L’ultimo Rapporto Povertà di Caritas Italiana, intitolato “Tutto da perdere”, contiene i dati sui poveri registrati dai volontari Caritas sulle piattaforme informatiche nel 2022 su tutto il territorio nazionale. La lettura del documento colpisce particolarmente laddove, nella introduzione, sottolinea come i numeri siano così tanto allarmanti da fotografare una realtà inaccettabile che denuncia una vera e propria sconfitta per chi si trova direttamente coinvolto nella povertà, e per l’intera società.
“Tutti abbiamo da perdere dalla presenza di oltre cinque milioni e seicentomila persone che vivono in povertà assoluta. Tutti dobbiamo sentirci sconfitti di fronte a un milione e duecento mila minori in condizione di indigenza, costretti a rinunciare a tante opportunità di crescita, di salute, di integrazione sociale, e il cui futuro sarà indubbiamente compromesso. L’Italia, infatti, risulta essere il Paese in Europa in cui la trasmissione intergenerazionale delle condizioni di vita sfavorevoli risulta più intensa: chi nasce povero molto probabilmente lo rimarrà anche da adulto“ (p. 7).
La povertà nelle famiglie in Italia: il profilo individuato dal Rapporto
Il superamento del periodo pandemico e la lieve ripresa economica, seppur compromessa dai rincari energetici e dall’aumento dell’inflazione, facevano ben sperare sul miglioramento graduale delle condizioni di vita delle persone, anche di quelle che vivono la precarietà quotidiana, ma che potevano contare su aiuti da parte dello Stato e sul sostegno delle reti sociali impegnate a favorire la stabilizzazione del benessere dei più fragili. Dall’analisi capillare condotta da Caritas Italiana, però, risulta tutt’altro: ciò che emerge è l’aggravamento di tante situazioni di svantaggio socio-economico che si pensava si potessero superare.
Dal rapporto si evince che vivono in situazione di povertà assoluta poco più di 2,18 milioni di famiglie. Sono 5,6 milioni di individui, quasi un abitante su dieci. Ancora più allarmante è leggere che la povertà assoluta interessa in Italia quasi 1 milione e 269.000 minori; l’incidenza tra i bambini e i ragazzi arriva nel 2022 al 13,4% (dal 12,6% dell’anno precedente) e risulta essere ancora la più elevata fra tutte le fasce d’età. Quindi la povertà tocca in modo più marcato minori e giovani e in misura più contenuta gli adulti e gli over 65, anche se dal confronto con i dati del 2021 si nota un peggioramento che ha riguardato tutti indistintamente, anche gli ultra sessantacinquenni (trend che risulta in controtendenza rispetto al passato). È questo un aspetto da monitorare nel tempo, in quanto segnale di una possibile perdita di autonomia sociale e sanitaria della fascia di popolazione con età più elevata.
Complessivamente anche per il 2022 la situazione più difficile è quella sperimentata dalle famiglie che hanno un maggior numero di componenti, specie se minori: l’incidenza della povertà raggiunge il 22,5% tra i nuclei con 5 o più membri e l’11% tra quelli con quattro. Anche per le famiglie di tre componenti si segnalano tuttavia marcati segnali di peggioramento (dal 6,9% all’8,2%).
In Europa 95 milioni di persone a rischio di povertà o esclusione sociale
A conferma di questi dati generali c’è anche il numero di chi si è rivolto ai Centri Caritas che, già di per sé assai elevato, è sicuramente sottostimato perché è riferito ai soli centri di ascolto e servizi informatizzati; restano fuori infatti le tante Caritas parrocchiali e i servizi non in rete con la raccolta dati. Se si rimane comunque alle informazioni disponibili, possiamo assimilare le oltre 255.000 persone aiutate ad altrettanti nuclei, dato che l’assistenza e l’accompagnamento rispondono sempre a necessità di tipo familiare. “Così rapportando tale numero a quello delle famiglie in povertà assoluta, possiamo stimare che circa l’11,7% dei nuclei in povertà, calcolati dall’Istat, sia stato aiutato dal circuito Caritas” (p. 22).
Tre elementi chiave: istruzione, lavoro, precarietà
L’istruzione continua ad essere tra i fattori che più tutelano dal rischio povertà, così come individuato dall’Unione Europea che, nel definire un set di indicatori di disagio sociale comune a livello europeo, ha indicato il possesso del diploma di scuola superiore come condizione minima per il superamento del rischio di esclusione sociale.
Il titolo di studio è spesso condizionato dalla famiglia di origine. Al riguardo i dati OCSE dichiarano che in Italia soltanto l’8% dei giovani-adulti con genitori che non hanno completato la scuola secondaria superiore ottiene un diploma universitario (la media OCSE è del 22%). La percentuale sale al 32% tra i giovani che hanno genitori con un diploma superiore e raggiunge il 65% tra i figli di laureati o con diploma universitario. Se ci si concentra sulla popolazione in stato di povertà, il dato è ancora più allarmante. Tra coloro che beneficiano dei servizi delle Caritas solo lo 0,8% dei nati da genitori senza un diploma superiore ha raggiunto un titolo universitario, mentre quasi il sessanta per cento si è fermato alla sola licenza media inferiore (il 58,6%); al contrario tra i figli di genitori laureati quasi uno su tre ha ottenuto a sua volta un titolo universitario.
