1. Introduzione
2. Il contratto di apprendistato fra realtà e aspettative
3. Il Testo Unico sull’Apprendistato: elementi innovativi e storia di una riforma
4. Il nuovo apprendistato secondo gli addetti ai lavori
5. I temi controversi riguardanti l’apprendistato: qualche spunto di riflessione

1. Introduzione

L’attuale situazione politica italiana si presenta come una stagione di riforme, siano esse forzate, volute, contrastate o anche solo annunciate. Un’area in cui l’intervento è sentito più urgente è costituita dal mercato del lavoro, se non altro per via di una sua palese criticità: la pessima performance occupazionale dei giovani, la cui gravità si è accentuata a seguito della crisi economica-finanziaria scoppiata nel 2008. In questo contesto è allora necessario approfondire il significato dell’apprendistato, che è ritenuto sia uno dei principali strumenti di prevenzione contro la disoccupazione giovanile, sia un possibile pilastro della riforma del mercato del lavoro al momento in discussione.

Il convegno “Il nuovo apprendistato e la sfida dell’occupazione giovanile”, tenutosi presso l’Università di Milano il 2 marzo 2012, ha perciò posto al centro dell’attenzione la recente approvazione del Testo Unico sull’Apprendistato, ex d.lgs. 167/2011 del 14 settembre 2011, contribuendo a chiarirne i contenuti espliciti e le sue possibili implicazioni. Tale occasione ha anche costituito l’ultimo appuntamento del Master universitario di secondo livello in “Diritto del Lavoro e Relazioni Industriali”, edizione 2011, organizzato dal Dipartimento di Studi del Lavoro e del Welfare con il supporto dell’Inpdap/Inps, che ha messo a disposizione venti borse di studio per la sua frequenza.

I lavori sono stati introdotti dal prof. Armando Tursi e della prof.ssa Ida Regalia, promotori dell’incontro per conto del Dipartimento, e dal dott. Maurizio Pizzicaroli, Direttore Regionale Lombardia Inpdap/Inps, i quali hanno contestualizzato il fenomeno dell’apprendistato e illustrato le aspettative a cui lo stesso è associabile. La relazione del prof. Pier Antonio Varesi ha poi analizzato dettagliatamente i punti salienti del d.lgs. 167/2011, fornendo gli elementi utili su cui si sono poggiati i successivi interventi, i quali hanno espresso l’interpretazione data da alcuni importanti attori istituzionali a tale riforma. Si sono così alternate le relazioni di due sindacalisti, il dott. Sergio Spiller, Segretario Aggiunto Femca-Cisl, e il dott. Mauro Morelli, Segretario Nazionale FABI, con quelle di due rappresentanti delle imprese, il dott. Massimo Bottelli, Direttore Settore Sindacale e Sociale di Assolombarda, e l’avv. Domenico Polizzi, Vice Presidente dell’Ufficio Legislazione e Contenzioso del Lavoro in Italia di ENI. Successivamente, hanno riportato le proprie analisi il rag. Potito Di Nunzio, dell’Associazione Nazionale Consulenti del Lavoro, e il dott. Vincenzo Caridi, Direttore Centrale Risorse Umane Inpdap/Inps.

Quanto emerso nel corso del convegno ha chiarito le potenzialità, così come i limiti, dell’apprendistato, fornendo i primi spunti per una valutazione degli effetti che potrebbe produrre una sua valorizzazione, qualora questa diventasse parte di una prossima riforma del mercato del lavoro.

2. Il contratto di apprendistato fra realtà e aspettative

Il contratto di apprendistato è una tipologia contrattuale espressamente rivolta ai giovani (dai 15 ai 29 anni) e finalizzata in particolare all’acquisizione di un bagaglio di competenze rivolte non solo all’attività lavorativa ma al mercato di lavoro in genere. Attraverso tale rapporto di lavoro l’azienda si impegna a formare l’apprendista attraverso fasi di insegnamento tecnico-professionale e formazione pratica, svolte sia all’interno che all’esterno dell’azienda, oltre che a versare un corrispettivo per l’attività svolta. La rilevanza dell’elemento formativo è evidente quando si considera che il piano formativo, la qualifica da conseguire ed il monte ore devono essere indicati nel contratto accanto alla prestazione alla quale il lavoratore è adibito. Il d.lgs. 276/2003 ha articolato l’apprendistato in tre categorie: l’apprendistato per l’espletamento del diritto/dovere di istruzione e formazione, l’apprendistato professionalizzante e l’apprendistato per l’acquisizione di un diploma o percorsi di alta formazione.

A fronte dei vari oneri formativi, la cui vantaggio per il lavoratore è evidente ma che possono risultare gravosi per l’azienda, il datore di lavoro può corrispondere al lavoratore un salario ridotto (attraverso “sottoinquadramento” o percentualizzazione), beneficia della fiscalizzazione degli oneri sociali e ha la possibilità di sciogliere liberamente il rapporto al termine del periodo formativo. Inoltre gli apprendisti non vengono calcolati nel computo dei limiti numerici per l’applicazione di particolari normative (art. 18 Statuto dei Lavoratori, obbligo di assunzione lavoratori disabili). Per i lavoratori, invece, la possibilità di accrescere la propria professionalità si accompagna all’accesso ad istituti e schemi tipici dell’area “protetta” del mondo del lavoro quali ferie, “tredicesima”, maturazione dell‘anzianità, TFR, copertura previdenziale, assicurazione contro l’invalidità, accesso alla CIG in deroga.

