e quelle basate sui nuovi indicatori proposti da Eurostat, come riportato nelle figure 1 e 2.

Figura 1. Popolazione (15-74 anni) per condizione professionale (3 indicatori), media UE e Italia – Anno 2011 (composizione percentuale).

Fonte: Cicciomessere e Mondauto (2013).

Figura 2. Popolazione (15-74 anni) per condizione professionale (5 indicatori), media UE e Italia – Anno 2011 (composizione percentuale)

Fonte: Cicciomessere e Mondauto (2013).

Entrambe le figure mostrano il classico dualismo territoriale del nostro Paese: da un lato, un Centro-Nord molto vicino ai tassi medi europei e, dall’altro, un Mezzogiorno in forte ritardo. Tuttavia, considerando le forze lavoro potenziali, la condizione dell’inattività cambia in modo significativo, soprattutto per le Regioni del Sud. La quota di inattivi volontari (cioè coloro che per motivi oggettivi – quali studio, formazione, malattia, pensione – o soggettivi – maternità o cura familiari – non sono alla ricerca di un lavoro e non sarebbero disponibili a lavorare se si presentasse l’occasione) si attesta al 42%, superiore di 5 punti percentuali rispetto al dato complessivo italiano. Scomponendo ulteriormente i dati, gli autori evidenziano che proprio in tre Regioni del Mezzogiorno – Campania, Calabria e Sicilia – vi sono le più alte quote di Forza di Lavoro Potenziale (circa il 30%).

Oltre a tali indicatori, altri due elementi confermerebbero l’esistenza di un’ampia platea di soggetti disposti a entrare nel mercato del lavoro nonostante i criteri tradizionali li escludano aprioristicamente. Unendo i dati sull’inattività e le analisi sull’utilizzo dei Centri per l’Impiego (CpI) e altri intermediari privati, una quota rilevante di Forza di Lavoro Potenziale non sembra discostarsi molto dai disoccupati per quanto concerne le attività di ricerca: nel Mezzogiorno circa il 64% degli inattivi disponibili a lavorare immediatamente è iscritto o ha avuto dei contatti con i CpI. Tuttavia non rientrano nella definizione standard dell’ILO perché molto probabilmente non si sono rivolti a tali uffici con la frequenza necessaria per essere considerati disoccupati. Inoltre, il secondo aspetto da non sottovalutare è l’incidenza del lavoro sommerso che appare essere l’unica possibilità di lavoro offerta dal mercato.

Questione di genere e forza lavoro al Sud

Un altro argomento di particolare rilevanza che interessa il nostro Paese è quello che riguarda l’(in)occupazione delle donne e, ancora una volta, la situazione risulta particolarmente complessa nelle Regioni del Mezzogiorno. Negli ultimi quindici anni, il divario territoriale si è ampliato per via di una crescita occupazionale femminile più sostenuta nel Centro-Nord (+11 punti percentuali) e più stentata al Sud (+4 punti), quest’ultima a livelli molto lontani rispetto alla media italiana e europea. Per quanto riguarda il tasso di inattività femminile, sulla base dei dati elaborati da Istat mediante le classiche misurazioni, nel 2011, emerge un quadro altrettanto allarmante: sei donne meridionali su dieci non partecipano al mercato del lavoro.

Sulla base dei nuovi indicatori Eurostat, si è detto che dei 3 milioni di forza lavoro potenziale 2 milioni risiedono al Sud. Di questi 1,2 milioni sono donne. Ciò significa che il classico tasso di inattività, che per alcune Regioni meridionali raggiunge addirittura il 70%, si ridurrebbe in modo significativo, pur rimanendo sempre troppo elevato, intorno a valori compresi tra il 47-50%. Questo equivale a dire che la quota di lavoro femminile disponibile e inutilizzata nel processo produttivo del Mezzogiorno, costituita sia da disoccupate che da forze di lavoro femminili potenziali, è pari al 22,6%, a fronte del 9,3% del resto del Paese.

Inoltre, così come già mostrato da numerosi studi sull’argomento, da una disaggregazione dei dati per titolo di studio emerge che il livello d’istruzione delle donne inattive italiane disponibili a lavorare è superiore a quello degli uomini: il 53% non ha completato la scuola dell’obbligo, il 38,3% è diplomato e l’8,3% è laureato, mentre una quota più alta di uomini ha conseguito solo la licenza media (59,1%) e una più bassa il diploma (35,2%) e la laurea (5,7%). Lo stesso vale considerando i sotto-occupati part-time: più della metà dei maschi ha conseguito al massimo la licenza media (50,7%), mentre questa quota è più bassa di quasi 10 punti per le donne (41,2%).

Le donne, dunque, risultano essere più occupabili degli uomini ma, soprattutto nel Mezzogiorno, riscontrano maggiori difficoltà nella probabilità di transitare nella condizione di “occupate”. Da un lato, per effetto delle classiche dimiscrinazioni di genere e, dall’altro, per via dell’ipotesi secondo cui i pochi posti disponibili vadano garantiti agli uomini che, tra l’altro, percepiscono retribuzioni più elevate. Aspetti che tuttavia sembrano annullarsi se si considera nel settore pubblico, in cui si rilevano altri tassi di femminilizzazione dell’occupazione.

 

Riferimenti

R. Cicciomessere e L. Mondauto, Le criticità del mercato del lavoro meridionale osservate attraverso le nuove misure delle forze di lavoro potenziali, Gennaio 2013. 

 

Torna all’inizio