L’esercizio regolare dei propri diritti fondamentali, tra cui quelli economici e sociali, è cruciale per consentire alle donne di uscire da situazioni di violenza. In questo senso sono imprescindibili un reddito sufficiente, un alloggio sicuro e sostenibile, un lavoro dignitoso e l’accesso a servizi pubblici ben funzionanti. Garantirli dovrebbe pertanto essere l’obiettivo principale delle politiche pubbliche italiane.
Proprio su questo tema ActionAid Italia, organizzazione che promuove diritti, partecipazione e inclusione, ha parlato del percorso di fuoriuscita dalla violenza per le donne vittime in Italia nel Report “Diritti in bilico. Reddito, casa e lavoro per l’indipendenza delle donne in fuoriuscita dalla violenza”. Abbiamo intervistato Katia Scannavini, Vice Segretaria Generale di ActionAid Italia, per inquadrare la situazione che emerge dal rapporto.
Sul fronte del contrasto alla violenza sulle donne nell’ultimo anno ci sono state tante novità a livello giuridico: come dovrebbe cambiare la situazione italiana grazie ad esse?
L’introduzione di un Piano antiviolenza nazionale con cadenza triennale predisposta dalla Legge di Bilancio 2022 permette di rafforzare il sistema italiano, garantendo un finanziamento di almeno 5 milioni di euro annui. Si tratta di una somma che, seppure esigua, garantisce un finanziamento annuale indipendente dalla volontà politica del momento.
Tale miglioria, però, è stata accompagnata dalla soppressione dell’obbligo, da parte della Ministra per le pari opportunità, di trasmettere annualmente alle Camere una relazione sull’attuazione del piano. Questa decisione molto probabilmente inciderà negativamente sul livello di trasparenza e accountability dell’amministrazione pubblica, rischiando di rendere ancora più opachi i processi politici e amministrativi riguardanti l’implementazione delle politiche antiviolenza in Italia.
Quali sono oggi i principali limiti dell’intervento statale per supportare le donne vittime di violenza?
Il tema della violenza maschile contro le donne non è mai stato e non è una priorità dell’agenda politica del nostro Paese. Sebbene sia doveroso riconoscere che, nel corso degli ultimi anni, le istituzioni hanno cominciato ad occuparsene sempre più, approvando norme, elaborando documenti strategici e programmatici, stanziando risorse per interventi di prevenzione, protezione e contrasto.
È indubbio che molto sia cambiato, che ora l’Italia sia dotata di un sistema antiviolenza nazionale regolato da una legge specifica, la 93/2013, e di diverse reti regionali e territoriali disciplinate da piani regionali, protocolli locali o da atti amministrativi.
È altrettanto evidente che tutto ciò però è ancora insufficiente. I numeri relativi ai femminicidi così come quelli riguardanti le prese in carico delle strutture antiviolenza non mostrano infatti miglioramenti. I piani, gli interventi e i finanziamenti messi in campo per prevenire e contrastare la violenza sono ancora del tutto inadeguati, frammentari e decisamente insufficienti. Le criticità che ostacolano il corretto funzionamento del sistema antiviolenza sono infatti numerose.
Violenza contro le donne: una rete di attori per contrastare il fenomeno
Può farci qualche esempio?
C’è, ad esempio, il grave ritardo con cui i piani antiviolenza vengono adottati e attuati rischia di inficiarne gli obiettivi. O, ancora, la decisione di programmare le risorse economiche senza effettuare una previa analisi territoriale dei bisogni e dei costi necessari per prevenire la violenza e garantire adeguata protezione alle donne che la subiscono. Senza una programmazione basata sui numeri si rischia di rendere inefficaci gli interventi e aggravare gli ampi divari territoriali già esistenti.
Cosa è necessario fare, quindi, per modificare l’attuale stato dell’arte?