La riforma dell’apprendistato è un tema sul quale si è registrato negli ultimi anni un alto livello di consenso sia a livello politico, sia tra le parti sociali che nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni; tale accordo è sfociato, come noto, nell’emanazione del Testo Unico sull’apprendistato (d.lgs. 167/2011), che pone tra i suoi obiettivi il rilancio dell’istituto e nello specifico la soluzione del “nodo istituzionale” riguardante la ripartizione delle competenze, che ha particolarmente inficiato l’efficacia della precedente riforma in materia. A seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, infatti, alle Regioni sono state assegnate ampie competenze proprio in tema di formazione e lavoro. Sono stati necessari numerosi interventi della Corte Costituzionale per dirimere i conflitti tra Stato e parti sociali da un lato e Regioni dall’altro, in particolare per quel che riguarda contenuti e regolamentazione della formazione: l’estrema complessità derivante da questo intreccio ha inoltre scoraggiato l’utilizzo dello strumento da parte delle imprese.

Il mancato utilizzo dello strumento nel contesto italiano fa da contraltare a sistemi, come quello tedesco, dove l’apprendistato ricopre un ruolo fondamentale nell’avvicinamento e nella transizione dei giovani nel mercato del lavoro: il risultato principale è rappresentato dai bassi tassi di disoccupazione giovanile, non solo rispetto ad altri Paesi UE, ma anche con riferimento al tasso di disoccupazione generale. L’apprendistato, come sottolineato da Ida Regalia, può infatti rappresentare non soltanto un nuovo modo di gestione delle risorse umane ma può anche diventare strumento di politica attiva in grado di produrre effetti virtuosi sia per i lavoratori – che vedono crescere la propria professionalità e, tramite questa, la propria “employability” – sia per le imprese – alle quali viene consentito di disporre di un esteso periodo di valutazione del lavoratore prima del suo definitivo inserimento nella realtà aziendale.

In una prospettiva più ampia, la formazione dei lavoratori con competenze eccedenti le necessità dell’impresa non solo mette gli stessi in una condizione di maggior forza, ma attraverso la loro preparazione oltre l’immediato ne aumenta le capacità di innovazione e l’adattabilità rispetto, ad esempio, ai mutamenti tecnologici. Il tema del contenuto della formazione, che va attentamente modulato al fine di fornire ai giovani lavoratori competenze effettivamente spendibili, viene anche in rilievo quando si consideri che il complesso della riforma pensionistica allunga fondamentalmente l’età di uscita dal lavoro, riducendo ulteriormente il turn-over dovuto a ragioni anagrafiche, e aggravando potenzialmente la già negativa situazione occupazionale dei giovani.

La rilevanza centrale del tema emerge, infine, dal largo utilizzo dei contratti atipici che nell’esperienza italiana assorbono la quasi totalità dell’occupazione giovanile e sono stati finora preferiti dalle imprese rispetto all’oneroso contratto di apprendistato; uno strumento di questo tipo, ove opportunamente promosso ed esteso al numero più ampio possibile di lavoratori, potrebbe rappresentare una misura fondamentale per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.

Nonostante alcune esperienze estere (come quella tedesca e svedese) sembrino indicare un’alternativa tra l’utilizzo dello strumento dell’apprendistato e la messa in campo di un sistema di flexicurity per il contrasto alla disoccupazione giovanile, l’introduzione di Armando Tursi ha messo in luce come la promozione di questo strumento non sia in necessaria contraddizione con altri interventi nel mercato del lavoro (si pensi alle proposte di contratto “unico” o “prevalente”, che in alcune formulazioni prevedono una componente formativa). Appare tuttavia necessario sciogliere il rapporto tra queste linee di intervento per permetterne una proficua valorizzazione.

3. Il Testo Unico sull’Apprendistato: elementi innovativi e storia di una riforma

Nella sua presentazione relativa alle prospettive derivanti dall’adozione del Testo Unico, Varesi ha in primo luogo sottolineato le ragioni che hanno determinato la necessità di un’ulteriore riforma (strutturale) di un istituto storicamente presente nel nostro ordinamento e recentemente oggetto di regolazione nel 1997 e nel 2003. Il d.lgs. 167/2011 può essere considerato come una reazione all’aggravarsi della disoccupazione giovanile attraverso la messa in campo di misure che siano in grado di smuovere il mercato del lavoro già nel breve periodo, ma anche come un intervento diretto a correggere gli insuccessi dei precedenti tentativi costituiti dalla legge 196/1997 e dalla 276/2003.

