Un programma per la crescita, vista non come fine a se stessa, ma come strumento di progresso sociale e di allargamento delle opportunità. Soprattutto per i giovani, le donne, gli «esclusi»: coloro ai quali l’Italia di oggi nega prospettive di avanzamento sociale, diritti, a volte persino la cittadinanza. Per molti aspetti, il discorso di Enrico Letta alla Camera ha toccato corde nuove rispetto al passato, mettendo inclusione e lavoro al centro dell’agenda. Troppa ambizione, poco realismo? Il rischio c’è.
Ma vi sono diverse buone idee, che meritano senz’altro un’apertura di credito. Per creare lavoro il governo agirà soprattutto sul lato dell’offerta: riduzione del cuneo fiscale, revisione della riforma Fornero per recuperare flessibilità in entrata (in particolare per quanto riguarda i contratti a termine), ulteriori incentivi all’apprendistato, semplificazione burocratica, incisivo ripensamento di tutti quei regimi di autorizzazione preventiva che ingabbiano le imprese e scoraggiano gli investimenti esteri.
Il faro che guiderà le decisioni del governo saranno, come si è detto, le opportunità per giovani e donne. Su questo fronte Letta può vantare una elevata credibilità: è stato infatti uno dei primi e dei pochi politici ad aver promosso e difeso con coerenza (anche nel centrosinistra) il principio «blairiano» women and children first (prima le donne e i bambini). Oltre a incentivi mirati di natura fiscale, per attuare questo principio il governo effettuerà un piano di investimenti nella scuola, nei servizi sociali, nelle politiche di conciliazione. Non solo lavoro, in altre parole, ma lavoro di qualità, accompagnato da (pari) opportunità di carriera e di mobilità verso l’alto, anche per gli immigrati.
Vista la considerevole «quota rosa» con cui nasce il governo, c’è da sperare che questa volta si faccia sul serio. Sul welfare Letta ha parlato di universalismo attivo: allargamento dei diritti agli esclusi, a condizione però che i beneficiari s’impegnino a recuperare autonomia economica (elemento essenziale soprattutto nel settore degli ammortizzatori sociali). In questo quadro è stata fatta una promessa importante: il governo considererà l’introduzione del reddito minimo d’inserimento, dando priorità alle giovani famiglie povere con figli minori. Interessante è anche l’impegno a introdurre politiche di invecchiamento attivo, ossia di forme graduali (e part time) di pensionamento, incentivando forme di staffetta e tutorato intergenerazionale.
Chi conosce Enrico Letta non può dubitare né della serietà tecnica con cui si sforzerà di realizzare il programma, né del suo impegno ideale e politico. Vi sono però tre rischi che non vanno sottovalutati. Il primo è quello dei tempi. La recessione non è per nulla finita, il disagio sociale è sempre più acuto, la fiducia di imprese e consumatori è ai minimi. Per uscire dal gorgo ci vuole uno scatto. Durante la campagna per le elezioni del 2006, poi vinte dall’Unione, Enrico Letta si era schierato a favore di un Big Bang, di un pacchetto di misure incisive da varare subito, anche per cambiare il clima psicologico.
Arrivarono, è vero, le lenzuolate di Bersani sul fronte delle liberalizzazioni. Ma lo slancio del nuovo governo (Letta era sottosegretario alla presidenza del Consiglio) si affievolì subito: un’esperienza da non ripetere. Il secondo rischio è quello delle risorse. Letta ha già di fatto assunto onerosi impegni di spesa, come il rifinanziamento della Cig in deroga e la «soluzione» del problema esodati. Al tempo stesso ha promesso di abolire due significative fonti di gettito: la rata Imu di giugno e l’aumento dell’Iva. Come far quadrare i conti? E, soprattutto, come reperire i fondi necessari (non sono pochi: diversi miliardi di euro) per finanziare il nuovo welfare per giovani e donne?
Infine, l’Unione Europea. È inutile negarlo: senza una revisione dei parametri di Bruxelles, uscire dalla crisi è quasi impossibile. Il programma illustrato ieri è pieno di «europeismi» nel lessico, nel tono, negli obiettivi. Ma Letta ha usato il linguaggio della strategia «Europa 2020», mentre oggi l’Ue decide con le regole del Fiscal compact, imperniato sul dogma dell’austerità. Il nuovo premier ha annunciato che si recherà prestissimo a Bruxelles, Berlino e Parigi. Ottima idea: è in quelle tre capitali che oggi si giocano le partite più importanti, anche per il nostro Paese.
Il presente articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera il 20 maggio scorso