Intervistata da Il Becco, Chiara Agostini spiega le principali caratteristiche della politica europea dell’istruzione elaborata nel quadro della strategia decennale per la crescita e l’occupazione lanciata nel 2000 (Strategia di Lisbona) e proseguita con il lancio (nel 2010) della Strategia "Europa 2020". L’intervista affronta poi ulteriori temi quali la crisi economica, le politiche di austerity e il loro impatto sui sistemi nazionali dell’istruzione nel quadro delle politiche europee sviluppate negli ultimi anni.
Sin dalla definizione della Strategia di Lisbona del 2000, l’Unione Europea ha fatto dell’istruzione e della formazione (ET, Education and Training) uno dei più importanti campi di azione e intervento. Come riassumeresti le indicazioni e gli stimoli elaborati da Bruxelles?
Nel quadro della strategia decennale per la crescita e l’occupazione lanciata nel 2000 (Strategia di Lisbona), l’istruzione e la formazione professionale erano concepite come elementi chiave di un modello di sviluppo basato sull’economia della conoscenza. Fin da quegli anni l’UE ha sostenuto l’idea che investire in istruzione e formazione equivalesse a investire nel capitale umano e quindi a promuovere il progresso economico e il miglioramento della competitività delle economie. Se però inizialmente tutto questo si accompagnava a un’idea forte di crescita inclusiva, con il passare del tempo il focus si è spostato sempre più sull’idea di “crescita” economica e meno sugli aspetti legati all’inclusione.
Attraverso la metafora del “triangolo di Lisbona”, la strategia europea concepiva coesione sociale, occupazione e crescita economica come elementi reciprocamente interdipendenti che si ponevano alla base di un’economia basata sulla conoscenza. Con la fine della Strategia di Lisbona e il lancio della nuova strategia Europa 2020 è emersa però una visione estremamente semplificata di “crescita inclusiva”. L’idea che si è affermata è che la crescita generi occupazione che a sua volta incide positivamente sulla coesione sociale. Coesione sociale che, in questa prospettiva, è garantita attraverso la possibilità di dotare gli individui della capacità di gestire i cambiamenti economici, ad esempio attraverso il continuo aggiornamento delle proprie competenze. In questa fase poi, il lancio del semestre europeo ha posto in primo piano la predominanza delle priorità economiche e fiscali rispetto a quelle sociali.
In sostanza, l’attuale visione dell’istruzione e della formazione promossa dall’UE si focalizza prevalentemente (se non esclusivamente) sulle ricadute economiche (in termini di crescita della competitività) piuttosto che su quelle sociali (in termini ad esempio di accresciute opportunità di mobilità sociale e/o di maggiore uguaglianza). In questa prospettiva, l’istruzione e la formazione sono concepite come settori chiave per favorire l’uscita dalla crisi economica. In proposito, sono ormai diversi anni che l’Unione europea sostiene la necessità, in un contesto di generale riduzione della spesa pubblica, di proteggere gli investimenti nei settori cosiddetti “growth-friendly”, quali ad esempio l’istruzione, la ricerca e l’innovazione.
Con l’insediamento della Commissione Junker, abbiamo assistito a una riorganizzazione delle competenze in materia di istruzione e formazione professionale. Quali sono le principali conseguenze di questa riorganizzazione?
L’insediamento della Commissione Junker è stato effettivamente accompagnato da una riallocazione delle competenze fra le diverse Direzioni Generali che compongono la Commissione Europea. Inoltre, è stata prevista la possibilità che sei vice-presidenti possano coordinare specifici team di ricerca. Questa nuova architettura risponde all’obiettivo di garantire un’interazione più dinamica fra quegli attori istituzionali che insistono (in maniera diretta o indiretta) sulle politiche di istruzione. Questa nuova organizzazione sembra tuttavia produrre dei rischi legati all’aumento del grado di complessità del sistema e alla parziale sovrapposizione di compiti e funzioni delle DG. Mentre in passato le competenze in materia di istruzione e formazione erano infatti prerogativa della “Direzione Generale Istruzione e Cultura” ora diverse competenze (in particolare quelle che riguardano la formazione professionale) sono distribuite fra vari commissari e vice presidenti. Questo potrebbe produrre una duplicazione delle responsabilità, favorire l’opacità del policy making e aumentare la conflittualità dei processi.