Le cause dell’inefficacia dell’azione legislativa in materia e della scarsa diffusione dello strumento vanno in primo luogo ricondotte alle incertezze giuridiche derivanti dall’intreccio di competenze tra Stato, Regioni e parti sociali previsto dalla 276/2003 e ai reiterati conflitti sul tema, non completamente sopiti dall’intervento della Corte Costituzionale. Accanto a tali elementi, vanno evidenziate le limitate risorse pubbliche a sostegno dello strumento, che hanno permesso di coinvolgere in percorsi di effettiva formazione (e non di mero addestramento al lavoro) solo una quota ridotta degli apprendisti e, in ultimo, le difficoltà del dialogo tra il sistema formativo ed imprese riguardanti il contenuto formativo dell’apprendistato. Tali difficoltà sono testimoniate dal mancato raggiungimento delle intese Stato-Regioni riguardanti l’apprendistato per l’espletamento del diritto/dovere di istruzione e formazione, oltre che dalla refrattarietà delle istituzioni (comprese le Università) a modificare l’offerta formativa al fine di prevedere percorsi specifici per il conseguimento di titoli accademici attraverso l’apprendistato di alta formazione.

Alla base del processo sfociato nella redazione del Testo Unico si trova il Patto a sostegno dell’occupazione giovanile e per la riforma dell’apprendistato, siglato da Stato, Regioni e parti sociali al fine di definire un quadro di interventi per porre finalmente lo strumento in questione al centro della transizione dalla formazione al lavoro, e prevenire nel contempo l’abuso e l’uso distorto di tirocini e co.co.co, riconducendoli alle loro specifiche finalità. Tale metodo concertativo allargato ha portato nell’anno successivo ad un’intesa allargata, ratificata anche in sede di conferenza Stato-Regioni, ed infine confluita nel d.lgs. 167 del 14 settembre 2011; la lettura condivisa del quadro di competenze della riforma del Titolo V della Costituzione fa sì che il nuovo impianto normativo si possa considerare “al riparo” dall’emersione di futuri conflitti di competenze simili a quelli derivanti dalla legge 276/2003.

Il d.lgs. 167/2011, pur assumendo la denominazione di Testo Unico, non si è limitato al riordino della materia ed all’abrogazione delle norme previgenti (con il caveat del brevissimo termine di scadenza del periodo transitorio entro il quale la normativa riformata deve essere portata a regime, salvo proroghe non ancora intervenute), ma ha comportato innovazioni tali da far guardare ad un “nuovo modello” di apprendistato vantaggioso sia per le imprese che per i giovani lavoratori, che potrebbe rappresentare il principale strumento di contrasto alla disoccupazione giovanile.

Dal Testo Unico emerge la tendenza a un’espansione dell’utilizzo dello strumento, con riferimento all’ambito anagrafico (tutta la fascia giovanile 15-29 anni), ai tipi di qualifica o di titolo che possono essere ottenuti (che arrivano fino al dottorato e all’attività di ricerca) e agli specifici ambiti e settori coinvolti dalla sua applicazione (che ricomprendono anche la P.A., le professioni, la somministrazione a tempo indeterminato e la mobilità), che potrebbe portare a preferire l’apprendistato come strumento d’ingresso nel mercato del lavoro, in particolare rispetto alle co.co.co e co.co.pro. L’autonomia collettiva riveste un ruolo di grande rilevanza: la disciplina del contratto di apprendistato è infatti rimessa a specifici accordi interconfederali o ai contratti collettivi di livello nazionale sulla base dei vari principi elencati nel Testo Unico (art. 2, comma 1, lett. a)-m)). In particolare alla contrattazione collettiva è consentito di stabilire la retribuzione o ricorrendo al sottoinquadramento oppure applicando la percentualizzazione del salario. Tale rinvio va tuttavia considerato generico, non alterando l’efficacia giuridica dei contratti collettivi di diritto comune, che rimangono quindi privi di efficacia erga omnes.

La tripartizione prevista dal d.lgs. n. 276/2003 è stata rafforzata e resa più complessa. L’area di applicazione dell’apprendistato per qualifica e diploma è stata estesa ai lavoratori dai 15 ai 25 anni privi di qualifica (in precedenza la fascia 18-25 poteva accedere solo all’apprendistato professionalizzante o per l’alta formazione), e prevede un percorso non solo per l’ottenimento di qualifica professionale (triennale) ma anche di diploma professionale (quadriennale); va anche sottolineata l’individuazione (a mezzo di un’intesa Stato-Regioni) di qualifiche e diplomi regionali e dei relativi standard formativi minimi.

L’apprendistato professionalizzante è specificatamente finalizzato al raggiungimento di una qualifica professionale a fini contrattuali, ovvero dell’acquisizione di un livello di competenze riconosciuto dai sistemi di classificazione e inquadramento del personale in funzione di specifici profili professionali. Tra gli elementi di novità apportati dal T.U. spicca l’estensione dell’apprendistato professionalizzante ai lavoratori stagionali. Anche in questo caso la contrattazione collettiva può prevedere specifiche modalità di svolgimento, come il part-time o la stipula di un contratto a tempo determinato. Tali opzioni, tuttavia, sollevano dubbi riguardanti la loro idoneità a garantire la continuità del percorso formativo e potrebbero comportare contrasti con gli stagionali “ordinari” in relazione al diritto di precedenza. L’apprendistato per l’alta formazione ricomprende ora anche l’attività di ricerca che non è collegata al conseguimento di uno specifico titolo di studio; in ragione di ciò avrebbe dovuto essere ricompresa nell’apprendistato professionalizzante, ma il suo stretto collegamento con il mondo e gli istituti dell’alta formazione ha probabilmente fatto procedere verso questa ricostruzione. Per quel che riguarda invece la disciplina dell’apprendistato nel praticantato, essa si presenta fortemente connessa alla riforma degli ordini professionali, in particolare per verificare il suo inserimento nella tripartizione prevista dalla normativa.

