“Chiariamo subito che in magistratura, come nel Paese, sono le donne a occuparsi dei figli, perché tuttora quello della cura è un ambito da cui gli uomini si tirano irresponsabilmente fuori, perché la cura non porta denaro e non accresce il potere, anzi, fa sfigurare e ridimensiona. Negli anni 2019-2021 sono stati solo 19 i magistrati a chiedere l’astensione facoltativa di paternità, per una media di soli otto giorni; mentre sono state 2059 le magistrate ad averlo fatto. Ecco la palla di ferro legata ai nostri piedi. Nessuna condivisione, se non in rarissimi casi, del ruolo di gestione di figli e anziani. Quando ho scritto il mio curriculum per concorrere per l’ufficio semidirettivo ho trovato un “buco” di dieci anni per essermi occupata dei miei figli. I miei colleghi maschi, in quei dieci anni, avevano scritto, tenuto relazioni, creato rapporti e riempito il loro ricco curriculum. Hanno vinto su di me, perché per dirigere un ufficio giudiziario non conta nulla aver cresciuto due splendidi bambini. Se il trend che vede le colleghe vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini continuerà a crescere, nel giro di pochi anni la magistratura sarà quasi completamente femminilizzata.”
Così scriveva Paola Di Nicola Travaglini nel libro “La giudice. Una donna in magistratura” pubblicato da HarperCollins nel 2023: l’autrice è una giudice penale, nominata Wo/Men Inspiring Europe 2014 dall’European Institute for Gender Equality; sua è la sentenza rivoluzionaria nel processo sulla prostituzione di due minorenni nel centro di Roma, nella quale ha sostituito il risarcimento in denaro con libri sul pensiero delle donne.
Nei ruoli di genere non c’è niente di innato
Purtroppo il problema non riguarda solo la magistratura e, come l’esempio dimostra, investe anche ruoli apicali; non serve neanche diventare sindaca o amministratrice delegata di una multinazionale per pensare non dico di rinunciare, ma almeno di condividere i carichi di cura: da sempre questi appartengono alla donna, nel senso che le sono stati tradizionalmente assegnati all’interno delle pareti domestiche. Al punto che ancora oggi nel 2024 in Italia (ma non solo) — con una donna alla guida del Paese e un’altra che comanda la Stazione spaziale internazionale — può capitare di sentirsi dire da ragazzi (ma anche ragazze) di 17-18 anni che è “naturale” che sia la donna a restare a casa ad occuparsi dei figli.
Non solo le nostre nonne, che ufficialmente non lavoravano fuori casa, ma anche noi siamo state educate a pensare di essere naturalmente più portate a svolgere quelle funzioni o, per dirla con Michela Murgia, a essere quelle persone che sanno dove sono le mutande di tutti. Invece di biologico o innato in questi comportamenti non c’è proprio nulla: credo che nessuna donna possa dire di essere venuta al mondo con un’insopprimibile passione per i tavoli ordinati, come nessun uomo è geneticamente portato al disordine.
Per ridurre gli stereotipi di genere servono dati e monitoraggio delle politiche
Semplicemente nasciamo tutti in una società dove se sei una femmina appena possibile ti mettono in mano una bambola e ti regalano un aspirapolvere, mentre se sei un maschio non puoi permetterti di desiderare una tavola da stiro; in cui i negozi di giocattoli spesso hanno le corsie per gli articoli da maschio e quelle per gli articoli da femmina; in cui i libri di testo della scuola primaria ancora riportano esercizi dove i verbi da abbinare alla mamma sono stira e cucina, quelli da abbinare al padre sono lavora e legge; in cui se una donna si prende cura dei figli fa il suo dovere, se lo fa un uomo è un eroe, quando non corre il rischio di essere definito mammo; in cui i giorni di congedo obbligatorio dopo la nascita di un figlio sono 150 per le donne e 10 per gli uomini; in cui a pubblicizzare i prodotti per la casa sono quasi sempre solo le donne, mentre a promuovere le auto gli uomini; in cui è stato stabilito che agli uomini spetta il lavoro produttivo, quello che dà diritto a un salario, a uno status sociale e a una pensione, mentre alle donne il lavoro riproduttivo, invisibile e gratuito, che oggi almeno all’inizio si somma a quello produttivo, fino a quando molte sono costrette a lasciarlo, perché a tenere tutto insieme non ce la fanno.
