Il Rapporto di Save the Children punta il dito su una vera e propria piaga scoperta del nostro modello sociale e di intervento pubblico. I livelli di povertà educativa degli studenti sono troppo bassi e nel Mezzogiorno sono addirittura indecenti. In regioni come Sicilia, Campania, Basilicata uno studente di 15 anni ha il triplo di probabilità di non raggiungere competenze minime in matematica rispetto a uno studente trentino. In particolare la Calabria ha percentuali di alunni in povertà cognitiva identiche a quelle di paesi come la Turchia e la Bulgaria, e si avvicina pericolosamente ai paesi in via di sviluppo quali la Malesia ed il Messico. Che in un paese che si dice avanzato la situazione sia così drammatica è incomprensibile e inaccettabile.
Il dramma è tanto più grave quanto più consideriamo che prevenire la povertà educativa non richiede sforzi immani né sul piano finanziario né su quello organizzativo. Save the Children formula raccomandazioni molto ragionevoli e alla nostra portata: più scuole, insegnanti più motivati e attenti al problema, azioni mirate nei confronti di chi rischia di più, tempo pieno, attività extracurriculari.
Dovrebbe essere già tutto previsto dalla «Buona Scuola». Purtroppo però le leggi non bastano, occorre attuarle e prendere impegni precisi sotto forma di target misurabili. I livelli di competenze sono fortemente correlati alla famiglia di origine, il che origina un circolo vizioso di generazione in generazione. La povertà economica non è il solo fattore responsabile, ma è il principale. Per questo qualsiasi piano non può prescindere da misure generali di contrasto alla povertà, come il reddito minimo di inclusione. Non è necessario che faccia tutto il governo. C’è il terzo settore, il volontariato, ci sono le Fondazioni. Queste ultime hanno un prezioso capitale di esperienze che può e deve essere valorizzato. Se ne ricordi il governo nella prossima legge di stabilità.
*Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 16 settembre 2015