Alle forme espressamente indicate dal T.U. vanno aggiunte le forme di apprendistato per i lavoratori in mobilità e somministrati che, pur presentando elementi di specificità, possono essere ricondotte senza particolari difficoltà nella tripartizione prevista dal Testo Unico. Di particolare interesse risulta essere l’apertura a lavoratori in mobilità, categoria che prescinde dai limiti d’età normalmente previsti per l’applicazione del contratto; vi è tuttavia la necessità di un esplicito chiarimento per la definizione dell’ambito di applicazione, ad oggi riconducibile ai lavoratori indicati dall‘art. 8 della legge 223/1991 (richiamata dal T.U.), a tutti i soggetti iscritti alle liste di mobilità, o a coloro che già percepiscono l’indennità. Per quel che invece riguarda la possibilità per le agenzie di somministrazione di assumere apprendisti (da utilizzare esclusivamente in staff-leasing, ovverosia a tempo indeterminato) va sottolineato che la duplice prestazione offerta dall’agenzia di lavoro interinale – messa a servizio della manodopera e formazione – evidenzia il tentativo di recupero di uno strumento controverso come quello della somministrazione a tempo indeterminato, utilizzato allo scopo di produrre un decentramento della formazione che permetta di sgravare in particolare le piccole imprese dagli oneri connessi a quest’ultima.

Il contratto di apprendistato è ancora una volta espressamente finalizzato alla formazione, declinata in due principali canali/comparti: da un lato attraverso la previsione di specifici percorsi formativi per il conseguimento di titoli di studio (diploma o qualifica e alta formazione), sull’altro versante tramite l’affinamento di competenze già acquisite con riferimento a specifiche esigenze aziendali (professionalizzante). In particolare la poco usuale prospettiva dell’alternanza tra studio e lavoro per l’acquisizione di tutti i titoli di studio sembra riprodurre nell’ordinamento italiano il sistema cosiddetto “duale”, che si trova alla base dei successi dei modelli di apprendistato, come quello tedesco nel contenimento della disoccupazione giovanile e nella non discriminazione dei giovani nel mercato del lavoro, nonostante il loro rapido inserimento al termine dell’istruzione obbligatoria. Nello specifico, è prevista la possibilità di continuare la propria formazione nel sistema scolastico e universitario o, in alternativa, tramite un misto di formazione e lavoro che consente di raggiungere tutti i titoli di studio. Il grande successo di questo sistema, oltre che dagli effetti positivi sulla disoccupazione giovanile a cui si è accennato, è dimostrato dal fatto che il 60% circa di coloro che hanno acquisito un titolo di studio lo ha conseguito proprio attraverso i percorsi di formazione in apprendistato.

Il contenuto formativo dell’apprendistato di “primo livello” o per l’alta formazione si basa su standard definiti dal MIUR, dal MLPS e dalle Regioni, ed è gestito da istituzioni formative come Università e centri di formazione professionale; alla contrattazione collettiva è quindi riservato il ruolo (secondario) della definizione delle modalità di erogazione della formazione aziendale. Il ruolo decisivo delle istituzioni pubbliche si apprezza in particolare con riferimento alla definizione della struttura e dei contenuti della formazione, che devono risultare condivisi tra le istituzioni ed omogenei rispetto alla formazione tradizionale ed ai suoi obiettivi, pur attraverso l’utilizzo di metodologie non tradizionali e la valorizzazione dell’apprendistato sul lavoro.

Nell’ambito del nuovo apprendistato professionalizzante va invece sottolineato ancora una volta l’ampio ruolo della contrattazione collettiva nella definizione di uno specifico sistema di formazione, che tende all’acquisizione di competenze tecnico-professionali specialistiche in funzione dei profili stabiliti dai contratti collettivi e dai sistemi classificatori di inquadramento. L’autonomia collettiva definisce elementi fondamentali del contenuto formativo come durata e la modalità di erogazione. La formazione viene svolta sotto la piena responsabilità del datore di lavoro e solo eventualmente integrata dall’offerta formativa pubblica regionale (nei limiti delle risorse disponibili). Le competenze acquisite attraverso tali percorsi formativi devono poter essere utilizzati anche nel sistema educativo, in particolare attraverso la maturazione di crediti formativi. Il necessario raffronto tra standard professionali e formativi verrà gestito da un apposito organismo tecnico (il Repertorio delle Professioni).

La messa in campo di un efficace sistema di formazione professionale (compresa quella “continua”) può anche passare attraverso il supporto degli Enti Bilaterali nella definizione di standard e modalità di erogazione, nonché ai fini dell’accertamento dei risultati, e tramite l’intervento dei Fondi Interprofessionali per quel che concerne il finanziamento dei percorsi formativi. La ridotta durata della componente formativa per l’apprendistato professionalizzante (da 3 a 6 anni) avrà molto probabilmente un impatto meno rilevante di quello che appare, posto che la contrattazione collettiva solo raramente aveva previsto la durata massima, attestandosi su durate similari.

