Sono anni che la natalità italiana è molto bassa, tra le più basse d’Europa. La pandemia ha ulteriormente peggiorato la situazione. Ma ora, forse, qualcosa potrebbe muoversi nella direzione opposta.
“Il Family Act è solo l’inizio”, sostiene Linda Laura Sabbadini, statistica e direttrice centrale dell’Istat, tra le maggiori esperte di statistiche per gli studi di genere. Il cosiddetto Family Act è la legge delega recante “Deleghe al governo per il sostegno e la valorizzazione della famiglia” che è stata approvata in via definitiva dal Senato ad inizio aprile.
Nel giorno del voto al Senato, la Ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti ha parlato di “una giornata storica per il Paese di oggi e per il Paese di domani”, ma ha anche ammesso che non si tratta di “un provvedimento risolutivo”. “Da qui cominciamo un percorso che ci deve portare a costruire un sistema strutturale, equilibrato che non costituisca solo un sostegno al reddito”, ha dichiarato.
Dall’approvazione della legge, il Governo ha due anni di tempo per approvare tutti i decreti attuativi necessari. Il frangente, quindi, è potenzialmente decisivo. “Ci troviamo in un momento unico del nostro Paese rispetto alle risorse disponibili e alle scelte da fare”, ha scritto il demografo Alessandro Rosina su Neodemos. Ma come ci siamo arrivati?
DenatalitaliaQuesto articolo è parte della serie con cui Secondo Welfare vuole capire se e come si può affrontare il calo demografico italiano. |
Politiche deboli e frammentate
In Italia, l’intervento pubblico a sostegno delle famiglie è sempre stato discontinuo e frammentato e il nostro Paese si è a lungo distinto da molti altri Stati europei per una particolare debolezza in questo ambito.
Per quanto riguarda i trasferimenti monetari, per esempio, fino alle riforme più recenti, la principale misura è stata uno schema di intervento selettivo, in relazione al reddito e categoriale, solo per i lavoratori dipendenti o para-subordinati. Solo tra 2015 e 2017 (lo spiegavamo qui, ndr) è stato introdotto in via sperimentale il cosiddetto “Bonus bebè”. La misura, confermata e ampliata nel 2020, prevedeva un contributo di 80 euro mensili per i primi tre anni di vita del bambino, aumentati a 160 euro in presenza di Isee non superiore ai 25.000 euro ed è stata la prima prestazione universalistica introdotta nel nostro paese in questo campo. Per i congedi, invece, quello di paternità è stato introdotto solo nel 2012: due giorni obbligatori più uno facoltativo al 100% della retribuzione, poi portati a sette e quindi a dieci, lo scorso anno. Il lavoro agile, infine, che potrebbe contribuire a una migliore conciliazione, è entrato nel nostro ordinamento solo nel 2017. Senza contare lo storico ritardo italiano nei servizi per l’infanzia, come gli asili nido.
In sintesi, negli ultimi 15 anni, gli interventi sono cresciuti e si sono ampliati, ma sono rimasti ancora troppo sperimentali e quindi frammentati, incapaci di generare quella fiducia nell’aiuto da parte dello Stato che è una componente importante nella scelta di fare figli, come abbiamo visto raccontando il caso francese. E, infatti, come abbiamo spiegato nel primo articolo dei nostri approfondimenti sul tema, la denatalità è un problema che interessa l’Italia da anni. Il tasso di fecondità (cioè il numero medio di figli per donna) nel 2020 era pari a 1,24, il terzo più basso d’Europa e nel 2021 il calo dei nati è stato tra i più ampi mai registrati.
Un ritardo storico e strutturale
“Per quanto riguarda la natalità, l’Italia deve affrontare sfide di portata certamente più ampia rispetto ad altri Paesi UE con politiche più generose e consolidate”, spiega Ilaria Madama, docente di Scienze Politiche all’Università degli studi di Milano. In tal senso, a suo parere, “i fondi disponibili possono incidere positivamente in relazione alla generosità e all’inclusività delle misure: avere più risorse consente di mettete in campo politiche più efficaci. E, in questo ambito, l’Italia sconta un ritardo storico e strutturale”.
Nell’ultimo decennio, la percentuale italiana di spesa in famiglie e minori rispetto al PIL si è attestata sempre attorno all’1%. “Un valore sensibilmente inferiore se confrontato con gli altri maggiori paesi dell’Unione europea. Il dato francese si attesta sul 2,3% del PIL nel 2019, quello tedesco (1,7%) invece è leggermente inferiore alla media UE di quell’anno (1,8%)”, spiega Openpolis. “Se osserviamo la spesa pro capite a parità di potere d’acquisto tra i diversi stati UE” continua Madama “la distanza risulta ancora più evidente: in Germania, nel 2019, era 1.347 euro, in Francia 781 e in Italia 331 (dati Eurostat)”.
“Non abbiamo mai avuto politiche sistematiche non tanto per la fecondità, quanto per mettere le coppie nelle condizioni di avere il numero di figli che desiderano, senza sovraccaricare le donne”, riprende Sabbadini. “In Francia e Germania – continua – questa attenzione c’è. Da noi ancora no”. Ed è proprio questa situazione che il Family Act vorrebbe contribuire a cambiare.
Family Act: modernizzare e sistematizzare
“Il Family Act rappresenta un’innovazione positiva, che va nella direzione di modernizzare il welfare italiano, specie in materia di famiglia e conciliazione. Tuttavia, molto dipende da come le riforme verranno attuate. Il testo approvato entra molto nel dettaglio, mettendo dei paletti precisi, ma bisognerà vedere cosa succederà nei prossimi mesi”, commenta Madama.