Qual è il grado di coinvolgimento degli attori nazionali nei processi europei di coordinamento delle politiche dell’istruzione?
Tradizionalmente il grado di coinvolgimento degli attori nazionali nei processi europei in materia di istruzione è stato piuttosto ampio. In questo settore alcuni accordi intergovernativi (in materia di alta formazione e di formazione professionale) sono stati sviluppati sin dalla fine degli anni novanta, con il Processo di Bologna del 1999 (che pur non essendo nato come processo europeo ha visto presto l’UE diventare attore chiave) e, successivamente, con quello di Copenaghen nel 2002. Inoltre, la Strategia di Lisbona ha dato vita al cosiddetto “metodo aperto di coordinamento”, uno strumento giuridico non vincolante (per questo si parla di soft law). Nel dettaglio, si tratta di una politica intergovernativa che non si traduce in misure legislative che vincolano i paesi membri e che si basa sul principio della cooperazione volontaria fra stati. Questo significa che condizione necessaria per la quale questo metodo possa avere una qualche ricaduta sulle politiche nazionali è che vi sia consenso sugli obiettivi da conseguire.
Tra l’altro la questione dell’impatto della soft-governance sulle politiche nazionali è piuttosto complessa da punto di vista analitico. Non sempre è possibile individuare un nesso diretto e causale fra soft-governance e cambiamento delle politiche nazionali, tuttavia è indubbiamente vero che i processi europei influenzano la visibilità che un dato settore di policy può avere (o non avere) nell’agenda politica nazionale. Pensi in proposito a quante volte si sente dire “lo chiede l’Europa”.
Tornando al grado di coinvolgimento degli attori nazionali, c’è da dire che esso si è ridotto con la fine della Strategia di Lisbona e con il lancio della nuova strategia “Europa 2020”. In sostanza, gli spazi di consultazione degli attori nazionali si sono ristretti per via del fatto che sono stati previsti cicli di programmazione a cadenza annuale nell’ambito del Semestre Europeo. Ora c’è quindi un limite temporale che ostacola la realizzazione di ampi processi di coinvolgimento. Tuttavia, non si tratta di una specificità del settore dell’istruzione, questo cambiamento ha infatti riguardato anche il campo della protezione sociale.
La crisi economica e le politiche di austerity che ne sono conseguite hanno avuto un notevole impatto anche sulle politiche nazionali dell’istruzione. È possibile conciliare investimenti in istruzione e imposizioni economiche come il contenimento del debito pubblico entro il 60% del PIL?
I dati sembrano dirci di no. Nonostante la Commissione ponga enfasi sulla necessità di investire in questo settore, molti paesi con la crisi hanno tagliato significativamente la spesa per istruzione. A livello aggregato la spesa per istruzione in percentuale rispetto al PIL è passata dal 5,5% del 2009 al 5,3% del 2012. Si tenga poi conto che il dato relativo alla spesa in percentuale rispetto al PIL tende a sottostimare la diminuzione della spesa reale in istruzione. In tempi di recessione infatti il PIL chiaramente decrescere e questo significa che la spesa reale in istruzione è diminuita più di quello che potrebbe sembrare a prima vista.