Nell’ottica di promuovere ulteriormente il ricorso a tale tipo di contratto, restringendo nel contempo il ricorso a forme improprie di lavoro parasubordinato o autonomo, va sottolineato che l’attuale normativa prevede, a fronte di contenuti formativi molto diversi nella tripartizione proposta, vantaggi sostanzialmente immutati per il datore di lavoro. In assenza di interventi correttivi da parte dell’autonomia collettiva tale situazione rischia si svilire una volta di più il ricorso allo strumento dell’apprendistato rispetto all’utilizzo di altri contratti atipici. Si pensi ad esempio all’apprendistato per la qualifica o il diploma che impone consistenti oneri in capo al datore (come il monte-ore di 400h di formazione) che tuttavia rappresenta forse lo strumento più importante dal punto di vista sociale, rivolgendosi ai giovani ancora privi di qualifica e, quindi, in una particolare posizione di debolezza e potenziale precarietà di lungo periodo nel mercato del lavoro.

4. Il nuovo apprendistato secondo gli addetti ai lavori

Una volta descritti i punti salienti del nuovo apprendistato ex d.lgs. 167/2011, il convegno è proseguito all’insegna degli attori istituzionali che poi, nella pratica, potrebbero avere più a che fare con tale tipo di contratto.

Il punto di vista delle imprese

Il punto di vista delle imprese è stato espresso da Massimo Bottelli, Direttore Settore Sindacale e Sociale di Assolombarda, il quale ha messo in rilievo alcuni aspetti potenzialmente problematici dell’apprendistato. A suo avviso è prioritario chiarire quale relazione intercorrerà fra lo stesso apprendistato e le tipologie contrattuali che, in questo momento, garantiscono alle imprese la flessibilità in entrata, prime fra tutte la collaborazione a progetto e il contratto a tempo determinato. In termini essenziali, occorre stabilire se fra di loro avverrà un’integrazione oppure una sostituzione. Pur intravedendo i pregi dell’apprendistato, infatti, le imprese temono infatti che la sua valorizzazione comporti il sacrificio di quegli strumenti contrattuali che finora sono stati appetibili per flessibilità d’utilizzo e contenimento dei costi. Per questo motivo Bottelli ha mostrato forti perplessità di fronte alle ipotesi che accostano il nuovo apprendistato a un possibile e prossimo ‘contratto unico’ o ‘prevalente’, ritenendole suggestive in linea teorica, ma al tempo stesso portatrici di rigidità per le imprese.

L’apprendistato, ha continuato Botelli, avrà qualche chances di far breccia fra le imprese solo nella misura in cui eviterà il contenzioso sulla sua applicazione. A tal fine sarebbe necessario predisposizione di un impianto snello dell’istituto oltre che una migliore definizione delle cause, delle procedure e degli effetti nel caso in cui, una volta scaduto il periodo di formazione, si opti per una sua risoluzione. Un’ulteriore criticità dell’apprendistato riguarda poi la ripartizione delle competenze in materia fra i diversi livelli di governo. Benché la recente riforma abbia disciplinato l’attribuzione delle fonti, il dott. Bottelli ha avanzato infatti il dubbio che questa chiarezza possa soccombere di fronte al protagonismo delle Regioni. In tal senso, i primi segnali sono già stati intravisti in Lombardia, dove il legislatore regionale sta provando a influenzare tematiche che, sulla carta, andrebbero invece lasciate alla piena autonomia delle parti sociali.

Infine, le imprese ravvisano una sorta di "problema di immagine" legato all’apprendistato, il cui ricorso risulterebbe penalizzato anche dal fatto che i giovani e le famiglie italiane lo associano a uno status occupazionale inferiore. Le ragioni sottostanti, secondo il Bottelli, affondano nella storia dell’istituto, il quale ha tradizionalmente contraddistinto l’ingresso degli operai generici nell’industria manifatturiera. Di conseguenza, un’efficace valorizzazione dell’apprendistato passa attraverso la sua nobilitazione culturale, volta in primo luogo a riaffermare la dignità del lavoro manuale, ma grazie alla quale si potrebbe poi diffondere lo stesso apprendistato ad altre professioni e settori.

L’avvocato Domenico Polizzi, Vice Presidente dell’Ufficio Legislazione e Contenzioso del Lavoro in Italia di ENI, ha fornito invece un quadro interpretativo del nuovo apprendistato secondo la specifica declinazione data dall’impresa di cui fa parte, la cui rilevanza lo ha reso interprete, in un certo senso, delle istanze che possono provenire anche da altre grandi imprese. La sua relazione è iniziata con un inquadramento del fenomeno da un punto di vista quantitativo: dai dati relativi all’ultimo quinquennio è emerso che il ricorso all’apprendistato da parte di ENI è cresciuto così tanto da diventare la forma tipica di ingresso in azienda, che in passato avveniva invece tramite il contratto a tempo indeterminato. Per Polizzi, tale successo non smentisce le criticità riguardanti l’apprendistato sollevate precedentemente dal dott. Bottelli – sia quella costituita dal possibile contenzioso che quella derivante dalla sua non eccelsa reputazione – sottolineando tuttavia che occorre anche guardare alle ragioni e alle modalità che hanno permesso a una grande impresa come ENI di superarle.

