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Parlare di Beni Comuni è oggi di gran moda. Negli ultimi anni, dopo il conferimento del premio Nobel per l’economia a Elinor Ostrom (2009), le riviste scientifiche hanno infatti concesso sempre più spazio al dibattito sui cosiddetti commons. Purtroppo però la maggior parte degli articoli scientifici riguardanti questo tema sono affetti da un limite che spesso caratterizza le discussioni salite troppo velocemente agli onori delle cronache: non è chiaro, sia per quelli che scrivono che per quelli che leggono, quale sia precisamente l’oggetto stesso della disputa.


Beni comuni: di cosa stiamo parlando?

Quando si parla di beni comuni ci si riferisce a quei beni la cui proprietà viene condivisa da una pluralità di soggetti di varia natura e dimensione: si va da piccoli gruppi, come i componenti di una famiglia che condividono l’utilizzo di certi beni come il frigorifero, agli abitanti di una città che condividono beni e luoghi come i parchi, fino ad arrivare all’intera comunità umana che ha in comune la proprietà di risorse naturali, come aria ed acqua, essenziali alla vita di tutti.  La condivisione della proprietà produce alcune conseguenze particolari dal punto di vista della gestione dei beni comuni: essi sono caratterizzati da un’alta rivalità al consumo e da una difficile escludibilità. Prima di proseguire è pertanto necessario aprire una piccola parentesi per spiegare come queste caratteristiche determinino le modalità di gestione di questi particolari beni.

Secondo l’economia pubblica un bene si dice "rivale" se può essere utilizzato solamente da un soggetto. Una maglietta ad esempio è rivale perché se indossata da Tizio non può essere indossata anche da Caio; al contrario un tram non è rivale perché può essere utilizzato contemporaneamente da due o più soggetti. Più alto è il numero di persone che può utilizzare in contemporanea un bene più basso sarà il suo tasso di rivalità al consumo. Quando invece si parla di "escludibilità" si sta facendo riferimento alla facilità o difficoltà nell’escludere una persona dall’utilizzo del bene. Per riprendere l’esempio precendente, Tizio escluderà molto facilmente Caio dall’utilizzare la sua maglietta semplicemente indossandola: così facendo nessun altro oltre a lui potrà infatti utilizzarla. Impedire a una persona di salire sul tram previo il pagamento del servizio può invece dimostrarsi più complesso: sarà ad esempio necessario pagare un controllore che verifichi che ogni singola persona abbia acquistato il biglietto.

Gli economisti hanno classificato tutti i beni a seconda della presenza o dell’assenza di queste due caratteristiche, definendoli "beni privati" quando sono caratterizzati sia da rivalità al consumo che da escludibilità (maglietta, scarpe, orologio…), e "beni pubblici" quando sono caratterizzati da bassa rivalità e difficile escludibilità (esempio classico del bene pubblico è la difesa dei confini nazionali da parte dell’esercito: quando un esercito si mobilità per difendere un Paese esso difende contemporaneamente tutti i cittadini a prescindere dal loro numero, per cui non è rivale, e non è allo stesso tempo possibile impedire a qualsiasi persona che sia all’interno del Paese di essere difesa dall’esercito, tasso di escludibilità pari a zero). Oltre a definirli come sopra riportato, i diversi economisti hanno individuato i sistemi di gestione più efficienti per queste due tipologie di beni.

La questione si fa più complessa quando la condivisione dei diritti di proprietà genera dei beni ibridi che sono difficilmente escludibili (come i beni pubblici) ma fortemente rivali (soprattutto in una situazione caratterizzata da risorse scarse). E’ qui che entra in gioco l’dea di bene comune. Per comprendere cosa sia un bene comune si può far riferimento al classico esempio dei pascoli montani, i quali sono condivisi dai pastori che vi fanno pascolare il proprio gregge di pecore.Tutti i diversi utenti (i pastori) condividono la proprietà del bene (i pascoli sono di tutti) ma ognuno, siccome è interessato unicamente al proprio armento, tenderà ad usare del bene in modo egoistico solo per accrescere il proprio gregge a discapito di quello altrui. Questo atteggiamento genererà una competizione tra i pastori che arriveranno ad utilizzare i pascoli in modo sempre più intensivo, fino a quando l’erba non crescerà più. Questo fenomeno, descritto per la prima volta da Hardin nel 1968, è definito attraverso l’espressione "tragedia dei beni comuni". La cosa interessante è che dal 1968 fino al 1990, anno in cui Elinor Ostrom ha pubblicato il suo testo "Governing the Commons", nessun economista era riuscito a formulare un modello che riuscisse a ipotizzare una gestione efficiente dei beni comuni. Alla Ostrom va quindi il merito di aver formulato un’ipotesi di gestione che, sotto certe condizioni, funziona e permette di evitare la “tragedia” descritta da Hardin.