Infatti, se consideriamo un altro dato reso disponibile dalla Commissione e che riguarda le variazioni annuali della spesa a prezzi costanti, vediamo che la spesa reale è diminuita. Fra il 2011 e il 2012 la spesa reale a livello aggregato è scesa dell’1,1%. Peraltro il 2012 ha rappresentato il secondo anno consecutivo di declino, nel 2011 infatti la spesa era già scesa dell’1,3%. Se consideriamo il 2012, vediamo che diciannove paesi membri hanno visto diminuire la spesa reale in istruzione, in sei di questi diciannove paesi tale riduzione è stata superiore al 5%. Particolarmente drammatico è il caso dell’Italia che, insieme alla Slovenia, è l’unico paese in cui questa spesa è diminuita per ben quattro anni consecutivi.
Che impatto hanno le raccomandazioni specifiche per paese che riguardano l’istruzione e che sono elaborate dall’Europa nel quadro del Semestre Europeo?
Con il sistema delle raccomandazioni previsto dal Semestre Europeo, i paesi possono ricevere indicazioni specifiche in diversi settori fra i quali appunto l’istruzione. Certamente questo rappresenta un rafforzamento del coordinamento europeo nel settore. Tuttavia bisogna tenere a mente che con il sistema delle raccomandazioni ci muoviamo comunque nell’ambito della soft-governance. Questo significa (come detto) che tali raccomandazioni non sono vincolanti, di nuovo allora le raccomandazioni possono essere efficaci se UE e paesi membri condividono degli obiettivi.
Certamente anche le raccomandazioni possono ad esempio offrire ai policy maker nazionali un argomento utile a sostenere riforme specifiche. Di nuovo, pensiamo a quanto spesso nel dibattito nazionale sentiamo dire “lo chiede l’Europa”. Tra l’altro questo tipo di processi non riguarda solo i policy maker ma anche, ad esempio, le parti sociali. Nel quadro del Semestre Europeo sono infatti previsti degli spazi di consultazione a favore delle parti sociali. Ciò consente (laddove le parti sociali abbiano interesse a farlo) di disporre di un argomento utile a chiedere un loro maggior coinvolgimento nel processo decisionale. Di nuovo questa è la logica alla base della soft governance.
Tornando allora alla domanda precedente, è chiaro che questi meccanismi (che poi sono quelli utilizzati per sostenere la necessità di investire nell’istruzione) hanno comunque un impatto diverso rispetto ai vincoli di bilancio; e purtroppo i dati ci dicono che questi secondi giocano un peso decisamente più rilevante.
Tra l’altro se si guarda ai contenuti, in molti casi le raccomandazioni riguardano il rapporto fra politiche per l’istruzione e altre politiche ad esempio quelle del mercato del lavoro o di inclusione sociale, in altri fanno riferimento a riforme specifiche, è il caso ad esempio della questione delle qualifiche. Questo per dire che chiaramente non troviamo un invito da parte delle istituzioni europee a contrarre gli investimenti in questo settore.
Infine, un po’ di campanilismo. In più occasioni la Commissione Europea ha avuto modo di elogiare la riforma della Buona Scuola promossa dal Governo Renzi. In che misura questa può essere ricondotta alle linee dettate da Bruxelles? E quali sono i motivi di questo gradimento?
Il documento che accompagna le raccomandazioni specifiche per paese del 2015 (e che è stato pubblicato dalla Commissione lo scorso marzo) sottolinea tre aspetti in particolare. In primo luogo, la Commissione evidenzia che, dopo diversi anni di tagli, per la prima volta il governo da priorità alla spesa per l’istruzione. In particolare, in questo documento si fa riferimento al fatto che è stata prevista una riforma dell’istruzione, da finanziare con 1 miliardo di euro nel 2015 e tre miliardi nel 2016, attraverso un fondo creato dalla legge di stabilità del 2015. In secondo luogo, la Commissione valuta positivamente l’intervento sull’attuale sistema di carriera degli insegnanti. Tale sistema è basato esclusivamente sull’anzianità e l’obiettivo è quello di introdurre dei principi di merito. Infine, la Commissione guarda con favore il fatto che il governo stia lavorando per l’assunzione di insegnanti che attualmente sono occupati con contratti temporanei.
Questo articolo è stato pubblicato anche su Il Becco, Anno III, n. 2