Nell’opera Strade per la libertà, pubblicata nel 1918, Bertrand Russell fu tra i primi intellettuali a proporre quello che oggi chiamiamo reddito di cittadinanza (o di base, in inglese Basic Income). Scriveva infatti il filosofo inglese: «Una certa somma di reddito, sufficiente per coprire le prime necessità, dovrebbe essere assicurata a tutti, sia a chi lavora sia a chi non lavora; chi poi è disposto a impegnarsi per una qualche attività utile alla collettività dovrebbe ricevere una somma più consistente». Nel corso del Novecento, l’idea di Russell è stata oggetto di un dibattito sempre più acceso. Il Basic Income è diventato il cavallo di battaglia di Philippe Van Parijs, esponente di primo piano del cosiddetto «egualitarismo liberale»: nel libro Real Freedom for All («Vera libertà per tutti», 1995) il filosofo belga ha proposto una articolata giustificazione filosofica del reddito di base come strumento capace di conciliare capitalismo di mercato e giustizia distributiva. La desiderabilità di un reddito universale garantito (anche se sotto la forma meno esigente dell’imposta negativa: cfr. il glossario) è stata appoggiata anche da molti pensatori liberisti, primi fra tutti Hayek e Friedman. Dal 1986 è attivo un network di riflessione e pressione politica a favore del Basic Income, prima solo europeo e poi, dal 2004, mondiale (Bien: Basic Income Earth Network). Ed è attualmente in corso una petizione (tecnicamente: un’«iniziativa di cittadini europei») per chiedere alla Commissione Ue di inserire il reddito di base nella propria agenda sociale.
Se passiamo dal mondo delle idee e delle proposte a quello delle istituzioni e delle politiche concrete, come si presenta la situazione? Diciamo subito che il reddito di cittadinanza o di base non esiste da nessuna parte (eccettuato un modesto schema introdotto in Alaska e finanziato dalle entrate petrolifere). In tutti i Paesi anglosassoni e in quelli europei occidentali (Ue a 15), escluse Italia e Grecia, esistono però forme più o meno articolate e generose di reddito minimo garantito. Nella figura qui a fianco vengono elencate le denominazioni che questa prestazione assume nei vari contesti nazionali e gli importi previsti per una persona completamente priva di risorse, senza familiari. Le somme sono puramente indicative: in alcuni casi il reddito minimo è tassato, in altri no; il livello di aiuto cambia di molto a seconda della composizione della famiglia; spesso sono previste aggiunte e integrazioni anche consistenti. Inoltre nella maggior parte dei Paesi Ue vi sono assegni universali per i figli, che si aggiungono al reddito minimo. È dunque difficile (anche se non impossibile) fare dei raffronti precisi tra Paesi. Un fatto va tuttavia ribadito. Insieme alla Grecia, il nostro Paese rimane, incredibilmente, privo di questo fondamentale tassello del welfare: quello che impedisce la «caduta libera» nella povertà e nell’esclusione sociale di membri a pieno titolo della collettività.
Rispetto al reddito di cittadinanza, il reddito minimo garantito presenta due importanti differenze: è erogato solo alle persone povere ed è accompagnato da un programma di «attivazione». Il beneficiario s’impegna infatti a seguire un percorso di integrazione lavorativa e/o sociale, ad esempio frequentando un corso di formazione. Il sussidio è un vero e proprio diritto soggettivo, nel senso che, se il richiedente soddisfa i requisiti, lo Stato è tenuto a concederlo. Siamo cioè lontani dalla assistenza sociale del passato (anche se in alcuni Paesi questa espressione è ancora utilizzata nel nome dello schema), la quale aveva un’impostazione discrezionale e spesso arbitraria, senza vere e proprie garanzie di tutela in caso di bisogno.
Rispetto ad altri diritti sociali (come la pensione), il reddito minimo è però un diritto sui generis: gli studiosi lo definiscono un «diritto individualizzato condizionale». L’importo della prestazione è legato infatti a caratteristiche molto specifiche del richiedente (età, stato familiare e occupazionale, situazione economica ecc.). La fruizione dipende a sua volta da comportamenti definiti da un patto — spesso scritto e formalizzato — con lo Stato: se il patto non è rispettato dal beneficiario, il diritto cessa, la prestazione è revocata. L’enfasi crescente posta sull’attivazione fa sì che il reddito minimo configuri una forma inedita di welfare pubblico: un welfare di natura contrattuale, una piccola rivoluzione nella storia ormai più che secolare dello Stato sociale europeo.
