L’onorevole Elena Carnevali è stata eletta per la prima volta alla Camera dei Deputati nel 2013 nella lista del Partito Democratico. Carnevali può vantare una carriera professionale come fisioterapista in diverse strutture pubbliche e private, oltre a importanti esperienze amministrative – è stata Consigliere comunale e poi Assessore alle “politiche sociali, migrazione e cooperazione internazionale” del Comune di Bergamo – e nel mondo dell’associazionismo – in particolare l’Associazione Disabili Bergamaschi.
Attualmente è componente della XII Commissione “Affari Sociali” e della Commissione d’Inchiesta sul “Sistema d’Accoglienza, Identificazione ed Espulsione, nonché sulle Condizioni di Trattenimento dei Migranti e sulle Risorse Pubbliche Impiegate”. È stata relatrice alla Camera dei Deputati della proposta di legge 698 “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone affette da disabilità grave prive del sostegno familiare”, approvata come Legge n. 112 il 22 giugno 2016.
Abbiamo discusso con lei dell’evoluzione delle politiche per il “durante e dopo di noi” proprio a partire dalla legge di cui è stata relatrice. Di seguito vi proponiamo alcune delle parti più significative del nostro dialogo.
Onorevole Carnevali, Lei è stata tra i firmatari e relatrice della proposta di legge 698 “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone affette da disabilità grave prive del sostegno familiare” recentemente approvata come Legge n. 112 il 22 giugno 2016. Può descriverci il percorso di approvazione?
Innanzitutto sottolinerei che è una iniziativa di natura parlamentare, frutto di sei proposte di legge di cui tre del Partito Democratico, una di Scelta Civica, una del Nuovo Centrodestra e una della Lega Nord, sebbene quest’ultima era incentrata sulla non autosufficienza degli ultrasessantacinquenni. L’iter è durato due anni: in prima lettura il passaggio è stato alla Camera, in seconda al Senato, in terza lettura definitiva è ritornato alla Camera. Facendo una sorta di analisi finale è stato un percorso lungo che però, grazie una interlocuzione molto approfondita e molto dialettica con il mondo dell’associazionismo, ha premiato la qualità.
Alcune espressioni dell’associazionismo, come la FISH, avrebbero voluto usare questa occasione per un’azione di sistema ad ampio raggio, una sorta di “180 sulla disabilità” (in riferimento alla Legge 180 nota anche come “Legge Basaglia” che chiuse i manicomi); ma in seguito la legge – che non è solo sul “Dopo di noi” ma riguarda il "Durante e dopo di noi" – si è tarata sulla oggettiva praticabilità che, a mio giudizio, consente di poter davvero innestare un percorso virtuoso in futuro, un percorso che è già partito dai territori.
Come relatore della legge alla Camera ho scelto di non assumere una delle sei proposte avanzate come testo base, ma di arrivare a una bozza di testo sintesi delle sei proposte di legge, e di utilizzare invece il percorso parlamentare, la fase emendativa e di discussione, soprattutto di audizione, per fare in modo che fosse una proposta di legge il più possibile discussa e partecipata coinvolgendo tutti gli stakeholder. Direi che sia nella fase emendativa sia nella fase finale, e anche nel passaggio al Senato, l’approccio sia stato responsabile e finalizzato all’effettiva applicabilità della norma. Da un lato abbiamo tenuto conto delle differenze e del contributo di coloro che non hanno presentato nessuna proposta di legge e hanno battagliato poi non approvandola, come il Movimento Cinque Stelle.
Dall’altro abbiamo concordato con il Senato le varie possibili modifiche che potevano essere introdotte in modo tale che la lettura alla Camera fosse la lettura definitiva.