L’idea “comune” di beni comuni

Tornando al problema presentato all’inizio dell’articolo, ossia alla confusione legata al concetto di bene comune, è possibile notare che quando ci domandiamo cosa sia un bene comune la nostra mente ricorre alle più svariate immagini: si spazia dai referendum per l’acqua pubblica agli sfruttamenti dei giacimenti petroliferi, dalla pesca d’altura alla curva demografica senza però riuscire a cogliere il significato profondo dell’oggetto cui si sta facendo riferimento. Il primo passo necessario per diradare la foschia che circonda i beni comuni, consiste nell’identificazione della caratteristica principale che costituisce questa tassonomia: la condivisione dei diritti di proprietà.

L’idea della condivisione della proprietà di un bene non è una peculiarità facile da comprendere. A partire dall’illuminismo, infatti, gli istituti caratterizzanti il nostro contesto giuridico-economico hanno previsto, come sopra accennato, solamente due possibili proprietari per i diversi beni: o persone private o autorità pubbliche. Se ci si ferma un attimo a riflettere è però facile individuare anche tutta una serie di beni la cui proprietà non può essere semplicemente ricondotta né a soggetti privati né ad autorità pubbliche. Se ad esempio pensiamo ad un bel paesaggio, pur potendolo definire in tutta tranquillità come un bene (può essere osservato, studiato, fotografato, rovinato….) non riusciamo immediatamente ad individuarne i proprietari. Solitamente si è portati a pensare che la proprietà sia dello Stato ma allo stesso tempo se ci si domandasse “ma se lo Stato è proprietario di un paesaggio allora può venderlo?” la maggior parte delle persone non saprebbe cosa rispondere.  Alla domanda chi sia il proprietario di un paesaggio non è facile rispondere: per certi versi nessuno può infatti considerarsi tale – nessuno può utilizzarlo a suo piacimento –, mentre per altri chiunque può essere considerato il proprietario – tutte le persone possono goderne come ne godrebbe un proprietario. Per altri ancora è invece lo Stato il proprietario – se si vuole costruire una casa che influenzi quel paesaggio è infatti necessario chiedere il permesso all’autorità pubblica – anche se la stessa autorità pubblica non può disporne come meglio crede (nessun governo, come detto, può infatti vendere o comprare paesaggi). La proprietà di un bene del genere è quindi pubblica, cioè contemporaneamente di tutti ma di nessuno in particolare, e in questo senso l’autorità statale si dovrebbe pertanto limitare a tutelarne l’utilizzo nell’interesse della collettività.

Un esempio cinematografico che può far sorridere e che spiega bene l’ambiguità legata ai beni comuni è la famosa scena in cui Totò vende la fontana di Trevi al turista. Tutta la gag si regge sull’ambiguità del diritto di proprietà del bene in questione, la fontana appunto. Totò, esercitando il diritto di proprietà sulla fontana, fa credere al turista di esserne il legittimo proprietario: chiede ai turisti di pagare 100 lire per ogni foto scattata per dei fantomatici "diritti di riproduzione", impedisce ai ragazzini di pescare le monete essendo queste ormai sue “di diritto”, si fa addirittura chiamare Cavalier Trevi. Il turista americano osservando quanto potesse essere redditizia la proprietà della fontana abbocca alla truffa e consegna a Totò 500 mila lire di caparra. Purtroppo per lui, però, nel momento in cui tenterà di esercitare gli stessi diritti verrà condotto dai poliziotti al manicomio.
 

 