Lo scopo principale della condizionalità è abbastanza ovvio: si vogliono evitare comportamenti opportunistici e «pasti gratis». La stipula del patto intende incentivare comportamenti responsabili e virtuosi da parte dei beneficiari, tali cioè da condurli nel minor tempo possibile al recupero dell’autosufficienza. Da un punto di vista economico, il ragionamento non fa una piega: le prestazioni sociali non devono incoraggiare il cosiddetto «azzardo morale», ossia (in questo caso) approfittare del sostegno esterno per non lavorare. Ma dal punto di vista della teoria politica liberale è lecito chiedersi: un controllo così ravvicinato del comportamento individuale non rischia di essere troppo «paternalista», di imporre vincoli eccessivi alla libertà personale? La critica può essere rivolta a tutte le politiche di workfare, quelle che collegano il godimento di una prestazione alla immediata disponibilità al lavoro (spesso qualsiasi lavoro). Una nota rassegna delle esperienze di workfare degli anni Novanta è significativamente intitolata Un’offerta che non puoi rifiutare: un’espressione usata dal Padrino (quello di Mario Puzo) per evocare metodi di convinzione non proprio ortodossi e certo non rispettosi delle preferenze dell’interlocutore.
Il rischio di paternalismo in effetti c’è, ma esistono anche i possibili antidoti, già sperimentati da alcuni Paesi. Innanzitutto il patto deve essere negoziato fra le parti e tener conto, appunto, degli obiettivi, desideri e vincoli del richiedente. Ma c’è di più: il patto deve vincolare anche l’amministrazione pubblica a fornire opportunità concrete di entrare in contatto con possibili datori di lavoro, percorsi che davvero promettono reinserimento e inclusione. La teoria economica tende a preoccuparsi troppo di azzardo morale e troppo poco di asimmetrie di potere, abusi paternalistici e, soprattutto, inettitudine burocratica.
Sempre ragionando ai confini fra efficienza ed equità, occorre poi tener conto di un altro problema. Anche se accompagnato da forme di attivazione (non oppressive), il reddito minimo interviene pur sempre ex post: rimedia a un bisogno acuto già emerso. Ma perché le persone cadono vittime della povertà? Per un complesso di fattori, molti (anche se non tutti!) al di là del controllo individuale, e spesso connessi a una iniqua distribuzione delle opportunità. Se questo è vero, il modo migliore per combattere la povertà è agire ex ante, cercando di neutralizzare il più possibile la trasmissione intergenerazionale dello svantaggio. Il discorso porterebbe lontano. Mi limito qui a dire che per raggiungere questo obiettivo servono due strategie. La prima è accrescere i cosiddetti «investimenti sociali», in particolare per l’istruzione e la formazione, sin dall’infanzia. Disporre di un adeguato capitale umano è la chiave per imboccare corsi di vita che consentano di migliorare la propria posizione di partenza e di restare «sicuri» dal punto di vista economico e sociale.
La seconda strategia è quella di incidere direttamente sulla distribuzione già esistente delle opportunità, e in particolare dei redditi. Luigi Einaudi raccomandava, nelle sue Lezioni di politica sociale, sia un «innalzamento dal basso» dei più sfavoriti, tramite servizi e sussidi, sia un «abbassamento delle punte» dei più favoriti, tramite l’imposizione progressiva e le tasse di successione. Potremmo tuttavia interrogarci su un’opzione ancor più radicale: istituire, oltre a un reddito minimo garantito, anche un «reddito massimo consentito». L’idea è molto meno peregrina di quanto sembri. Nel marzo scorso, gli svizzeri hanno votato l’introduzione di regole molto restrittive per la definizione degli stipendi dei manager. E proprio oggi — 24 novembre — nella Confederazione elvetica si tiene un nuovo referendum sui «salari equi». Secondo la proposta messa ai voti dai giovani socialisti, nessuna retribuzione dovrebbe superare il multiplo di 12 rispetto alla retribuzione più bassa, all’interno della stessa impresa, pubblica o privata. La Svizzera (non la Scandinavia socialdemocratica, non la Cina comunista) potrebbe essere il primo Paese al mondo a dotarsi di una «banda» reddituale vincolante, sia verso l’alto (salario equo, la formula 1:12), sia verso il basso. Nei prossimi mesi è infatti previsto un ulteriore referendum sull’introduzione di un vero e proprio reddito di cittadinanza, nel senso pieno del termine.
