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“Se non cambia qualcosa, nel modello di governance e nelle politiche dell’Unione, quest’Europa rischia seriamente di implodere“. L’allarme non arriva da qualche arrembante leader euro-scettico ma Maurizio Ferrera da uno dei più rispettati studiosi d’integrazione europea, soprattutto per quel che riguarda la dimensione sociale. In merito, vi presentiamo una significativa intervista rilasciata dal Prof. Ferrera al blog "Giochi Senza Frontiere" di Simone Disegni. 

Docente di scienza politica alla Statale di Milano, Ferrera è stato coinvolto in svariati gruppi di esperti per la Commissione Europea, oltre che per altre prestigiose istituzioni italiane e internazionali, ma ciò non gli impedisce di criticare lucidamente la deriva “econocratica” di Bruxelles

All’inizio di un anno cruciale per il futuro del continente, con delicate elezioni previste in Francia, Germania e (forse) Italia, Ferrera si appresta ora a pubblicare i risultati dell’ultimo lavoro scientifico, una ricerca a tutto campo sulle percezioni dell’Ue da parte dei suoi cittadini che si fa forte della più articolata indagine d’opinione condotta negli ultimi anni. Italia, Francia, Spagna, Germania, Regno Unito, Svezia e Polonia sono i Paesi passati ai raggi X dal team di ricercatori di RescEu, coordinati da Alessandro Pellegata. E le sorprese non mancano.


Professor Ferrera, dai primi dati della vostra ricerca un Paese emerge come quello in grado di destare più inquietudini per i fautori dell’Europa unita, la Francia: dove quasi il 35% della popolazione si dice pronta a votare per l’uscita dall’Unione Europea se fosse convocato un referendum. Dopo il voltafaccia degli inglesi nel 2016, c’è davvero da temere una “Frexit”?

Non credo si arriverà a questo. Il dato è certo allarmante, ma va tenuto presente che lo scetticismo dei francesi nei confronto dell’Unione non va attribuito soltanto alla propaganda di Marine Le Pen. I numeri riflettono una tendenza “sovranista” che in Francia ha radici ben ramificate: che pesca a destra, nella più tipica tradizione gollista, ma anche a sinistra, risalendo fino all’eredità giacobina. I cugini d’Oltralpe, d’altra parte, percepiscono perfettamente un fatto ormai acclarato: si è rotta l’uguaglianza politica tra Francia e Germania che ha retto per decenni l’asse dell’Unione, permettendo di conseguire obiettivi e avanzamenti. L’Europa è oggi politicamente asimmetrica e questo determina tra i francesi un senso di umiliazione non difficile da comprendere.

Che questo potenziale sovranista porti a un’effettiva richiesta di referendum, tuttavia, è tutt’altro che certo. In primis perchè la Le Pen, sebbene arriverà probabilmente al ballottaggio nel voto di primavera, difficilmente vincerà. Ma anche se dovesse davvero trionfare, la leader del Front National avrebbe più di qualche problema a mettere realmente in pratica il suo progetto. E’ chiaro, ciò detto, che il “clima” da noi fotografato condizionerà l’agenda del prossimo Presidente, chiunque esso sia.


Qui da noi invece, stando ai vostri dati, voterebbe per restare nell’Ue in un ipotetico referendum poco più del 63% degli italiani. In prospettiva storica, è tanto o è poco?

Rispetto al passato è un valore certamente basso. Se ci voltiamo indietro ai decenni passati è evidente che l’ingresso in Europa è stato per il nostro Paese l’unico progetto realmente “nazionale”, capace cioè di unire in un largo consenso le nostre classi dirigenti, ed anche il popolo. Nel 1996, non dimentichiamo, ci auto-imponemmo una tassa per far entrare il Paese nell’euro. Ora il treno sovranista è entrato a pieno titolo anche nei confini della nostra politica. In parte senza dubbio per riempire il vuoto di idee a destra – da Salvini a Meloni etc – ma anche, soprattutto nei confronti dell’euro, sul versante di sinistra: pensiamo ad un movimento come Diem25 (il movimento lanciato su scala europea dall’ex Ministro greco delle Finanze Varoufakis) o al ri-posizionamento del leader in pectore di Sinistra Italiana Fassina.


