In questi giorni gli Stati Uniti si interrogano sulle proteste che hanno seguito l’uccisione di Michael Brown, diciottenne afroamericano di Ferguson. La dinamica è in realtà piuttosto “tipica”: una persona appartenente ad una comunità “emarginata” – o percepita come tale – viene uccisa durante uno scontro con le forze dell’ordine – che incarnano invece la comunità “dominante” – dando avvio ad una catena di disordini e violenze che dal singolo episodio sfociano in un conflitto più generale tra le due “fazioni”. E’ quanto avvenuto ad esempio a Londra, Parigi e più recentemente nella democratica e inclusiva Svezia. Possiamo dire lo stesso del caso americano? Quali sono le ragioni alle origini della protesta?
Ferguson, la suburbanizzazione della povertà
Per capirlo facciamo un passo indietro ed iniziamo geo-localizzando il contesto. La città di Ferguson, 20 mila abitanti, è di fatto un’area periferica della metropoli di Saint Louis, nel Missouri, uno stato che pur essendo geograficamente classificato nel Midwest, è storicamente e politicamente uno Stato del Sud (o più esattamente del Border South). Ceduto agli Usa con la Louisiana Purchase, è stato uno “slave State” che si schierò con i Confederati del Sud nella guerra di secessione e fu teatro di numerosi linciaggi di neri durante gli anni dell’emancipazione. Un passato che certamente influenza ancora la composizione demografica e le scelte politico-sociali fatte fino ad oggi. Ricondurre questi episodi ad un mero conflitto ideologico “bianchi contro neri” sarebbe però riduttivo, mentre è necessario analizzare anche altri fattori, a cominciare dallo sviluppo urbano della città, esempio del fenomeno della “suburbanizzazione della povertà”. St. Louis è stata per molto tempo una delle aree metropolitane più segregate della nazione, caratterizzata da una sorta di muro invisibile tra i quartieri della comunità bianca e di quella nera. Fino alla fine degli anni ’40, infatti, agli afroamericani non era consentito risiedere nella maggior parte delle aree suburbane intorno a St. Louis. Quando, tra gli anni ‘50 e ‘60, i whites iniziarono a lasciare la città per le zone circostanti, divenute più residenziali, si cominciarono ad impiegare degli “escamotage” legislativi per creare delle zone esclusive che escludessero di fatto la popolazione più povera, generalmente afroamericana – ad esempio bocciando i progetti per la costruzione di condomini e alloggi a basso costo, con il risultato di accrescere la povertà dell’area cittadina. Dagli anni ’70, però, anche molti neri che avevano cominciato a confluire nel ceto medio iniziarono a trasferirsi da St. Louis nelle città limitrofe in cerca di abitazioni e scuole migliori – città, come Ferguson, concentrate soprattutto nella zona a Nord, dove vi era maggiore disponibilità di appartamenti e case accessibili. Questi trasferimenti hanno letteralmente rovesciato la composizione della popolazione, passata da un 85% di bianchi e 14% di neri nel 1980 al 29% di bianchi e 69% di neri nel 2010. Ma questo cambiamento non è stato assorbito all’interno delle istituzioni: il sindaco e 5 membri su 6 del Consiglio della città sono bianchi, uno School Board composto da 6 bianchi e un ispanico regge un corpo studentesco composto per il 78% da studenti neri, e solo 3 su 53 uomini del Ferguson Police Department sono afroamericani.
Si è così creata una frattura governanti/governati che ha finito per alimentare quel sentimento di esclusione sociale sfociato appunto nelle proteste di questi giorni. Le ragioni di questa frattura sono molteplici: lo sviluppo urbano “ghettizzante” descritto sopra, ma anche il fatto che buona parte della popolazione nera disponga di redditi bassi e scarsi livelli di educazione – tutti fattori che alimentano disaffezione nei confronti delle istituzioni. Il territorio di St. Louis presenta infatti seri problemi sul fronte delle politiche educative. Nonostante la qualità degli istituti scolastici sia stata il motivo per cui molti black si sono trasferiti qui dalla città, negli ultimi anni due distretti – tra cui quello dove si era diplomato Brown – hanno perso l’accreditamento statale, mentre il distretto di Ferguson resta accreditato ma con punteggi molto bassi rispetto alla media nazionale. In un tale sistema educativo, l’abbandono scolastico è piuttosto alto, arrivando a volte a coinvolgere fino la metà degli studenti. Così tanti giovani che lasciano la scuola e non trovano lavoro si disaffezionano alla propria comunità.