Quali indicazioni fornisce la teoria liberale riguardo ad eventuali tetti massimi sui redditi? Le posizioni sono diverse: Robert Nozick ad esempio sarebbe inorridito al solo pensiero, mentre John Rawls, al contrario, avrebbe detto: le differenze di retribuzione sono giustificate se aumentano il reddito complessivo di una società e se i frutti di questo aumento tornano a vantaggio dei più sfavoriti. Nessun tetto, dunque: ma uno scrutinio rigoroso sulla corrispondenza fra alte retribuzioni, alto merito individuale, alta performance. Quanti stipendi di manager pubblici e privati in giro per l’Europa supererebbero questo test?
Ma veniamo all’Italia. Come mai non abbiamo un reddito minimo garantito né, tantomeno, una strategia di investimenti sociali e di lotta alla povertà? Perché il nostro welfare si è sviluppato solo verso l’alto (inventando le pensioni «baby» e quelle «d’oro») e non ha mai costruito robuste fondamenta «in basso». Come stupirci se un simile edificio è diventato un vero e proprio campionario di iniquità? Come potevamo sperare che senza fondamenta la casa potesse stare in piedi, reggere i venti della globalizzazione, i vincoli dell’euro, lo tsunami della crisi? E infatti la casa non sta reggendo: né sotto il profilo finanziario né sotto quello sociale. Nonostante le riforme, le pensioni ancora consumano il 15 per cento circa del Pil e siamo il Paese Ue con la più alta percentuale di trattamenti sopra i 3.000 euro al mese. Sul versante opposto, l’8 per cento della popolazione vive in condizioni di povertà assoluta.
Negli ultimi mesi qualcosa finalmente si è mosso. Da un lato si è cominciato a parlare di tetti alle prestazioni più generose e alle retribuzioni più elevate, soprattutto nel settore pubblico. Molti si sono scandalizzati per l’attacco ai diritti acquisiti. Ma in un sistema pensionistico a ripartizione come quello italiano, i diritti acquisiti tendono a trasformarsi in «oneri scaricati» sulle giovani generazioni. Per quanto riguarda le retribuzioni, ricordiamo poi che quelle dei nostri burocrati sono fra le più alte del mondo.
Dall’altro lato, sono state recentemente formulate proposte concrete per introdurre anche da noi il tassello mancante. Il Movimento 5 Stelle vorrebbe il reddito di cittadinanza per tutti coloro che hanno redditi sotto la soglia di povertà relativa. A parte lo svarione terminologico (si tratta in realtà di uno schema di reddito minimo), la proposta è fuori linea rispetto alle migliori esperienze straniere e costerebbe uno sproposito. Molto più serie e praticabili le altre due proposte sul tappeto. La prima è quella, molto dettagliata, del Reddito di inclusione sociale (Reis), formulata mesi fa dalle Acli. La seconda è quella, più generale, del Sostegno d’inclusione attiva (Sia), elaborata da un gruppo di lavoro nominato dal ministro del Lavoro Enrico Giovannini. Anche l’Istituto per la ricerca sociale (Irs) ha fatto una sua proposta, che ha il merito di indicare le possibili fonti di finanziamento: una incisiva razionalizzazione delle prestazioni assistenziali già esistenti, che a volte trasferiscono risorse a famiglie che certo povere non sono.
Con un po’ di coraggio politico e serietà istituzionale, ci sono oggi le condizioni per ribilanciare la struttura sbilenca del nostro stato sociale e costringerlo a svolgere quella che dovrebbe essere la sua prima funzione: aiutare i più deboli. Certo, ci sono i problemi della burocrazia, dell’evasione, dell’economia nera e persino della mafia. Ma qual è l’alternativa? Tenerci cinque milioni di poveri, fra cui un milione di bambini? E difendere al tempo stesso grotteschi privilegi solo perché «ci sono»? Non occorre scomodare la filosofia né l’economia per capire che lo status quo non è in alcun modo sostenibile e che le riforme non possono più aspettare.
Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 24 novembre
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