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E’ stato presentato pochi giorni fa il Rapporto annuale Istat sulla situazione del Paese. Un rapporto che ci dà importanti indicazioni non solo per le scelte economiche ma anche per quelle sociali. Se la fase recessiva ha portato infatti a focalizzare l’attenzione generale sulle emergenze economiche del Paese, tuttavia una lettura prospettica in chiave demografica mette in luce che le emergenze sociali non sono da meno e richiedono interventi che non possono essere più rimandati. Tra i problemi più gravi un modello di welfare mediterraneo non più praticabile, perché basato su strutture familiari e su un ruolo della componente femminile ormai obsoleto; ineguaglianze di genere ma anche tra generazioni; una spesa sociale squilibrata, che destina più della metà delle risorse alla previdenza e molto poco alle famiglie e al sostegno al reddito.

L’età media degli italiani

La popolazione italiana continua a invecchiare. L’indice di vecchiaia del paese è tra i più alti al mondo: al 1° gennaio 2013 nella popolazione residente si contano 151,4 persone over 65 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Se la buona notizia è che si vive sempre più a lungo, con una speranza di vita giunta nel 2012 a 79,6 anni per gli uomini e a 84,4 anni per le donne – gli Italiani sono tra i più longevi a livello internazionale -, questo trend non è compensato dalle nuove nascite.

Continua a calare infatti la propensione ad avere figli: nel nostro Paese persistono livelli di fecondità molto bassi, in media 1,42 figli per donna nel 2012 (media Ue28 1,58). Le donne italiane in età feconda fanno pochi figli (in media 1,29 per donna) e sono sempre meno numerose per via dell’uscita dall’esperienza riproduttiva delle “baby-boomers” e, più in generale, delle nate fino alla metà degli anni ’70. Ma anche le straniere – che negli anni passati hanno contribuito significativamente a incrementare il numero di nuovi nati – pur mantenendosi su livelli decisamente più elevati di quelli delle donne italiane, riducono il proprio numero medio di figli (2,37 nel 2012).

Le nuove strutture familiari

Continua a crescere il numero dei nuclei familiari, + 7,6% dal 2003 al 2013, mentre diminuisce la loro dimensione, che si attesta nel 2011 a 2,4 componenti. Ma un nucleo più piccolo ha meno redditi su cui contare, finendo per ritrovarsi più facilmente in povertà. Ed ecco che emerge un dato nuovo: sempre più famiglie si ricompattano, con il rientro dei figli nei nuclei genitoriali dopo separazioni, divorzi, emancipazioni non riuscite o con la coabitazione con parenti. Una strategia di riorganizzazione messa in atto dalle famiglie con l’obiettivo appunto di fronteggiare la crescente fragilità dei percorsi di emancipazione dei loro membri e assicurare la sostenibilità economica in risposta alle attuali difficoltà, in particolare quelle legate alle spese abitative.

Un altro dato importante è che la rete di parentela si modifica, in seguito alle trasformazioni demografiche e sociali, diventando sempre più “stretta e lunga” e sarà quindi sempre meno in grado di fornire aiuti ai suoi membri più fragili. L’invecchiamento della popolazione comporta un aumento dei bisogni di cura da parte dei grandi anziani e per periodi della vita più dilatati ma, allo stesso tempo, diminuiscono le persone che possono offrire aiuto – soprattutto emerge una crescente difficoltà da parte delle donne a mantenere il ruolo di pilastro del welfare familiare. Quindi se il welfare familiare tipico del Sud Europa sta continuando ad attutire i colpi della crisi, è ragionevole dubitare che possa continuare a farlo in futuro.

Donne, verso un nuovo ruolo?

L’occupazione femminile cala ma molto meno di quella maschile (il calo è stato rispettivamente di -0,1% e -6,9% tra il 2008 e il 2013). La sostanziale tenuta dell’occupazione femminile è il risultato di un insieme di fattori: il contributo delle occupate straniere, aumentate di 359 mila unità, la crescita delle occupate con 50 anni e più (circa il 30% in più) e, infine, l’incremento di quante entrano nel mercato del lavoro per sopperire alla disoccupazione del partner. Aumentano, infatti, le famiglie con donne breadwinner, ovvero quelle in cui la donna è l’unica ad essere occupata.

