Hanno scatenato un acceso dibattito i dati sulle competenze principali degli adulti pubblicati in questi giorni dall’Ocse. L’Italia ne esce molto male, agli ultimi posti, o quasi, in molti settori. Ma i dati da soli ci dicono poco, vanno contestualizzati, per capire se e perché siamo davvero un popolo di “somari” e individuare le scelte future per correggere questo trend. Una tendenza che è nociva perché l’istruzione è quel fattore che rende gli individui dei cittadini, ne migliora l’occupabilità e le condizioni di vita e, infine, genera innovazione, con effetti benefici sull’intero sistema produttivo. In teoria, nella pratica non sempre. Ed è questo il problema italiano.
I dati
Il PIAAC (Program for the International Assessment of Adult Competencies) è un’indagine internazionale promossa dall’OCSE che valuta le competenze degli adulti (16-65 anni) relative a 24 Paesi di Europa, America e Asia (l’indagine in Italia è stata realizzata dall’Isfol). Il PIAAC si colloca nell’ambito di un progetto dell’OCSE volto a sviluppare negli anni analisi ricorrenti sulle competenze delle popolazioni da sfruttare sia in ambito lavorativo che sociale dopo le trasformazioni determinate dalla rivoluzione tecnologica. Il rapporto evidenzia i risultati dei sistemi di istruzione e il rapporto tra questi e il mercato del lavoro, analizza le information processing skills in relazione alla possibilità di migliorare le prospettive occupazionali di tutta la popolazione, individua le fasce di popolazione a rischio e misura il match o il mismatch esistente tra le competenze offerte, disponibili sul mercato del lavoro e quelle richieste dal mercato del lavoro, in senso globale e nei singoli paesi.
Partiamo dalle basi. Tra i 24 paesi che l’OCSE ha inserito nella graduatoria l’Italia si colloca all’ultimo posto per competenze alfabetiche. Secondo l’indagine il punteggio medio degli italiani tra i 16 e i 65 anni è infatti di 250, contro una media OCSE di 273. Siamo ultimi, dietro Spagna e Francia (penultima e terzultima) e molto lontani da Giappone e Finlandia, che guidano la classifica internazionale insieme alla maggior parte dei Paesi del Nord Europa. Non va meglio con la matematica, dove gli italiani si fermano a 247 punti, penultimi, contro i 269 della media generale.
L’Italia è penultima anche per numero di persone che hanno conseguito una tertiary education (laurea o almeno 15 anni di studio), anche se il trend è migliorato rispetto al passato, raggiungendo il 25% degli under 34 contro l’8% dei colleghi tra i 55 e i 65 anni.
I nostri tassi di scolarità rimangono quindi ancora molto bassi in confronto agli standard internazionali. Tre quarti dei connazionali fra i 55 e i 65 non ha completato la scuola secondaria superiore contro una media OCSE del 30%. La distanza è molto forte anche per la fascia tra i 25 e 34 anni: circa il 30% non ha un diploma di scuola secondaria contro meno del 10% nella media OCSE. Un risultato molto negativo se consideriamo il divario dell’occupabilità tra lavoratori high-educated e low-educated (cioè con meno di 11 anni di istruzione) (Figura 1).
Infine c’è un altro dato interessante. Meno della metà degli italiani, contro una media OCSE di oltre il 60% ha accesso ad un computer e a internet nella propria casa. Nell’era digitale, le opportunità – ad esempio, di trovare un lavoro – aumentano considerevolmente se si è in grado di collegarsi alla rete. Inoltre, come dimostrano numerose esperienze avvenute nei Paesi in via di sviluppo, l’accesso alla rete può consentire anche al ceto medio-basso, per il quale l’istruzione non è sicuramente delle più accessibili, di avere una finestra sul mondo e ampliare i propri orizzonti di conoscenza.
Figura 1- Andamento dell’occupazione per livello medio di istruzione
Fonte: OCSE (2013)
Il contesto italiano
A questo punto però i dati vanno collocati nel contesto socio-economico italiano. Perché questi risultati? Come affrontarli? Innanzitutto anche nell’ambito dell’educazione purtroppo è presente un ampio divario tra Nord e Sud, stabile per tutti i livelli di istruzione considerati. Prendendo le competenze numeriche, il Nord-Est, con un punteggio di 261, si posiziona “solo” 8 punti sotto la media OCSE, mentre il Sud e le isole, con 241, sono indietro di 28.