Polizzi ha infatti confermato che il rischio di contenzioso ha inizialmente indotto alla cautela nell’utilizzo dell’istituto, dovuta in particolare al fatto che i primi due interventi normativi che si proponevano di valorizzare l’apprendistato, la legge 196/1997 e il d.lgs. 276/2003, non facevano piena chiarezza sulla titolarità delle competenze fra i vari livelli chiamati in causa, ovvero fonti nazionali, regionali e contrattuali. Ciononostante, l’apprendistato ha superato questi primi ostacoli perché l’Ufficio Legale di ENI ha, da un lato, tenuto conto della parziale sistematizzazione della disciplina avvenuta in sede giurisprudenziale e, dall’altro, assistito alla crescita del contenzioso in relazione a tipologie contrattuali alternative all’apprendistato stesso. Polizzi ha sottolineato come ENI sia stata in grado di smentire la scarsa fama dell’apprendistato, applicandolo con successo a figure professionali elevate come quelle degli ingegneri. Ciò è stato possibile grazie alla capacità di ENI, tra l’altro ben radicata nella sua storia, di saper condurre e portare a termine rilevanti progetti di formazione di alta qualità.

I risultati conseguiti da ENI testimoniano che l’apprendistato potrebbe essere uno strumento particolarmente adatto a soddisfare le esigenze delle grandi imprese, che sono in grado di sfruttare i vantaggi ad esso associati, come ad esempio retribuzioni inferiori e incentivi fiscali, e al tempo stesso dispongono delle risorse organizzative per gestire agevolmente i corrispondenti obblighi formativi, nonché le sue eventuali ripercussioni di ordine legale.

Il punto di vista del sindacato

Il punto di vista del sindacato è riportato tramite due esponenti ai vertici di organizzazioni dei lavoratori dalle caratteristiche completamente diverse. Il primo, Sergio Spiller, rappresenta infatti una sigla confederale del settore tessile, la Femca-Cisl, mentre il secondo, Mauro Morelli, è il portavoce di un sindacato autonomo che opera nel settore bancario, la FABI.

La valutazione del nuovo apprendistato effettuata dal dott. Spiller parte da una premessa riguardante il settore tessile e dell’abbigliamento. E’ questo un passaggio necessario dato che storicamente l’apprendistato vi ha ricoperto un ruolo rilevante e, tuttora, lo si ritiene un contesto dove può esprimere più compiutamente le sue potenzialità. Il settore tessile e abbigliamento costituisce un nitido caso di industria organizzata a "filiera", le cui attività sono fortemente segmentate pur rimanendo altrettanto coordinate. Ne fanno parte l’approvvigionamento delle materie prime, a cui segue la fabbricazione del tessuto, per poi arrivare al suo confezionamento e, una volta trasformato in capo d’abbigliamento, alla sua distribuzione. Il ciclo produttivo risultante è dunque particolarmente fluido, e ciò che permette di stare sul mercato, soprattutto in Italia, non è tanto la competizione sui costi, quanto piuttosto la capacità di innovare. Secondo Spiller, è proprio l’innovazione ciò di cui al momento hanno maggiormente bisogno le imprese e, per ottenerla, servono figure professionali da formare sapientemente. In quest’ottica, l’apprendistato riveste un ruolo notevolemnte rilevante, in quanto è chiamato a invertire l’erosione di quelle competenze artigiane che stavano alla base della forza di tale settore emblema del Made in Italy.

Per realizzare un simile obiettivo Spiller ha indicato gli aspetti su cui l’apprendistato deve puntare. In primo luogo occorre non solo registrare la formazione che si realizza in concomitanza con l’apprendistato, bensì questa va certificata da organismi competenti, che se ne assumono la piena responsabilità e che sono suscettibili di controlli e sanzioni in caso di inadempienze. Lo stesso Stiller ha proposto che si assegni agli Enti Bilaterali l’espletamento di tale funzione, i quali però dovrebbero operare in sintonia con le istituzioni scolastiche. Senza tale coordinamento, è stato rilevato a titolo esemplificativo, appare ben difficile che la formazione effettuata in azienda riesca laddove ha fallito quella scolastica. Per riuscirvi servono allora piani formativi ben strutturati, che valorizzino i giovani apprendisti con adeguati investimenti di formazione specifica.

Nella pratica, secondo Spiller, la formazione può diventare più esigibile approntando alcuni accorgimenti. Il primo è quello di rendere la retribuzione degli apprendisti inversamente proporzionale alle ore da questi dedicate alla formazione, e non più sistematicamente associata al loro sotto-inquadramento. Ciò impedirebbe alle imprese di utilizzare in maniera opportunista gli stessi apprendisti, i quali prenderebbero una retribuzione pari a quella dei loro colleghi qualora non venisse fornita loro adeguata formazione.

Prendendo in considerazione il ruolo dell’apprendistato all’interno del settore bancario, il dott. Morelli ha messo in rilievo il tipo di funzione ivi svolta, che si pone in antitesi a quella appena rinvenuta nel tessile. Qui infatti la formazione è del tutto secondaria, sia dal lato dei lavoratori che da quello delle imprese. Per i datori di lavoro, secondo Morelli, l’apprendistato costituirebbe addirittura una condizione lavorativa frustrante per il proprio personale, che tradizionalmente fa parte di un segmento di popolazione con un’istruzione elevata e un discreto background socio-culturale. A compensare tale disinteresse vi sono pressoché solo i possibili incentivi fiscali legati al ricorso a tale istituto contrattuale, ovvero sgravi contributivi pagati dalla fiscalità generale.