Procedendo nella lettura del Rapporto, guardando ai 2,18 milioni di famiglie povere nel loro insieme, colpisce che per quasi la metà di loro non ci sia un problema di mancanza di lavoro: il 47% dei nuclei in povertà assoluta risulta avere infatti il “capofamiglia” occupato. Tra le famiglie povere di soli stranieri la percentuale sale addirittura all’81,1%; tra gli italiani si attesta al 33,2%. Questi dati ci restituiscono con ulteriore chiarezza quanto la in-work poverty sia un tratto distintivo del modello italiano di povertà (più che nel resto d’Europa). Concausa prevalente nel peggioramento delle condizioni di vita delle persone è la perdita del lavoro o una occupazione limitata nel tempo, intermittente, mai stabile, a cui si aggiunge la retribuzione insufficiente a coprire i costi della vita in continua crescita.
Working poor: le proposte degli esperti per contrastare la povertà lavorativa
Le analisi condotte dalle Caritas denunciano oramai una società dominata dalla precarietà: il tema della precarietà costituisce la filigrana delle richieste che la rete solidaristica riceve. Segno che il fenomeno è diventato strutturale e che è mutata la configurazione della povertà che si allarga e si diffonde in modo indiscriminato, in tutti i contesti sociali, geografici e anagrafici. “Nel corso degli ultimi quindici anni, la povertà ha decisamente cambiato volto, al punto che in letteratura si parla di “democratizzazione della povertà” per indicare il fatto che è sempre più difficile identificare dei gruppi sociali che possano dirsi veramente impermeabili o invulnerabili al rischio di povertà” (p. 8).
Povertà lavorativa: un’indagine qualitativa
Al tema del working poor il Rapporto dedica ampio spazio documentato, così come si sofferma sulle politiche di contrasto della povertà, che si trovano attualmente in una situazione di cristallizzazione. In questo ambito la Caritas si pone l’obiettivo di vigilare sul rischio di contrazione dell’intervento pubblico e di tenere viva l’attenzione sui territori rispetto alle persone in povertà e ai loro bisogni suggerendo un’idea di solidarietà che non sia intesa come virtù, bensì diventi un principio sociale, alla base di politiche più eque di accesso e distribuzione delle ricchezze, che garantiscano a ogni persona il diritto a una vita dignitosa.
Allo scopo di contribuire ad una riflessione comune che, ci si augura, possa anche essere di stimolo per i decisori politici chiamati a fare la propria parte nel contrastare la povertà, è stata realizzata un’indagine nazionale, di taglio sperimentale e qualitativo, che ha promosso un ascolto partecipato e coinvolgente della povertà lavorativa, così come essa appare nel mondo dei servizi Caritas. Si tratta della prima ricerca partecipativa mai realizzata da Caritas Italiana, che ha coinvolto in tutte le fasi di studio (dalla progettazione del disegno della ricerca fino all’analisi dei risultati) un piccolo gruppo di persone che vivono sulla propria pelle la condizione di fragilità economica, associata ad un’estrema debolezza lavorativa, che non coincide del tutto con la disoccupazione o lo sfruttamento lavorativo, e che segna in profondità la possibilità di immaginarsi, di costruire futuro, per sé e per i propri figli. Sulla scia dell’insegnamento del pedagogista brasiliano Paulo Freire, la ricerca partecipativa realizzata, si configura come “un’azione di conoscenza che porta ad un’azione di libertà, in quanto conseguenza di una collaborazione alla pari tra professionisti e persone che vivono situazioni di emarginazione e di oppressione, in un processo che vuole essere democratico e potenziante” (p. 9).
La sfida della povertà lavorativa al welfare locale: quali prospettive per l’innovazione sociale?
La ricerca in oggetto, oltre ad illustrare processo e risultati, grazie al lavoro condiviso con i beneficiari dei servizi Caritas, gli stakeholder del mondo patronale, istituzionale, sindacale, mondo delle intermediazioni, offre indicazioni e suggerimenti a partire dalla lettura lucida della attuale condizione dei lavoratori che la curatrice della ricerca, Vera Pellegrino, sottolinea essere in linea generale sempre ai margini: “a margine del benessere, della stabilità, delle regole contrattuali, del sistema lavorativo, del salario medio, della possibilità di costruire il futuro. Sono dei “fuori busta” in senso metaforico: dentro il sistema ma non del tutto, retribuiti ma non del tutto, con le potenzialità per vivere una vita dignitosa ma non del tutto” (p. 165).
La voce dei lavoratori poveri riflette uno stato in cui non si vive, bensì si sopravvive. Alla luce di questo si evince che “l’entità del salario percepito non può essere l’unico parametro per definire se una persona, pur lavorando, non riesce a mantenere sé stesso e la famiglia in modo dignitoso. Dalla ricerca emerge quanto sia essenziale valutare le condizioni generali in cui le persone vivono: l’aumento del costo della vita, la necessità di pagare un affitto o un mutuo, la presenza di un ammalato o un disabile, ma anche il contesto territoriale, se si vive in una zona ricca fornita di servizi pubblici o in una zona povera con meno servizi di cui poter fruire, se in una zona urbana, se distante dalla sede di lavoro, tutte condizioni che appartengono alla sfera delle esigenze primarie e modificano fortemente il peso del salario percepito sul bilancio familiare” (p. 165).
Nel chiosare questo commento breve e non esaustivo al ricco contenuto del Rapporto – di cui si suggerisce la lettura – mi piace completare il titolo scelto da Caritas Italiana, estrapolato da una canzone scritta da Francesco De Gregori, il quale ci ricorda che “la storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere e tutto da perdere.”