L’unica strada possibile è superare la frammentarietà programmatica delle azioni antiviolenza messe in campo fino ad oggi e intervenire strutturalmente e trasversalmente sulle politiche pubbliche nel loro insieme, eliminandone la neutralità e prevenendo le discriminazioni di genere che spesso producono. Ciò significa includere le politiche antiviolenza nelle pianificazioni strategiche e operative più ampie riguardanti gli aspetti della vita politica, economica, sociale e culturale del Paese, a partire dal PNRR, ma non solo.
È indispensabile prediligere un approccio integrato che assicuri che tutte le norme, politiche, riforme e le decisioni di spesa che regolano la vita del Paese siano costruite in modo tale da contribuire fattivamente a prevenire, contrastare la violenza e proteggere le donne che la subiscono. Analisi e proposte in questa direzione sono contenute proprio nell’ultimo report che ActionAid ha lanciato in occasione dello scorso 25 novembre, intitolato “Diritti in bilico. Reddito, casa e lavoro per l’indipendenza delle donne in fuoriuscita dalla violenza”.
Come le realtà del Terzo Settore e la società civile sopperiscono alle mancanze del Pubblico?
Il terzo settore svolge un ruolo fondamentale, senza il quale il sistema antiviolenza in Italia non potrebbe funzionare. In particolare, i centri antiviolenza sono il fulcro centrale di tale sistema offrendo misure di protezione e di accompagnamento alla fuoriuscita dalla violenza e organizzando attività di prevenzione (ne abbiamo parlato qui, ndr). Tuttavia, con i finanziamenti statali riescono a coprire a malapena i servizi minimi che devono garantire alle donne che chiedono loro supporto.
Grazie, però, a raccolte di fondi indipendenti, al ricorso a fondi europei e all’utilizzo di volontariato i centri antiviolenza e le case rifugio riescono anche a realizzare altre tipologie di interventi, tra cui, azioni di formazione o di accompagnamento al lavoro per le donne assistite.
Vi sono poi alte realtà del Terzo Settore, come ActionAid, che svolgono altre attività di prevenzione fondamentali come, ad esempio, la formazione di studenti, docenti e personale scolastico e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica così come ricerche finalizzare al miglioramento delle politiche antiviolenza.
Su questo tema, come ActionAid avete rilevato dei cambiamenti nella percezione dell’opinione pubblica riguardo alla violenza maschile sulle donne?
Nel corso degli ultimi anni il tema della violenza maschile contro le donne è progressivamente entrato nel discorso pubblico, il termine “femminicidio” è diventato di uso comune per descrivere le donne che vengono uccise per mano di un compagno o ex-compagno: una ogni tre giorni.
I mezzi di informazione riportano sistematicamente queste morti e, ogni tanto, parlano del tema in maniera più approfondita. Attorno al 25 novembre e all’8 marzo si accavallano eventi e iniziative dedicate al tema della violenza maschile contro le donne in vari ambiti e la manifestazione nazionale organizzata da Non Una di Meno a Roma è ogni anno sempre più partecipata, soprattutto da ragazze e ragazzi. A scuola si tengono corsi di formazione per studenti e docenti, in varie aziende si realizzano incontri di sensibilizzazione, diversi enti locali realizzano attività spesso in collaborazione con centri antiviolenza e associazioni del territorio.
Si tratta però di iniziative sporadiche, non strutturali perché ancora scarso è l’impegno delle istituzioni ad attivare efficaci politiche di prevenzione. I dati sono chiari al riguardo: dall’entrata in vigore del DL 93/2013, il Dipartimento per le pari opportunità ha destinato solo il 14% delle risorse per la realizzazione di interventi di prevenzione.
Quindi sicuramente, rispetto a dieci anni fa, l’opinione pubblica è più informata sul tema della violenza maschile contro le donne, ma ciò non è chiaramente sufficiente. L’unica strada possibile per produrre un cambiamento effettivo è agire in modo sistematico prevedendo interventi strutturali che accompagnino le persone dal nido all’età adulta basati sulla cultura del rispetto, delle differenze e della non discriminazione di genere, e non solo.