Sono quasi vent’anni che il mondo dell’associazionismo e di rappresentanza delle persone con disabilità, soprattutto delle associazioni famigliari, aspettava questa legge. Non dobbiamo essere orgogliosi, perché non abbiamo fatto altro che fare il nostro dovere, ma avere la consapevolezza che in questo rapporto – tra responsabilità pubblica che ci assumiamo per la prima volta e responsabilità del mondo non profit, del mondo profit e dell’associazionismo – si possa finalmente immaginare che le persone abbiano una prospettiva diversa rispetto a quella dell’istituzionalizzazione.
L’approvazione della legge è stata preceduta da un intenso confronto con i principali attori come organizzazioni di volontariato, associazioni famigliari, fondazioni di partecipazione, fondazioni di origine bancaria, associazioni di categoria del terzo settore. Come descriverebbe questo dialogo?
Direi che il dialogo, molto dialettico, sia stato caratterizzato da una grande libertà di esprimersi sapendo però che le responsabilità pubbliche hanno caratteristiche diverse poi della responsabilità dei singoli soggetti. Direi che è stato anche molto schietto. La prima lettura non aveva visto il totale soddisfacimento di parte del mondo dell’associazionismo che chiedeva interventi più incisivi come chiudere le grandi istituzioni residenziali.
Alcune famiglie ci hanno chiesto di prevedere agevolazioni per chi sottoscrive una polizza assicurativa post mortem in favore del figlio con disabilità; con diversi gruppi parlamentari abbiamo ritenuto di tenerne conto e in fase emendativa è stata quindi aumentata la detrazione fiscale da 530 a 750 euro. Noi non pensiamo che tutte le famiglie con persone con disabilità abbiano la possibilità di sottoscrivere polizze assicurative ma che queste possano essere un beneficio sussidiario, non sostitutivo alla responsabilità pubblica, un’opzione che viene data a chi ne ha la possibilità, la volontà e l’ambizione.
Nel mondo del terzo settore in questi anni ho trovato una grande evoluzione culturale; sia l’associazionismo che il mondo cooperativo, sono spesso riconosciuti dalle famiglie come intermediari degni di fiducia insieme ai quali pensare, progettare, realizzare progetti per il "durante e dopo di noi". Mi sembra di poter dire che questa legge è stata vista come una grande opportunità che mette in gioco la responsabilità diretta del terzo settore, il quale ha una vocazione che contribuisce a mantenere molto alta l’innovazione dal punto di vista della capacità di realizzare progetti individualizzati e non più standardizzati. Il terzo settore ha la capacità di ragionare in una logica non solo di cura, benessere e assistenza come questa legge si prefigge ma anche di trovare nelle persone con disabilità soggetti che possono essere attivatori di altre politiche di welfare, come molte esperienze ci stanno mostrando.
Secondo Lei, quali sono gli aspetti più rilevanti e innovativi della legge?
Io continuo a pensare che il cuore di questa legge stia nelle finalità contenute nell’articolo uno. Ci siamo posti l’obiettivo di invertire questa propensione tutta italiana di investire nella realizzazione di strutture socio-sanitarie come unica modalità di mettere in campo progetti di residenzialità adulta finalizzati all’emancipazione dalla famiglia.
Questa legge cerca di fare propri le vocazioni e gli impegni che noi abbiamo sottoscritto con la Convenzione ONU. Non a caso nella legge è ricordato l’articolo 19 dove si chiede agli Stati di riconoscere il diritto delle persone con disabilità di scegliere con lo stesso principio di uguaglianza degli altri dove e con chi vivere. Spesso questa libertà e questo diritto di scelta, ancorché mediati da figure come l’amministratore di sostegno, sono sempre stati molto limitati. Attualmente una persona con disabilità o riesce ad accedere a un progetto sperimentale per la vita indipendente, possibilità molto residuale, o si trova "un posto letto" in una struttura socio-sanitaria. Lo spazio in mezzo a queste due opzioni in realtà è uno spazio esplorato e realizzato soprattutto dal mondo dell’associazionismo, da enti locali lungimiranti, ma non è mai diventato una strutturalità di sistema.