Un sistema malato
E certo non è una questione di capacità individuali, come si vorrebbe far credere, ma di un sistema che scarica tutte le responsabilità della cura sulle donne, le quali si fanno carico del 74% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura: è stato calcolato che le donne svolgono 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno, mentre gli uomini 1 ora e 48 minuti.
Non c’è da stupirsi se 1 donna su 5 presenta le dimissioni dopo la nascita del primo figlio, adducendo motivazioni legate alla mancanza di servizi e di reti di supporto: il peso complessivo delle difficoltà di cura riguarda il 64% di tutte le motivazioni di dimissioni delle lavoratrici madri.
Per gli uomini invece la causa prevalente è di tipo professionale: il 79% dei lavoratori dichiara di abbandonare il lavoro per passare ad un’altra azienda e solo il 7% lo riconduce all’esigenza di cura dei figli (Eurostat e Ispettorato Nazionale del Lavoro, 2024).
Stereotipi duri a morire
Quello che invece stupisce è ritrovare queste tendenze nei dati che riguardano la popolazione tra i 14 e i 18 anni: si dedicano al lavoro domestico il 57,1% delle ragazze che vivono con genitori in coppia (per 40 minuti al giorno) e il 65,3% di quelle che vivono con un genitore solo (per 56 minuti) a fronte del 35,4% dei ragazzi che vivono con genitori in coppia (per 18 minuti) e del 53,6% di quelli che vivono con un genitore solo (per 26 minuti), a dimostrazione che i ruoli di genere continuano ad essere trasmessi di generazione in generazione e vi sono, specialmente al Sud e negli strati meno istruiti della popolazione, forti resistenze a superarli.
E non solo tra gli uomini: non mancano, infatti, le donne che pensano che gli uomini non siano adatti, o siano meno adatti di loro, a occuparsi dei figli e della casa. Del resto sono cresciute vedendo le nostre madri farsi carico dell’intera gestione della casa, mentre i padri si limitavano a seguire le loro istruzioni: loro erano gli eroi, protagonisti di avventure fuori casa, mentre le donne nella cultura e nei media continuano a venir rappresentate come mogli e soprattutto madri: la funzione materna è il fulcro del sistema patriarcale, se viene meno viene giù l’intero sistema.
Il carico mentale
Il prezzo è l’indipendenza, la carriera, la rinuncia a coltivare una passione, ma soprattutto il benessere emotivo: perché anche quando si riesce con mille acrobazie quotidiane a organizzarsi e a conciliare vita e lavoro, rimane sempre sulle spalle delle donne tutto il peso del carico mentale, un lavoro continuo, sfiancante, invisibile, che consiste nel pensare continuamente a cosa c’è da fare: la spesa da fare, la lavatrice da caricare, l’elettricista da chiamare, la cena da preparare…
Tra carriera e famiglia, il lungo viaggio delle donne verso l’equità
Spesso, anche quando questi compiti li svolgono gli uomini, hanno bisogno di essere invitati a farlo e di avere istruzioni precise: la lista della spesa, il numero dell’elettricista, il programma di lavaggio, il menù da cucinare.
“Il carico mentale” sostiene Daniela Brogi “riguarda il modo in cui la cultura circostante e il senso comune portano le donne a considerare ancora le loro arti, mestieri e professioni, come situazioni che le sottraggono e distolgono dal loro presunto compito principale di cura domestica, generando un sentimento continuo di scissione e relative situazioni di stanchezza che indeboliscono tutto il sistema.” E non si risolvono smettendo di fare figli: ci sono, e sono in aumento, i familiari anziani.
Non è un destino segnato
Che sia una paternità consapevole e una reale condivisione dei compiti domestici, che gli uomini non in coppia svolgono senza particolari traumi, la chiave del cambiamento? Eliminare o almeno cominciare a ridurre i dislivelli di potere tra i sessi gioverebbe alle donne, indotte a credere che l’unico modo per corrispondere al ruolo ricevuto in sorte sia spezzarsi per gli altri, e gioverebbe alla società, costretta a rinunciare a oltre la metà dei suoi talenti.