Una crisi così diffusa e radicale chiama una rigenerazione: abbiamo rivelato una buona capacità di resistenza, adesso è il momento di dimostrare una eccezionale volontà di trasformazione. Come ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel saluto rivolto alla settima edizione del Tempo delle Donne, è un compito critico ma può essere esaltante. Dobbiamo abbandonare il piccolo cabotaggio e imboccare una rotta che punti a innalzare «la qualità complessiva» della vita di più generazioni.
Proviamo allora ad allargare lo sguardo alle cose fondamentali che non vanno, e non da quest’anno del Covid, per stringere poi l’inquadratura su poche filiere di interventi da privilegiare in vista dei finanziamenti europei. L’Italia ha due giganteschi problemi di base di «denominatore»: il volume del Prodotto interno lordo e quello dell’occupazione.
Il primo determina il tasso di deficit e di debito pubblico. Il secondo – l’occupazione e più in generale la popolazione tra i 20 e i 64 anni – determina un altro tipo di tasso: quello di dipendenza degli anziani. Stiamo sul secondo denominatore, determinante per assicurare quella «resilienza socio-economica» su cui insiste la visione – pratica quanto ideale – di Next Generation Ue.
Basta un numero per cominciare a ragionare: 0,6. È il tasso di dipendenza degli anziani dagli occupati. In Italia ciascun occupato finanzia con il proprio reddito l’insieme dei trasferimenti e dei servizi di 0,6 anziani: si sobbarca, cioè, il 60% delle spese. È un valore molto elevato, quasi doppio rispetto ai soliti inarrivabili Stati nordici ma comunque superiore anche a Germania e Francia. Preoccupano poi le previsioni: nel 2050 la percentuale salirà al 100%. Un occupato, un pensionato.
Cosa fare per scongiurare l’approdo, in 30 anni scarsi, a un’equazione insostenibile? Bisogna soprattutto investire, avendo in mente un doppio traguardo: innalzare il tasso di fertilità e insieme di occupazione. L’esperienza comparata ci dimostra che i due obiettivi sono correlati. Il nodo è unico: l’indipendenza economica femminile. È provato che la maggioranza delle donne vorrebbe sia lavorare sia avere figli. Se una donna si sente precaria, rimanda la gravidanza. E, sempre più spesso, l’attesa rischia di prolungarsi fino a quando le lancette dell’orologio biologico si fermano. Svuotiamo da vecchi ingombri e soprammobili culturali un luogo comune: l’occupazione non è un ostacolo alla maternità, al contrario tende a promuoverla.
I fronti su cui muoverci sono due. Da una parte, favorire con misure concrete l’equilibrio tra vita lavorativa e familiare (le ormai note «politiche di conciliazione» che speriamo siano un’aspirazione di madri e padri assieme) nonché introdurre incentivi fiscali innovativi per le imprese e per i secondi percettori di reddito. Dall’altra parte, promuovere opportunità di lavoro in quei settori – da noi caratterizzati da una sorta di atrofia – dove in altri Paesi le donne (che sono, naturalmente, il 50% della popolazione giovanile) trovano più sbocchi occupazionali. Il deficit riguarda essenzialmente servizi legati a sanità, assistenza, istruzione e formazione, turismo, cultura e ricreazione. Non sono numeri irrilevanti. Parliamo, ad esempio, di circa un milione e mezzo di posti in più in Francia rispetto all’Italia. E sono posti nel settore pubblico e non pubblico, compreso il privato sociale.
Quello che servirebbe è un grande «Piano di infrastrutturazione sociale». In altre parole, un progetto coerente di investimenti in asili e luoghi per il doposcuola, in residenze anche diurne per gli anziani, in strutture per la medicina territoriale e l’assistenza socio-sanitaria. E poi centri per l’impiego, per l’inclusione, per l’integrazione dei migranti, per la prima formazione (così importante per i giovani) e per quella permanente (utile lungo l’arco della vita). Il piano dovrebbe coinvolgere, con il settore pubblico, tutti i mondi del «secondo welfare». E potrebbe essere presentato a Bruxelles come realizzazione delle tante sollecitazioni ricevute dalla Commissione sul versante degli investimenti sociali. Sul tavolo europeo, inoltre, c’è sempre il Piano Prodi-Sautter sulla infrastrutturazione sociale dell’Unione.
Un miglioramento così profondo della rete territoriale e delle opportunità per donne/giovani rischia di scontrarsi con due ostacoli: la propensione a chiedere trasferimenti a cascata e la tentazione di finanziare micro-interventi; le scarse capacità di progettazione (e poi di attuazione) della nostra pubblica amministrazione. Ma l’autunno 2020 può e deve essere una stagione-laboratorio per tutti.
Il lockdown e la sua scia hanno messo in luce la fragilità in più punti del sistema di sostegno alle persone e alle famiglie, soprattutto in presenza di figli. È per questo che proprio da qui ha senso avviare il percorso di trasformazione. Dagli anni Settanta del secolo scorso, quel Novecento al quale guardiamo come dal ponte di una nave che si allontana senza rotta, si trascinano malfunzionamenti e vuoti attorno alle vite delle madri. In Italia gli asili coprono il 25% dei posti necessari. È possibile – ne ha scritto Rita Querzè il 9 settembre sul Corriere – raddoppiarli in cinque anni abbassandone i costi fino ad allinearli a quelli delle scuole materne. Arriveremmo così a raggiungere il modello francese, per continuare a usare il riferimento di un Paese vicino, e potremmo agganciare in dieci anni una copertura che soddisfi al 100% la domanda.
Perché puntare tanto sugli asili-nido quando l’intera scala dei servizi e dell’educazione scricchiola? Perché un asilo è come un hub da dove decollano opportunità in tante direzioni: più equilibrio nei tempi di vita dentro e fuori casa; sicurezza economica e dunque più consumi da parte delle famiglie; posti di lavoro (in Italia l’assistenza all’infanzia crea a stento lo 0,2% di occupazione, in Francia il 2,5); cura dei piccoli e stimolo al loro sviluppo cognitivo-emotivo senza diseguaglianze. E non vale l’obiezione che ai cancelli d’uscita dovranno comunque correre le madri, portatrici – per amore o per forza – del reddito più debole. Ci stiamo immaginando giovani coppie libere di inventarsi il proprio codice di condivisione e non di conciliazione soltanto al femminile: genitori presenti a giorni alterni o a schema libero. Pensiamo addirittura ad asili e scuole con orari flessibili, lunghi, in quartieri ripopolati di persone e di natura e di punti di ricreazione e assistenza. Il virus è stato libero di sconfinare e contagiarci di continente in continente; ora facciamo noi lo sforzo di scavalcare i muri e riprogettare il nostro posto nel mondo.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 15 settembre 2020, ed è qui riprodotto previo consenso degli autori.