Lo dico con molta consapevolezza: non necessariamente la risposta per tutte le persone con disabilità è la convivenza con altre persone in piccoli nuclei che riproducono le condizioni abitative e relazionali della casa famigliare, come questa legge (all’articolo 4) si propone di fare; l’obiettivo della legge è però di porre le persone nella condizione di poter scegliere tra più opzioni, quelle che più sono rispettose delle ambizioni, delle volontà e dei desideri delle persone con disabilità e della loro famiglia.
Come lei prima accennava alcune organizzazioni di rappresentanza hanno criticato diversi punti della legge evidenziando come alcuni degli strumenti introdotti, come polizze assicurative e trust, non siano accessibili alle famiglie con difficoltà economiche e come la legge non superi le grandi istituzioni assistenziali. Ritiene fondati questi rilievi?
I rilievi, in particolare rispetto alle polizze assicurative e al trust, sono critiche che ho sempre cercato di comprendere fino in fondo ma non mi trovano d’accordo. Le dico perché con una risposta che il Presidente dell’ANFFAS Roberto Speziale ha dato a più convegni ai quali ho avuto la possibilità di partecipare insieme a lui: “fino adesso in realtà chi aveva degli strumenti economici aveva l’opportunità di essere più garantito, con questa legge casomai facciamo finalmente il contrario, assumendoci questa responsabilità pubblica con il fondo che è stabilito all’articolo 3”. Voglio ricordare che la legge stanzia 270 milioni nel triennio, 90 milioni nel 2016. Finalmente c’è questa responsabilità pubblica con la disponibilità a trovare meccanismi di finanziamento e alla compartecipazione della spesa.
Ma la cosa che francamente mi stupisce è che si pensi che il trust sociale sia uno strumento che noi abbiamo introdotto con questa legge; in realtà il trust sociale esiste da più di vent’anni nella legislazione italiana, con la sola differenza che fino ad adesso era stato regolamentato esclusivamente come strumento finanziario mentre con questa legge sono stati introdotti fortissimi criteri di tutela, trasparenza, pubblicità, garanzia per le persone con disabilità, per le quali vengono sottoscritti, oltre che alcune agevolazioni fiscali.
Lei aveva fatto riferimento ad alcune critiche relative alla mancata chiusura dei grandi istituti…
Alcune organizzazioni di rappresentanza volevano sfruttare questo momento per chiudere tutte le convenzioni attualmente previste dalle legislazioni regionali che consentono di accreditare comunità d’accoglienza e residenze sanitarie per disabili, fino a venti posti letto.
Loro avrebbero voluto, in uno spazio temporale piuttosto breve, escludere l’accreditamento per strutture con più di otto posti e questo a nostro giudizio avrebbe avuto alcune controindicazioni. La prima è quella di mettere in crisi il sistema e le famiglie che non avrebbero avuto disponibilità di residenze per adulti con disabilità, mentre la seconda è l’impatto di natura economica che sarebbe ricaduto sulle stesse famiglie perché le persone con disabilità sarebbero rimasti nelle strutture privatamente.
Capisco benissimo la volontà di superare in breve tempo l’istituzionalizzazione e sono consapevole che molte persone al momento sono escluse dalla possibilità di costruire un progetto per il Durante e dopo di noi, però vedo in molte città già innestare percorsi di questo tipo e spero che con il finanziamento previsto da questa legge trovino solidità, passando dalla sperimentazione alla strutturalità. In una fase successiva si può ragionare sulle ambizioni opportune e giuste come il mondo dell’associazionismo avrebbe voluto.
Sono passati dieci anni dalla firma della Convenzione ONU per i Diritti delle Persone con Disabilità. Come valuta l’applicazione di questo importante documento in Italia e le preoccupazioni espresse dal Comitato sui Diritti delle Persone con Disabilità?