Questi dati rivelano come il lavoro stia assumendo un valore importante nella vita delle donne italiane, che, evidentemente, faranno sempre più fatica a ricoprire quel ruolo di pilastro del welfare familiare di cui si sono fatte carico fino ad oggi, anche alla luce delle considerazioni fatte sopra. E’ quindi necessario ripensare radicalmente le politiche familiari e di cura: la conciliazione dei tempi di vita e lavoro continua a peggiorare – ad esempio, cresce la quota di donne occupate in gravidanza che non lavora più a due anni di distanza dal parto.

I giovani, i più penalizzati

I giovani sono il gruppo più colpito dalla crisi. Il tasso di occupazione tra i 15-34enni scende dal 50,4% del 2008 all’attuale 40,2%, mentre la percentuale dei Neet fino ai 29 anni arriva al 26% (35,4% nel Mezzogiorno contro il 19% nel Nord). E anche quando lavorano, lo fanno in condizioni peggiori: il lavoro atipico – per cui il rischio disoccupazione è più elevato e le tutele previdenziali inferiori – riguarda il 25,4% dei 15-34enni.

Ecco perché molti di loro partono: nel 2012, oltre 26 mila italiani tra i 15-34 anni hanno lasciato il Paese, 10 mila in più rispetto al 2008 e molti meno di quanti ne sono rientrati. Di questi, i laureati sono 6.340. Questo perché nonostante l’Italia presenti tuttora una delle più basse incidenze di laureati – il 16,3% delle persone di 25-64 anni contro il 28,4% dell’Ue28 – e nonostante il possesso della laurea favorisca una minore riduzione del tasso di occupazione (-2,8 punti in confronto ai 5,3 dei diplomati e ai 3,8 di chi ha al massimo la licenza media), i più istruiti faticano a collocarsi nel mercato del lavoro in una posizione adeguata alle proprie competenze. Ben il 22% degli occupati risulta infatti sovra-istruito -percentuale in crescita rispetto al periodo pre-crisi (il 23% in più rispetto al 2007).

Studiare quindi non sempre premia. Nel 2013, solo il 48,3% di coloro che hanno 20-34 anni e hanno concluso il percorso di istruzione e formazione (diploma e laurea) da uno a tre anni, sono occupati, contro il 75,4% nella media Ue28. La differenza nella quota di occupati tra Italia e Ue28 è più alta per i neodiplomati (40,8% contro 69,5%), più contenuta per i neolaureati (56,9% contro 80,7%).

Gli anziani, sempre più “centrali”

Oltre ad essere molto numerosa per la crescita della speranza di vita media, come abbiamo visto, la componente anziana ha un’influenza crescente nel panorama sociale nazionale.

I redditi da pensione, anche grazie all’adeguamento delle pensioni al costo della vita, sembrano aver tenuto al riparo dalla crisi gran parte delle famiglie di pensionati, per le quali si osserva, dal 2007 al 2011, una significativa diminuzione del rischio di povertà relativa. Va comunque precisato che solo un terzo dei pensionati percepisce esclusivamente un reddito da pensione, mentre più della metà dei pensionati può contare anche su un’altra tipologia di reddito (per lo più redditi finanziari o affitti, redditi da lavoro (6%) e, in misura minore, saldi fiscali e trasferimenti da altre famiglie). Il risultato è che tra il 2007 e il 2012, rileva l’Istat, solo le famiglie di ritirati dal lavoro hanno conservato livelli medi di consumo mensile positivi, grazie alla sicurezza fornita dai redditi da pensione. Pare quindi che siano una delle fasce di popolazione che stanno reggendo meglio i colpi della crisi e per questo motivo, sono sempre più numerosi i casi in cui mettono a disposizione i propri redditi per integrare quelli dei loro familiari più giovani. Con quali conseguenze? I trattamenti pensionistici concorrono oggi, più che in passato, a determinare le condizioni economiche anche degli altri componenti della famiglia, limitando ulteriormente la mobilità sociale.

La spesa sociale

L’Italia è settima tra i 28 paesi Ue per la spesa per la protezione sociale (29,7% del Pil nel 2011 contro il 29% della media europea). Questo significa che le inefficienze del nostro sistema sociale non sono dovute a quanto si spende, ma a come si spende.