Il provvedimento, all’interno del quale rientra anche il cosiddetto Assegno unico universale cui dedicheremo il prossimo episodio di questa serie di articoli, è ampio, eterogeneo e prevede di:
- riformare i congedi parentali, con l’estensione a tutte le categorie professionali e congedi di paternità obbligatori e strutturali;
- introdurre incentivi al lavoro femminile, dalle detrazioni per i servizi di cura alla promozione del lavoro flessibile;
- rafforzare delle politiche di sostegno alle famiglie per le spese educative e scolastiche, e per le attività sportive e culturali;
- assicurare il protagonismo dei giovani under 35, promuovendo la loro autonomia finanziaria con un sostegno per le spese universitarie e per l’affitto della prima casa.
“Questo provvedimento è un ottimo passo in avanti di sistematizzazione perché armonizza tutte le misure per la famiglia in una visione unitaria. Non è però una svolta, perché per invertire il calo demografico serve un’azione sistematica anche su altri fronti”, sostiene Sabbadini.
PNRR e servizi
Uno dei fronti importanti è quello dei servizi. “Ci servono servizi educativi per l’infanzia e servizi di assistenza che mettano al centro la persona: siamo in ritardo rispetto al resto d’Europa perché siamo partiti tardi”, aggiunge Sabbadini. “Il Family Act in questa prospettiva” riprende Madama “va letto insieme al PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza sostenuto dai fondi UE, perché quest’ultimo destina fondi all’ampliamento dei servizi”.
Il PNRR prevede interventi e riforme sia per gli anziani che per i minori. Il piano, per esempio, stanzia 4,6 miliardi per aumentare l’offerta di servizi educativi nella fascia 0-6 anni, “al fine di accrescere la disponibilità di posti, facilitare le famiglie e quindi il lavoro femminile, incrementare il tasso di natalità”. È prevista una riforma del sistema di interventi per gli anziani non autosufficienti, cui è destinato un altro mezzo miliardo.
Certo, anche in questo caso, molto dipende da come verranno disegnati gli interventi. Per l’apertura di nuovi asili nido, i Comuni del Sud, che in teoria dovrebbero beneficiare maggiormente di questi fondi, hanno fatto molta fatica a partecipare ai bandi, al punto che ne sono stati indetti di nuovi. Non solo. Dal momento che il PNRR finanzia investimenti, sarà fondamentale capire poi quanta spesa corrente, ogni anno, verrà destinata al funzionamento di questi servizi. Gli asili nido vanno costruiti, ma poi vanno aperti, resi economicamente accessibili e qualitativamente validi.
“La carenza di servizi ricade sulle spalle delle donne che, nel nostro Paese, hanno un carico di lavoro familiare più alto di quello di altri Paesi simili al nostro. Serve un grande salto su questa questione”, commenta ancora Sabbadini, aprendo un altro fronte, quello della parità di genere. L’Italia è quattordicesima nell’indice creato dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere ed è penultima in UE per tasso di occupazione femminile, con un divario tra occupati uomini e occupate donne che è il doppio della media continentale. Come ha mostrato il caso della Germania, anche questo aspetto è fondamentale per contrastare la denatalità.
Un’inversione di tendenza
Tracciato questo quadro di ombre certe e luci possibili, la domanda quindi ritorna: siamo all’inizio di un potenziale cambiamento? O, usando nuovamente le parole del demografo Rosina, “dopo la depressione provocata dall’emergenza sanitaria, avremo in Italia un rimbalzo verso l’alto che poi andrà progressivamente a spegnersi o potrebbe avviarsi un processo di solida inversione di tendenza?”.
La risposta alla prima domanda è: si.
Quella alla seconda è: dipende.
Dipende da molti elementi, tre innanzitutto: da quanto saranno ambiziosi i decreti attuativi del Family Act; da come verranno investiti i fondi del PNRR per i servizi; da quanto verrà aumentata la spesa pubblica per famiglie e minori.
L’obiettivo è andare sempre più verso un sistema di welfare capace di rispondere ai bisogni dei cittadini e quindi di migliorare i tassi di natalità. Secondo un recente studio sui tassi di natalità di ventidue Paesi ad alto reddito, i cali più consistenti sono avvenuti in Italia, Ungheria, Spagna e Portogallo, mentre in nazioni che tradizionalmente possono vantare sistemi di welfare più avanzati la diminuzione delle nascite è stata molto più contenuta oppure non si è registrata affatto.
“Questo ci fa anche capire quanto ormai fare figli sia una decisione ben ponderata: se non ci sono le condizioni in un determinato momento le coppie scelgono di aspettare una fase più favorevole”, ha spiegato a Il Bo Live Letizia Mencarini, una delle autrici dello studio. Per la docente della Bocconi, si tratta di “un tema importante perché ci conferma come ci siano situazioni di difficoltà in cui il desiderio di avere dei bambini venga sacrificato di fronte alle paure e alla mancanza di fiducia da parte dei giovani”.
“In Italia negli ultimi tempi” conclude Mencarini “sono state introdotte o implementate molte misure orientate a supportare chi sceglie di avere figli, come ad esempio l’assegno unico o i congedi per i padri, ma bisognerà vedere se queste iniziative sono sufficienti a spezzare queste incertezze e paure rispetto al futuro“.