La Fondazione Leone Moressa torna ad analizzare la precarietà sociale nelle città italiane, osservando la marginalizzazione degli stranieri e, di conseguenza, il rischio banlieue. Rischio al quale il nostro paese non è immune, come dimostrano i fatti avvenuti recentemente a Milano e Roma. Mettendo in relazione la condizione socio economica della popolazione straniera con i tassi di criminalità e con la presenza o meno di investimenti pubblici per l’integrazione, lo studio valuta quanto nelle nostre città sia alto il rischio di marginalizzazione e, di conseguenza, di disagio e devianza. Complessivamente sono stati analizzati 9 indicatori, da cui si è ottenuto un indice di “precarietà sociale”, utile a definire una classifica delle città più a rischio.
La classifica delinea picchi di mancata integrazione al centro-nord e nelle cittadine medio piccole. «Il dato strutturale dell’Irpef ovviamente pesa molto, col suo delta tra nord e sud, tremila a Bologna, mille e rotti a Reggio Calabria», premette Mario Abis, partner di Renzo Piano nel gruppo G124 inventato dal grande architetto per «rammendare» le periferie italiane. «L’elemento ovvio è che l’immigrato al Sud si integra non perché sta meglio ma perché i meridionali stanno peggio, è povero fra i poveri. In un’economia marginale lo sfruttamento diventa poi la sua integrazione, come a Castel Volturno, dove gli stranieri sono trattati come schiavi nelle piantagioni razziste» spiega il sociologo Domenico de Masi. Il secondo dato di rilievo è che anche regioni come l’Emilia Romagna, abituate all’integrazione di fronte alla pressione esterna dell’immigrazione, si scoprono più chiuse. Il terzo dato è che le città più “smart”, come Trento e Trieste, hanno molta precarietà sociale.
Il governo sta lavorando a una delibera-cornice per i piani strategici delle nostre dodici città metropolitane: «Se questa precarietà sociale non la inseriamo nei modelli strategici, la vediamo solo quando c’è già. Noi dobbiamo prevedere, prevenire». Come? «La risposta sta nell’ultima colonna della ricerca: con la spesa», sbotta De Masi. «Scuola, educazione, spesa pubblica per l’integrazione», dice Abis. A questo scopo, sarebbero disponibili anche finanziamenti europei, che però bisogna intercettare, per evitare in Italia quanto già accaduto in altre nazioni, dove la mancata integrazione delle minoranze ha generato e sta generando conflitti sociali anche di grande portata.
Banlieue d’Italia: ecco dove l’integrazione è più difficile
Goffredo Buccini, Corriere della Sera, 30 marzo 2015
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