L’Italia è infatti uno dei paesi che destina la quota più elevata di spesa alla previdenza (nel 2011 oltre il 52% della spesa per la protezione sociale, contro il 40% della media Ue28), mentre investe nella tutela della salute il 24,9% delle risorse, collocandosi tra le ultime posizioni nel contesto europeo. L’Italia occupa la penultima posizione anche per le risorse dedicate alle famiglie (4,8% contro 8% dell’UE) e per le politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale (0,3%).

Analizzando più specificatamente la spesa sociale dei Comuni, che svolgono un ruolo centrale nella gestione della rete di interventi e servizi sociali sul territorio, vediamo che nel 2011, per la prima volta dal 2003, questa risulta in diminuzione rispetto all’anno precedente (per approfondimenti sulla spesa locale vedi anche il capitolo dedicato del Primo rapporto sul secondo welfare in Italia). Le risorse destinate dai Comuni alle politiche di welfare territoriale ammontano a circa 7 miliardi 27 milioni di euro (al netto della compartecipazione alla spesa da parte degli utenti e del Sistema Sanitario Nazionale), con una diminuzione dell’1% rispetto al 2010. Fra il 2010 e il 2011 la spesa pro-capite diminuisce in quasi tutte le regioni italiane ma, in rapporto ai valori preesistenti, il calo più consistente si osserva al Sud (-5%), dove i valori medi erano già nettamente al di sotto della media nazionale (50 euro contro i 150 euro del Nord-Est). Anche l’offerta di servizi varia notevolmente a seconda del contesto territoriale, come possiamo vedere, ad esempio, in materia di asili nido e servizi integrativi per la prima infanzia: i bambini che usufruiscono di asili nido comunali o finanziati dai comuni variano dal 3,5% del Sud al 17,1% del Nord-est, mentre la percentuale di Comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 24,3% del Sud all’82,6% del Nord-Est.

Migliora la sanità ma peggiora la tutela della salute

Nel 2012, la spesa sanitaria pubblica è pari a circa 111 miliardi di euro, inferiore di circa l’1% rispetto al 2011 e dell’1,5% rispetto al 2010. Se la sanità pubblica fa passi in avanti verso una maggiore efficienza, contraendo il deficit delle Aziende sanitarie e migliorando l’appropriatezza organizzativa e clinica, si acuiscono invece le disuguaglianze nell’accesso alle prestazioni sanitarie. Durante la crisi, dal 2008 al 2011, le prestazioni a carico del settore pubblico si sono ridotte, compensate da quelle del settore privato a carico dei cittadini, col risultato che l’accessibilità alle cure sanitarie è più difficile per chi ha risorse economiche scarse o inadeguate. Nel 50,4% dei casi, chi rinuncia ad una prestazione sanitaria lo fa per motivi economici, nel 32,4% a causa delle liste di attesa o eccessiva distanza dalle strutture. Nel 2012, l’11,1% dei cittadini ha dichiarato di aver rinunciato alle cure (accertamenti o visite specialistiche non odontoiatriche, interventi chirurgici o acquisto di farmaci). Tale quota sale al 13,2% fra le donne mentre a livello territoriale è più elevata nel Mezzogiorno (15% circa).

Più emigrazione, meno immigrazione

La crisi impatta anche sui flussi migratori. Gli ingressi di cittadini stranieri sono in calo (il 27,7% in meno rispetto al 2007), e contemporaneamente aumenta il numero di stranieri che lasciano l’Italia, circa 38 mila cancellazioni nel 2012 (+17,9% rispetto all’anno precedente). Per quanto riguarda, invece, i cittadini italiani, sono sempre più numerosi quelli che si trasferiscono all’estero: nel 2012 il numero di emigrati italiani è pari a 68 mila unità, il più alto degli ultimi dieci anni, ed è cresciuto del 35,8% rispetto al 2011.

Proseguono infine a ritmi sostenuti le migrazioni interne: permane infatti un saldo migratorio dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord sempre negativo che, in media, nel decennio 2003-2013 è pari a 87 mila unità all’anno.

Riferimenti

Il Rapporto Annuale 2014

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