Gli istituti giuridico-economici che si sono sviluppati nel tempo si sono quindi strutturati a partire dalla dicotomia proprietà privata-proprietà statale, prevedendo in questo senso una serie di misure atte a tutelare questi due tipologie. Ad esempio, se ad un contadino viene espropriato un campo di sua proprietà per la costruzione di una strada, esso ha diritto ad un ristoro; similmente per quanto riguarda i beni pubblici, come la strada, il sistema giuridico disciplina il comportamento che l’autorità pubblica deve assumere per la loro costruzione e gestione. Allo stesso tempo l’ordinamento non prevede tuttavia misure esplicite di tutela della pubblicità della proprietà. Nel caso in cui la strada di cui sopra andasse a deturpare il paesaggio, il legislatore non ha previsto alcun tipo di risarcimento per l’intera collettività, nonostante questa sia da considerare la reale proprietaria del bene. Questi istituti hanno senz’altro determinato una forma mentis specifica in tutti noi, la cui conseguenza ultima è stata lo smarrimento del senso della proprietà comune con il contestuale venir meno della presa in carico dei beni di tutti. Poco alla volta le persone hanno cominciato ad interessarsi solamente dei propri beni privati dimenticandosi delle proprietà collettive. A questa prima conseguenza si aggiunge poi un secondo fenomeno: la pubblica autorità non è rimasta a guardare ed ha cominciato ad utilizzare dei beni comuni non come semplice amministratore ma come vero e proprio proprietario degli stessi. E così, in nome dell’efficienza, diversi beni comuni sono stati venduti, le loro forniture esternalizzate, la gestione affidata a privati a cui è stato concesso il diritto di lucrare.


Il welfare e i beni comuni

In quest’ottica come si colloca il problema “welfare”? Per capirlo è possibile porsi alcune semplici domande. I servizi di welfare che negli ultimi 60 anni sono stati erogati dall’autorità statale possono essere considerati come un bene comune? In caso di risposta affermativa, è possibile affermare che essi vengono gestiti in modo adeguato? Al contrario essi non corrono il rischio di essere snaturati in quanto amministrati o come beni privati o come beni pubblici?

Per capire se il sistema di welfare possa essere considerato come un bene comune bisogna capire se i diritti di proprietà su questo bene sono condivisi tra una pluralità di persone oppure no. La prima caratteristica da osservare per capire se la proprietà del bene è condivisa è la natura del bene stesso. Ad esempio l’acqua viene considerata un bene comune perché per sua natura non viene prodotta da nessuno e allo stesso tempo è a disposizione di tutti, quindi nessuno può considerarsi proprietario esclusivo ma tutti hanno responsabilità su di essa. Osservare l’origine del sistema di welfare che può caratterizzare un contesto come quello italiano però non basta: al contrario della risorsa idrica infatti il sistema di welfare non è un bene naturale – in natura non esiste welfare a prescindere dall’azione dell’uomo -; esso è l’esito di scelte politiche compiute da governi e istituzioni anche se i diversi governi non possono considerarsi i proprietari. L’essenza su cui uno stato sociale si fonda è la fiscalità generale: tutti i cittadini contribuiscono alla produzione del gettito necessario affinché politiche di welfare possano essere implementate dai governanti. Pertanto, in forza della condivisione e della cooperazione nella formazione del bene, è possibile considerare il welfare come un bene comune la cui proprietà viene condivisa da tutti i contribuenti.

Osservando il modo con cui, negli ultimi vent’anni, i vari responsabili politici si sono relazionati con tutto il sistema di politiche pubbliche nel contesto italiano è doveroso domandarsi: ma la classe politica italiana è consapevole del carattere comunitario del sistema dei servizi sociali? Come tutti sanno, in questi ultimi anni non è mancata occasione per ridurre servizi in nome di accordi internazionali; raramente il parere degli italiani è stato tenuto in considerazione; praticamente mai gli amministratori hanno tutelato il principio della pubblica proprietà rispetto a quello del pareggio di bilancio. Queste scelte sono state spesso presentate come scelte obbligate dettate dalla crisi e necessarie alla ripresa, tuttavia i segnali di recupero latitano e un miglioramento degli indicatori sembra ancora lontano. Oggi, con ormai sei anni di crisi economica alle spalle e un futuro ancora incerto davanti a noi, da dove ripartire?

Fortunatamente le persone non aspettano lo Stato per muoversi. Davanti ai diversi bisogni a cui il welfare state non fornisce più una risposta, sono sorte una miriade esperienze, derivanti sia dal mondo non profit sia dai privati, che hanno visto sempre più persone mettersi insieme per tentare di trovare soluzioni nuove alle proprie necessità di servizi. Affinché però queste nuove forme di welfare trovino un terreno fertile è necessario che tutti gli attori coinvolti, a partire dal legislatore, recuperino la dimensione comunitaria della gestione e di condivisione di beni e servizi. Quello di cui si necessita in primo luogo quindi non sono le risorse che oggi tutti invocano, ma che sembrano proprio non esserci, bensì una consapevolezza nuova, che vada a recuperare la necessità di condivisione sia dei bisogni che delle risposte ai bisogni stessi, per poter ripartire senza ritrovarci in futuro una situazione potenzialmente peggiore di quella attuale.

 

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