Lo studio mette sotto osservazione anche i Neet, 16-29enni che non studiano, non hanno e non cercano lavoro. Si tratta spesso di early school leavers che non hanno concluso il precorso di studi previsto. Il punteggio medio di questi giovani si colloca sotto la media nazionale e le competenze possedute sono molto limitate rispetto a quelle dei coetanei che studiano e lavorano, il che significa che sarà ancora più difficile per loro uscire dalla disoccupazione. Ma l’aumento dei Neet non è solo conseguenza del calo dell’occupazione generale, quanto anche della perdita della motivazione allo studio. Vediamo perché.
L’indagine non si riferisce solo a chi lavora, ma a tutta la popolazione tra i 16 e i 65 anni, aspetto che ci permette di misurare lo spreco di capitale umano, che per l’Italia risulta macroscopico. I punteggi dei giovani sono sistematicamente più alti di quelli del resto della popolazione e spesso in modo consistente (per competenze alfabetiche, ad esempio, il punteggio per la fascia tra i 16-24 anni è 260, ben 10 punti sopra la media), cosa che non accade in tutti i paesi (ad esempio non è così in Norvegia, Danimarca, Regno Unito, Giappone e Stati Uniti). Ciononostante, il tasso di disoccupazione giovanile si attesta intorno al 40%. Anche le donne offrono, in termini relativi, performance migliori che altrove: non rivelano punteggi significativamente diversi da quelli degli uomini mentre in altri paesi si collocano al di sotto nelle competenze matematiche e talvolta anche in quelle linguistiche. Tuttavia l’occupazione femminile resta notevolmente inferiore a quella maschile.
Quindi i disoccupati e le persone inattive, a differenza che in altri paesi, non sono meno competenti di chi lavora. E qui sta il problema. Il rapporto ci dice che gli Italiani sono poco istruiti, un grave risultato che va corretto. Va corretto perché – e questo è un fatto importantissimo – l’educazione è ciò che fa degli individui dei cittadini critici e non facilmente manipolabili, permette loro di muoversi nel mondo consapevolmente, ne aumenta le possibilità di trovare un lavoro e migliorare le proprie condizioni. Ma ci dice anche che una buona parte di quei “pochi” istruiti, non vengono impiegati. E allora i dati diventano molto più chiari. Su che presupposti – sempre parlando in termini economici e non sociali – si può chiedere a famiglie e studenti di investire in un percorso di studi se poi alla fine non si sa dove e come sfruttare la formazione ricevuta?
L’emigrazione giovanile può aiutarci a capire meglio questo fenomeno. Essa avviene in buona parte per due motivi. C’è chi parte perché non trova lavoro, o lo trova a condizioni spesso borderline, e chi parte perché, concluso un percorso di studi – che, con tutti i limiti che può avere l’istruzione in Italia, da tanti è ritenuto ancora stimolante e formativo – faticano ad accettare di collocarsi in un sistema produttivo che chiede loro molto in termini di sacrifici economici – poche tutele, bassi stipendi – e poco in termini di conoscenza, capacità creative e responsabilità, relegandoli a mansioni esecutive, spesso elementari – siamo uno dei Paesi col numero più basso di occupazioni professionali e tecniche.
Quindi se è vero che va riformato il sistema scolastico e universitario italiano – l’incidenza sul Pil del settore istruzione, partito già da un livello più basso della media europea è sceso di ulteriori due punti dall’inizio della crisi – vanno altrettanto riformati anche il mercato del lavoro e il sistema produttivo, in modo che riconoscano il valore della conoscenza e aprano conseguentemente spazi di innovazione in cui inglobare capitale umano qualificato.
Riferimenti
OECD (2013), OECD Skills Outlook 2013: First Results from the Survey of Adult Skills, OECD Publishing
Gli italiani non sanno leggere e contare. Bocciamo i politici che non pensano al futuro, Tito Boeri, La Repubblica, 8 ottobre 2013
Italia, un adulto su due non ha il diploma, Vittoria Gallina, Corriere della Sera, 9 ottobre 2013