La definirei un processo che ha portato al Piano Biennale per la Disabilità, uno degli ultimi atti del Governo Letta nell’anno 2013. Poi recentemente a Firenze è stato questo organizzato un convegno di due giorni che ha approfondito la situazione. Quello che si dimostra è che questo Paese fatica ancora a ragionare assumendo come principio fondamentale nelle proprie scelte e per qualsiasi scelta di qualsiasi natura, la precondizione dell’accessibilità di tutti, soprattutto delle persone con disabilità.
Posso dirglielo anche come amministratore: mai come in questa legislatura abbiamo visto un’attenzione così forte per le persone con disabilità, sapendo però che noi abbiamo moltissimo da fare partendo anche dalle proposte che arrivano dal mondo dell’associazionismo. Mi vengono in mente la revisione delle procedure di accesso e di riconoscimento della condizione di invalidità e di accompagnamento, ancora eccessivamente burocratica e basata su percentuali che non rispondono alla verifica delle vere condizioni di partecipazione sociale, di ciò che serve a una persona con disabilità.
Come ha sottolineato l’Unione Europea, abbiamo ancora divergenze nell’accessibilità del diritto fortemente contrastanti da Regione a Regione, e qui ovviamente incide l’esito del referendum. Devo dire con rammarico che uno dei contenuti bocciati il 4 dicembre prevedeva che il Parlamento potesse realizzare norme quadro che avrebbero finalmente potuto armonizzare le legislazioni regionali, che nessuno vuole modificare, in tema di politiche sociali. Una previsione che finalmente avrebbe potuto garantire a tutti gli stessi diritti, indipendentemente dal luogo in cui si nasce.
Secondo lei il Piano Biennale approvato a Firenze a settembre può essere una buona strada?
Mi sembra che questo Piano, che ha visto la partecipazione del Ministero, delle parti sociali e del mondo della rappresentanza, dal punto di vista della vision e della definizione degli obiettivi sia un buon prodotto che traccia la strada verso la quale questo Paese deve andare. Rimane però un problema di ordine culturale che è la mancanza di consapevolezza dei diritti delle persone con disabilità, non solo nella pubblica amministrazione, dal livello locale allo Stato, ma anche nella società ove lo vediamo benissimo dai comportamenti individuali, dal rispetto per le persone con disabilità.
Gli ultimi anni hanno visto l’approvazione di varie leggi riguardanti le persone con disabilità, come la Legge 134/2015 in materia di disturbi dello spettro autistico, il Jobs Act riguardo al collocamento mirato, la riforma del terzo settore per le parti riguardanti le cooperative sociali e le imprese sociali. A questi atti legislativi è opportuno aggiungere il Secondo Programma Biennale di Azione per la Promozione dei Diritti e l’Integrazione delle Persone con Disabilità. Può tratteggiare le principali caratteristiche e linee di tendenza delle politiche per la disabilità di questa legislatura?
Il tratto essenziale è avere più diritti, ampliare lo spazio del diritto e ridurre le difformità territoriali. Questo è stato l’obiettivo che ha avuto, come lei ha già richiamato, anche il riconoscimento della Legge sull’Autismo.
Alcuni interventi non sono citati, però mi permetto di fare questa sottolineatura. Perchè si realizzino gli interventi di natura sociale, costituzionalmente la responsabilità è in capo agli enti locali e alle Regioni. Il campo sociale è garantito, oltre dalla premessa obbligatoria e necessaria dei riferimenti culturali, anche dalle risorse messe in campo. Io sono stata amministratore locale fino al 2013: so cosa vuol dire per un ente locale non sapere su quali risorse può contare per dare continuità ai progetti messi in campo. Questa legislatura oltre alle leggi e alle norme citate, che mi sembrano particolarmente rilevanti, ha dato una continuità e un incremento di crescita al Fondo per la Non Autosufficienza fino ad arrivare a 450 milioni, ha messo in campo i 300 milioni sul Fondo Nazionale delle Politiche Sociali dando strutturalità negli anni, ha previsto 70 milioni – con un emendamento portati a 75 milioni – per le misure che riguardano l’assistenza scolastica per gli studenti con disabilità delle scuole superiori e i progetti di comunicazione per i disabili sensoriali.
