L’Italia ha una spesa sociale più alta della media UE (28,3% del Pil contro il 26,9%) ma sbilanciata sulla previdenza e sottodimensionata per quel che riguarda gli investimenti sociali in capitale umano, servizi di cura, conciliazione e politiche attive del lavoro. È quanto evidenzia l’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, che ha presentato i risultati di due rapporti di ricerca frutto, rispettivamente, di una convenzione con l’Università Luiss Guido Carli – Sep e del progetto europeo Mospi.
Come riporta Giorgio Pogliotti sul Sole 24 Ore, il nostro welfare appare non è allineato coi mutamenti dei bisogni sociali, peraltro esacerbati dalla pandemia, ed è lontano dagli standard adottati dagli altri Paesi europei. Una situazione di cui il nostro Laboratorio si è ampiamente occupato nel Quinto Rapporto sul secondo welfare (in particolare nel Capitolo 1).
Al nostro Paese servirebbe una spesa sociale più orientata a favore dei servizi (scuola e formazione, sanità, servizi di cura e di assistenza, politiche attive del lavoro) per un accesso universale alla protezione sociale e una diminuzione delle diseguaglianze. Questo permetterebbe di affrontare problemi complessi come le situazioni occupazionali discontinue e la bassa retribuzione (a cui è legato anche il fenomeno dei working poor), che riguarda soprattutto alcune fasce della popolazione, ad esempio i lavoratori autonomi.