L’Università italiana è in movimento. E anche gli atenei storici stanno sperimentando percorsi di innovazione di strumenti, metodi e pratiche che rendono l’offerta didattica più sfidante, attrattiva e vicina ai bisogni degli studenti, senza perdere qualità e profondità. È questo il caso del Campus di Treviso dell’Università Cà Foscari, che ha promosso tra giugno e luglio un progetto di didattica innovativa dal titolo Active Learning Lab – Social In Finance.
L’ateneo cafoscarino di Treviso ha scelto di affrontare questa sfida didattica nell’ambito di Contamination Lab (CLab), progetto promosso dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca con l’obiettivo di supportare la didattica innovativa attraverso la creazione, all’interno degli ambienti universitari, di luoghi e momenti di contaminazione tra studenti universitari e dottorandi di discipline diverse. I CLab, in pratica, sono luoghi di impulso della cultura dell’imprenditorialità e dell’innovazione, finalizzati alla promozione dell’interdisciplinarietà, di nuovi modelli di apprendimento e allo sviluppo di progetti di innovazione a vocazione imprenditoriale e sociale, in stretto raccordo con il territorio. Nel 2017, in partenariato con Università Cà Foscari, Human Foundation è entrata nel progetto CLab e nel 2018 è diventata responsabile didattico del laboratorio di Finanza Sociale, sviluppato in collaborazione con Crédit Agricole.
Di seguito vi raccontiamo cosa è emerso da questa esperienza, partendo da una domanda emersa dopo sei settimane di laboratorio: può davvero l’Università italiana mutare i propri modelli educativi, scommettendo sul confronto e sulla proattività, rinnovando il modello classico, centrato spesso sulla verticalità del sapere?
Oltre i tagli: la Ricerca come elemento di competitività
In questi anni i tagli alla Ricerca hanno costantemente colpito il settore universitario. Ne hanno fiaccato la propulsività, la capacità di rinnovamento interno e dal punto di vista del sistema-Paese questa dinamica ha portato ad una riduzione del potenziale di innovazione. Da ciò deriva un rapporto tra Ricerca e Sviluppo Economico che risulta compromesso. E nel giro di pochi anni, tutto questo si è tradotto in una staticità del sistema produttivo imprenditoriale, che continua a puntare sui propri assett storici, riconosciuti a livello internazionale, quali l’agro-alimentare, il manifatturiero di alta qualità, la meccanica di precisione. Senza però dimostrare una reale capacità di reinventare se stesso attraverso percorsi di innovazione e specializzazione che portino alla nascita e crescita di nuovi settori produttivi ad alto valore tecnologico o di impatto sociale.
Ragionando in termini controfattuali, a fronte dell’aumento degli investimenti in attività di Ricerca e Sviluppo, Paesi come la Germania e la Cina negli ultimi quindici anni hanno visto aumentare il numero di imprese innovative, di brevetti, di PIL, di esportazione quindi di occupazione.
In Italia, la logica connessa ai tagli derivati dalle politiche di austerità, condivise con gli altri Paesi del sud Europa (Portogallo escluso), ci ha portato ad una spirale di stagnazione che ha prodotto nel Paese un clima di sfiducia sistemico nel futuro e nelle giovani generazioni. Un dato significativo a riguardo è il numero dei NEET , sintomo di un sistema che non funziona e che non è capace di valorizzare le energie fisiche, mentali ed emotive delle giovani generazioni, vanificandone il potenziale attraverso un sistema di inserimento nel mondo del lavoro inefficace perché non tarato sulle vere esigenze del sistema produttivo del Paese.
Il contributo dei Contamination Lab
In questo il contesto in cui i Contamination Lab possono essere determinanti a invertire la rotta. A partire dal matching di attori differenti in termini di missione, dimensioni, modelli di lavoro come nel caso trevigiano, che ha visto il coinvolgimento di una banca, un ateneo e una fondazione che si occupa di impatto sociale. Con un obiettivo comune: trasferire metodi e strumenti per affrontare il mondo del lavoro con maggiore consapevolezza, tanto delle difficoltà quanto delle proprie risorse e quindi del potenziale che potranno apportare all’interno delle aziende in cui verranno assunti.
È quindi obbligo di ogni istituzione profit e non del Paese comprendere come il ruolo educativo e formativo non sia una questione da demandare solo al mondo scolastico (per quanto di Alta Formazione). E il decantato modello di ibridazione tra domanda e offerta di capitale umano può davvero essere reso efficace se ciascuno, in relazione alle proprie dimensioni e possibilità oggettive, si mette effettivamente in gioco contribuendo attivamente a questo processo di contaminazione trasversale.
Nel modello proposto non sono solo i ragazzi, studenti e studiosi coinvolti ad essere oggetto di acquisizione di competenze, ma le stesse organizzazioni coinvolte nei percorsi didattici innovativi partecipano adottando una propensione di apertura e ascolto verso le idee e i modelli di pensiero di una generazione – quella Z – che, avendo modelli culturali e comportamentali completamente diversi da quelli della precedente, risulta portatrice di elementi di grande potenzialità.
Il portato di innovazione delle nuove generazioni che popolano le nostre università non deve essere sacrificato sull’altare del modello di “dinamico immobilismo” che spesso riguarda il sistema universitario nazionale, fatto di riforme che si susseguono tra loro in grado di prospettare grandi cambiamenti strutturali ma che nella realtà lasciano, come spesso accade in Italia, il contesto di riferimento pressoché invariato. Servono esperienze coraggiose, come quella Ca’ Foscari, che pur assumendo su di sé il rischio della sperimentazione, ambiscano a mutare strutturalmente gli assetti costruiti e costituiti in decenni di potere dalle classi dirigenti.
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