Di converso, per i lavoratori, l’apprendistato non è una soluzione finalizzata a imparare un mestiere. Si tratta, piuttosto, di un oggetto di negoziazione introdotto dai sindacati per favorire il ricambio generazionale del personale bancario. Per comprenderne la portata è sufficiente ricordare che il settore in questione, a partire dagli anni ’90, ha subito un forte ridimensionamento, in buona parte dovuto a persistenti fenomeni di delocalizzazione. I dati forniti da Morelli stimano un calo degli occupati negli ultimi 15 anni di circa 40.000 unità, che sono stati rimpiazzati da 25.000 unità. Se l’uscita è stata incentivata dalle imprese, senza dunque aver bisogno di effettuare licenziamenti collettivi, l’ingresso di nuovi assunti ha raggiunto quei numeri anche grazie all’apprendistato, che ha messo a disposizione delle imprese un costo del lavoro inferiore e vantaggi contributivi legati alla defiscalizzazione.

Come si evince da queste due testimonianze l’apprendistato è suscettibile di antitetiche interpretazioni e conseguenti opposte applicazioni, sostanzialmente legate alle caratteristiche del settore in cui questo si trova ad essere implementato. Nel caso dell’industria tessile, la formazione ne è parte fondante; al contrario, nel caso di quella bancaria, è la convenienza economica la principale ragione sottostante il suo utilizzo.

L’analisi dei consulenti del lavoro

Potito Di Nunzio, in rappresentanza dell’Associazione Nazionale Consulenti del Lavoro, si è soffermato inizialmente sulla ridotta portata del fenomeno apprendistato. In termini numerici, all’interno della provincia di Milano nell’anno 2010, l’apprendistato equivaleva a solo il 3,35% delle assunzioni, mentre il contratto a progetto, quello a tempo determinato e quello a tempo indeterminato corrispondevano, rispettivamente, al 21%, 33% e 30% delle assunzioni. Allargando lo sguardo all’intera penisola, altri dati ribadiscono le difficoltà vissute dall’apprendistato, tanto di ordine burocratico quanto di implementazione: solo il 25% dei quasi 600.000 apprendisti diventerà un lavoratore a tempo indeterminato; non più del 26% degli apprendisti riceve effettivamente la formazione prevista e di questi solo il 70% la completa. Infine, le risorse pubbliche destinate all’apprendistato non finiscono nella formazione poiché per il 95% servono a coprire gli sgravi contributivi associati all’assunzione degli apprendisti.

Di Nunzio ha poi aggiunto che il ricorso all’apprendistato è concentrato prevalentemente nelle grandi imprese, dove la formazione verrebbe comunque realizzata, mentre è poco presente in quelle piccole laddove il ridotto numero di lavoratori non solo non consentirebbe grandi risparmi qualora questi fossero inquadrati come apprendisti e dove, per di più, redigere e realizzare i piani formativi potrebbe comportare anche un impegno organizzativo piuttosto rilevante. Siccome la differenza fra grandi e piccole imprese tocca anche la presenza delle organizzazioni sindacali e dell’associazionismo imprenditoriale, lo stesso Di Nunzio si è domandato se dietro la spinta all’utilizzo generalizzato dell’apprendistato vi sia il tentativo delle parti sociali di estendersi e raggiungere il mondo delle piccole imprese.

Al di là di questa possibile interpretazione, una criticità dell’apprendistato largamente nota fra i consulenti del lavoro riguarda quella che, fino alla sua recente riforma, è stata la crescente strutturazione e sofisticazione dell’istituto. Il loro auspicio è dunque quello che, in sede applicativa, il nuovo apprendistato possa invece restare il più semplice possibile, con ampi margini di discrezione delle parti che andranno a costituire tali rapporti. Tuttavia non mancano di ravvisarvi quelli che loro considerano i primi e scoraggianti elementi di rigidità: i più evidenti contemplano l’impossibilità di ridurne la durata – dal momento che quattro anni di formazione in certi casi sono palesemente troppi – oppure l’impossibilità di esercitare, in sua vigenza, la facoltà di risoluzione di tale contratto, sia da parte del datore che del lavoratore. Con la massima franchezza, Di Nunzio ha infine affermato che la valorizzazione dell’apprendistato, qualora non comportasse la penalizzazione, se non l’abolizione, di altre tipologie contrattuali quali le collaborazioni a progetto, non avrebbe molte possibilità di realizzare il proprio obiettivo.