Al di là delle strategie dei partiti politici, però, questo discorso ha evidentemente fatto breccia anche in ampi strati della popolazione.

Indubbiamente. In questo senso l’Unione è evidentemente diventata un”parafulmine”, contro cui si catalizzano la protesta, la frustrazione e l’indignazione legate alla crisi. In termini generali, direi che il tema della rimessa in discussione dell’euro è pronto per una politicizzazione a tutto tondo, che si preannuncia acuta e divisiva, come si dice oggi.


Sebbene prevalga comunque, nel complesso, l’idea di restare all’interno dell’Unione, secondo la vostra ricerca gli italiani sembrano difendere “a spada tratta” la legittimità della scelta della Brexit, perfino più degli stessi britannici. E’ il sintomo di una radicata cultura della partecipazione, del rinnovato successo dello strumento referendario o di una sorta di invidia per la “libertà” riconquistata dagli inglesi? 

Direi che si tratta propria della nuova “primavera” del mito del referendum. Questo è chiaramente l’effetto della rinnovata passione per la democrazia diretta al centro del discorso dei 5 Stelle. Vero o retorico che sia, a seconda dei punti di vista, l’imperativo del “dare la voce ai cittadini” è a mio avviso uno dei pochi veri collanti capaci di tenere insieme il Movimento. All’indomani delle presidenziali americane, lo scorso novembre, da Di Maio a Di Battista tutti i volti noti dell’M5S hanno commentato l’elezione di Donald Trump con lo stesso leitmotiv: il popolo ha parlato.

Teniamo presente, infine, che il nostro sondaggio è stato effettuato durante l’autunno, nel pieno della campagna per il “nostro” referendum costituzionale, un fattore che può aver influito sull’orientamento degli intervistati.


Un’ultima riflessione, professor Fererra. Secondo quanto emerge da un’altra delle domande dell’indagine (i cui risultati completi saranno resi pubblici presto sul sito del progetto REScEU
) l’Italia è tra i Paesi considerati quello in cui resta più forte l’idea del “sogno europeo”, una visione dell’Ue come casa comune dei popoli del continente. All’opposto, tra i tedeschi dilaga una visione estremamente pragmatica dell’Unione, nel migliore dei casi come un condominio in cui ciascuno pensa ai propri affari senza danneggiare troppo i vicini. Sono gli italiani a vivere nel mondo delle favole oppure i tedeschi ad aver perso qualsiasi capacità di visione politica?

Senza dubbio la seconda: sono i tedeschi ad essersi sorprendentemente allontanati da quell’ideale dell’Europa come “casa comune” che ha guidato, non dimentichiamolo, l’agire politico tedesco per decenni, promossa con convinzione da leader diversi, da Adenauer a Kohl. Quel destino e quella traiettoria nascevano anche con il chiaro obiettivo di “espiare” le colpe tedesche della Seconda Guerra mondiale.

Angela Merkel, leader dall’imprinting diverso dai precedenti, luterana venuta dall’Est, ha fatto emergere invece una concezione ordo-liberale della politica, tedesca come europea, molto più pragmatica e meno sognatrice. E i risultati, per l’appunto, si vedono, con la conquista di ampi strati dell’opinione pubblica: per questo parliamo di “ordo-liberalizzazione” del dibattito pubblico tedesco, per indicare la progressiva erosione dell’idea”integrazionista” dell’Europa, che la Germania aveva prima accolto ben più convintamente della stessa Francia. E’ un cambiamento davvero non indifferente. Ma questa propensione ad un’Europa econocratica e meno solidale è ormai molto più presente di quanto probabilmente lo stesso establishment tedesco si renda conto. Anche in vista delle prossime elezioni d’autunno, la Merkel strizza l’occhio a questa visione “rigida” ed in fondo germano-centrica dell’Europa anche per non lasciare spazio politico alla sua destra. Ma è proprio sicura, in tal modo, di non finire per perdere elettori al centro e verso la sinistra dello spettro politico?

Lo status quo dell’Unione, tutto ciò sommato, non è davvero sostenibile. Se non si vuole correre il rischio di un’implosione, bisogna che da Berlino in primis maturi in fretta un approccio diverso.

Questo articolo è stato pubblicato all’interno del blog "Giochi Senza Frontiere"