Le finalità sono ampliare lo spazio del diritto e realizzare quella conversione culturale di cui parlavo prima, che ha fortemente bisogno di essere alimentata e perseguita pensando che noi obbligatoriamente dobbiamo ragionare in una logica di riferimenti europei. Avendo sottoscritto la Convenzione ONU, essa è ora il nostro punto di riferimento. La strada che abbiamo individuato fino adesso è basata su una logica di gradualità perchè servirebbero moltissime risorse economiche che adesso non ci sono, ma in questi anni abbiamo aggiunto parti importanti.
Emancipazione dalla famiglia ma soprattutto il perseguimento di una piena e compiuta vita, rispettosa della dignità umana e delle opportunità che possono essere date a una persona con disabilità è una strada sulla quale mi auguro che ci si possa orientare.
Data l’attuale difficoltà degli enti pubblici a reperire risorse economiche a fronte di vincoli finanziari sempre più stringenti, che ruolo possono avere gli attori privati nella gestione e nel finanziamento dei servizi e nelle soluzioni necessarie per garantire l’esigibilità dei diritti? Mi riferisco al terzo settore, alle fondazioni bancarie, alle fondazioni di comunità, alle imprese…
Direi molto importante. La cosa che mi ha colpito in quegli anni è che i primi a farsi carico delle innovazioni sociali, sostenendole attraverso i contenuti dei bandi, siano state proprio le fondazioni bancarie, ai cui finanziamenti poi accedono sia il settore pubblico che il terzo settore. Sono anche convinta che sia doverosa una responsabilità sociale dell’impresa finalizzata all’implementazione di progettualità pubbliche.
Sul welfare di secondo livello di buone innovazioni ce ne sono e la logica delle politiche integrative che danno l’opportunità di ampliare progettualità, diritto, accesso ai servizi, deve trovare un’alleanza molto forte, che si può realizzare, anzi si deve realizzare, tra i soggetti beneficiari che possono utilizzare il welfare aziendale e la parte del pubblico, che sostiene coloro che a questi benefici non possono accedere, in modo che comunque ci sia la più ampia garanzia del diritto per tutti.
Un’altra cosa che si sperimenta in alcuni territori è una politica mutualistica e solidaristica che si sviluppa tra persone che possono mettere in campo risorse personali come un appartamento che non necessariamente va esclusivamente a beneficio del figlio con disabilità ma può essere condiviso con altre persone in una logica di mutualità.
Guardiamo al futuro: secondo lei quali interventi in materia di disabilità dobbiamo aspettarci nei prossimi anni?
Siamo oggi in una condizione d’incertezza, ma non siamo venuti meno agli impegni presi attraverso la legge di stabilità e le altre misure di cui abbiamo parlato.
Più in generale credo sia importante uscire dalla logica dell’assistenzialismo e porre in essere le condizioni perchè le persone con disabilità abbiano la possibilità di vedere riconosciuto il diritto al lavoro quando è possibile, e degli spazi di partecipazione pubblica. Poi vi è la questione molto più complessa della certificazione sulla quale dobbiamo orientarci perseguendo obiettivi europei. E ci sono anche le problematiche inerenti l’accessibilità, dei servizi, delle città, che vanno insieme alla possibilità di vivere una vita piena di cittadinanza sociale.
Ritengo anche che quanto di positivo fatto in questi anni, – oltre ai miglioramenti di natura legislativa e agli incrementi di natura economica – sia la definizione di una visione verso cui andare, sapendo che è un work in progress su cui dobbiamo lavorare, e di un metodo di lavoro caratterizzato dal dialogo con il terzo settore e i corpi intermedi.