Infine, questa zona ha subito in maniera abbastanza acuta gli effetti della crisi, dai mutui subprime alla recessione nel settore automobilistico, che per anni ha impiegato e sostenuto lo sviluppo della classe media afroamericana. Rispetto al 2000, il reddito mediano annuo di Ferguson è sceso del 30%, a 36mila dollari. Nella zona in cui viveva Brown, il reddito mediano è sotto i 27mila dollari e solo la metà degli adulti lavora.
Solo una “questione razziale”?
La protesta di Ferguson è stata vista da molti come la testimonianza che la “questione razziale” americana non è ancora stata risolta. Questo è vero, ma bisognerebbe distinguere tra due piani: uno “ideologico”, che si manifesta nell’accettazione della “diversità” e nel riconoscimento dei diritti civili a tutti gli individui, e uno “empirico”, che si esplicita nelle reali condizioni di vita della popolazione. Da un punto di vista ideologico-culturale, in questi anni l’integrazione tra la comunità bianca e quella nera è certamente migliorata: sono in aumento i matrimoni e le unioni fra persone di pelle diversa, crescono i politici eletti – fino a raggiungere la presidenza del paese -, gli imprenditori e i professionisti afroamericani. Ma nonostante questo le condizioni economico-sociali degli afroamericani restano squilibrate. In particolare, il processo di emancipazione avviato soprattutto dal secondo dopoguerra è stato bruscamente interrotto con l’avvento della crisi del 2008, che ha rigettato in povertà molti cittadini afroamericani che erano riusciti ad entrare nella classe media. Secondo i dati del Pew Research Center, in seguito alla recessione, tra il 2005 e il 2009, il patrimonio netto medio di un cittadino afroamericano si è ridotto del 53%, scendendo a 5.677 dollari, mentre quello di un cittadino bianco è diminuito del 16%, attestandosi sui 113.149 dollari.
La guerriglia di Ferguson, quindi, costituirebbe molto più di un conflitto “tra bianchi e neri”, delineandosi come il prodotto della devastazione generale della classe media, che ha perso pezzi soprattutto tra i suoi membri più vulnerabili, che avevano da poco iniziato la propria ascesa sociale – e quindi in primis gli afroamericani. In questo senso gli Stati Uniti scontano anche un sistema di welfare che fatica ad attutire i colpi degli shock economici nei confronti dei suoi stessi cittadini. E’ interessante infatti notare come a differenza di quanto accaduto nei sobborghi europei – dove le rivolte hanno coinvolto soprattutto cittadini stranieri o di origine straniera – in questo caso i protagonisti siano cittadini americani. Ma Ferguson testimonia anche – in questo caso alla stregua di quanto accaduto in Europa – il ruolo che le politiche sociali possono svolgere nella prevenzione dei conflitti sociali e nell’affermazione dei diritti civili attraverso, ad esempio, politiche di sviluppo urbano che contrastino il consolidamento di “enclavi” etniche urbane o attraverso politiche educative e del lavoro che migliorino le opportunità delle nuove generazioni e di conseguenza il grado di affezione e fiducia nelle istituzioni.
Riferimenti
The Death of Michael Brown. Racial History Behind the Ferguson Protests, The New York Times, 12 agosto 2014
Ferguson’s mounting racial and economic stress set stage for turmoil, The Los Angeles Times,
How for-profit policing led to racial disparities in Ferguson, Vox.com, 20 agosto 2014
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