L’applicazione al settore pubblico

La pubblica amministrazione costituisce un enorme contesto potenziale in cui la forma contrattuale dell’apprendistato potrebbe svilupparsi. Vincenzo Caridi, Direttore Centrale Risorse Umane Inpdap/Inps, è stato invitato a partecipare al convegno in primo luogo per chiarire la plausibilità di questa ipotesi. A tal proposito le sue parole non potevano essere più esplicite: "in questo momento l’apprendistato non ha prospettive nel pubblico impiego". Tale conclusione è mossa principalmente da una considerazione, che difficilmente verrà intaccata dal nuovo apprendistato: da più di dieci anni tutte le leggi finanziarie impongono una sorta di blocco totale del turn-over del personale, per cui la questione dell’ingresso dei lavoratori giovani non può nemmeno porsi. Inoltre, il recente allungamento dell’età pensionabile non lascia certo presagire che questo scenario sia destinato a mutare nel breve periodo. Una volta chiariti quelli che sono i termini attuali della questione, resta pur sempre possibile immaginare altri eventuali sviluppi dell’apprendistato nella pubblica amministrazione. Lo stesso dott. Caridi ne delinea uno che, almeno in linea teorica, meriterebbe un ulteriore approfondimento: l’apprendistato rivolto ai lavoratori in mobilità, al fine di agevolarne il ricollocamento.

5. I temi controversi riguardanti l’apprendistato: qualche spunto di riflessione

Il convegno ha fornito gli elementi utili per chiarire la rilevanza dell’apprendistato come strumento per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, mettendo inoltre a disposizione del pubblico una serie di testimonianze sulla sua applicazione in settori non tradizionali. Come abbiamo visto, nel valutare il possibile impatto che produrranno le innovazioni introdotte dal nuovo Testo Unico, non sono mancate le critiche e gli stimoli rivolti al miglioramento dello strumento stesso. In termini essenziali, a nostro avviso, queste sono ricollegabili a tre ampie tematiche intorno alle quali il dibattito, tanto accademico quanto politico, non ha ancora fatto piena chiarezza.

Innanzitutto, considerati i forti legami intercorrenti fra apprendistato e contrattazione collettiva, la valorizzazione del primo potrebbe comportare un rafforzamento della seconda. Al tempo stesso, appare logico aspettarsi anche che certi limiti della contrattazione possano trasmettersi all’apprendistato. Il punto più critico riguarda allora la sua diffusione all’interno delle piccole imprese, le cui ridotte dimensioni non renderebbero né agevole né praticabile la negoziazione di quei piani formativi che sono l’elemento fondante dell’apprendistato. A rimedio di ciò, si ipotizza che un sostegno debba provenire dalle istituzioni pubbliche, il cui coinvolgimento nella formazione resta un obiettivo tanto auspicato quanto indefinito, oppure dalle agenzie di somministrazione, eventualmente incentivando una loro responsabilizzazione in materia tramite lo staff leasing.

Una seconda criticità riguarda il rapporto fra l’apprendistato e le altre tipologie contrattuali funzionali alla flessibilità in entrata nel mercato del lavoro. Sulla base delle informazioni raccolte durante il convegno, è plausibile sostenere che, finché le imprese avranno a disposizione alternative molto più convenienti, difficilmente prenderanno in considerazione i possibili vantaggi derivanti dal ricorso all’apprendistato. Inoltre, anche qualora si aumentassero gli incentivi fiscali per utilizzare quest’ultimo, va messo in conto un pari incremento del rischio di un’applicazione strumentale dello stesso, tramite cui si punterebbe a capitalizzare i vantaggi fiscali lasciando nell’ombra la componente formativa. Il punto di partenza per evitare simili insuccessi ed effetti indesiderati passa attraverso il riconoscimento di tutte le possibili funzioni svolte dall’apprendistato. Alcune di loro rispecchiano il fine per cui lo stesso è stato concepito, innestando circoli virtuosi fra le parti coinvolte, altre invece si limitano esclusivamente alla sua promozione numerica. Una riforma ampia del mercato del lavoro che incentivi il ricorso all’apprendistato, specialmente quando a questo si associano ipotesi di contratto ‘unico’ o ‘prevalente’ per l’occupazione giovanile, è tenuta a premiare solo le prime.

Infine, l’apprendistato solleva altre questioni delicate, relative alle sue implicazioni e ai legami con i modelli sociali e occupazionali presenti nel contesto nazionale. Pur trattandosi di tematiche ampie e complesse, che in questa sede possono essere solo accennate, è il caso di tenere presente una semplice constatazione empirica. L’apprendistato è presente capillarmente in paesi quali Germania e Austria, dalla forte identità, in termini di welfare state, corporativa e assicurativa, dove inoltre è intimamente legato al sistema di istruzione, che predilige la formazione tecnica, e al tipo di produzione alla base dell’economia nazionale, soprattutto nel caso tedesco, ovvero l’industria manifatturiera specializzata. Viceversa, in altri paesi ritenuti all’avanguardia per struttura del mercato del lavoro e inclusione sociale quali sono i paesi scandinavi, l’apprendistato riveste un ruolo del tutto marginale. Tale scarsa considerazione potrebbe essere dovuta all’approccio universalistico del welfare state, sostenuto dalla forte presenza delle istituzioni pubbliche nel campo dell’istruzione e formazione, oltre che da politiche del lavoro sempre più orientate al principio della flexicurity. Nel caso dell’Italia, dove il welfare state è un cantiere perennemente aperto, non è chiara quale direzione prenderanno i lavori. In attesa di ulteriori evoluzioni, al momento non resta altro che immaginare un "apprendistato all’italiana".

Riferimenti

L’intero convegno è disponibile in podcast