Come ci ha recentemente mostrato l’Istat, il tasso di povertà in Italia è in costante aumento. Per ridurre e contrastare questo fenomeno, però, i soli aiuti economici non sono sufficienti: è necessario infatti ripensare all’educazione sociale degli italiani. Questo il punto di vista espresso da Alberto Brambilla – Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – all’interno del portale Il Punto – Pensioni&Lavoro.
Quantificare la povertà nel nostro Paese è piuttosto complicato e non aiutano certamente i dati forniti da organizzazioni caritatevoli, spesso in conflitto di interessi, né quelli di ISTAT, che dimensionano la povertà relativa e assoluta in 5,4 milioni di famiglie; considerando che lo stesso Istituto di statistica calcola 2,7 componenti a famiglia, il numero di poveri diverrebbe pari a 14,6 milioni di connazionali, quasi un quarto del totale. Un dato che a buon senso appare assai sovrastimato anche perché, se così fosse, avremmo una vera rivolta sociale e non solo una “rivolta elettorale”.
Purtroppo informazioni come queste in un Paese che, spesso, non approfondisce i problemi e di sovente li usa in modo demagogico, non fanno bene a nessun governo di qualsiasi orientamento esso sia. E infatti la risposta di tutti i governi (chi più chi meno), condizionata spesso da sindacati, media e apparati religiosi, è stata finora solo monetaria o basata su una riduzione del carico fiscale: la risposta peggiore per il futuro del Paese!
Tre dati spiegano bene l’attuale situazione nel nostro Paese:
- nel 2016 la spesa per la protezione sociale (pensioni, sanità e assistenza) è state pari a oltre 451,9 miliardi, il 54,4% di tutta la spesa pubblica (830 miliardi) e ben il 57% se rapportata alle nostre entrate fiscali. Non a caso, per finanziare parte di questa spesa, si è andati a deficit di circa 41,6 miliardi;
- la spesa a carico della fiscalità generale, in prevalenza assistenziale, è passata dagli 89 miliardi del 2012 ai 112 del 2017; ben 23 miliardi di spesa corrente strutturale in più ogni anno;
- anche sotto il profilo fiscale, che è indispensabile per finanziare la spesa sociale, ci sono problemi: su 60,58 milioni di italiani quelli che fanno una dichiarazione dei redditi sono circa 40,87 milioni; quelli che dichiarano almeno 1 euro sono 30,78 milioni. Ma il dato più allarmante è che il 45% circa degli italiani versa solo il 4,64% dell’Irpef, con un’imposta media di poco meno di 300 euro che, per i dipendenti e i pensionati, considerando l’effetto del bonus da 80 euro del Governo Renzi e delle deduzioni e detrazioni, va dal negativo di -21 euro a 31 euro. Solo per pagare l’assistenza sanitaria a questa ampia fascia di popolazione occorrono circa 50 miliardi e altri 46 ne servono per le prestazioni assistenziali di natura periodica (pensioni sociali, maggiorazioni, integrazioni, invalidità, ecc).
Da questi pochi dati appare evidente che gli spazi per ulteriori aumenti della spesa sociale o riduzione delle imposte sono assai esigui. E poi siamo sicuri che queste risposte, in assenza di una profonda analisi del fenomeno, siano le migliori per ridurre la povertà? Siamo sicuri che, redistribuendo risorse che saranno sempre meno disponibili in futuro, si riesca a ottenere una riduzione della povertà?
Considerando che esisterà sempre un livello fisiologico non riducibile di povertà (si vedano i senza fissa dimora che si rifiutano di essere alloggiati o quelli che rifiutano di lavorare), fenomeno che tuttavia andrebbe ben spiegato alla popolazione da tutti i soggetti sopra menzionati al fine di evitare errate convinzioni, non è azzardato affermare che una parte molto consistente di questa povertà non dipende da fattori economici ma da “povertà educativa e sociale”.
Un Paese con così tante persone povere non spenderebbe circa 96 miliardi l’anno in giochi d’azzardo (il 14,1% del reddito netto disponile!), con oltre 30 milioni di “utenti”; oltre 8 miliardi sono spesi in “maghi e cartomanti” con 13 milioni di utenti; 14 in “unghie e faccine”, piercing e tatuaggi, altri 14 in droghe più o meno leggere e così via; il tutto, considerando che i redditi dichiarati superano appena gli 843 miliardi che, al netto dell’Irpef, sono 680 miliardi. E che, ad esempio, i versamenti ai fondi pensione sono solo 14,2 miliardi. Probabilmente la risposta è solo parzialmente economica: il grosso degli interventi si deve fare in educazione.
Per questo sommessamente suggerisco a questo “governo del cambiamento” una variazione di strategia che, in estrema sintesi, si può così definire: da subito inserire in tutte le scuole di ogni ordine e grado, compresa l’università almeno 2/3 ore settimanali di educazione civica, sociale e, aggiungo, salutistica e alimentare con tanto di votazione che fa media e prova finale. Partire subito dai bimbi di 5/6 anni, riducendo in parallelo la dispersione scolastica con obbligo cogente di mandare i bimbi a scuola, per tentare contemporaneamente di “recuperare” quelli ormai ai licei e università. Introdurre poi per tutti un periodo di almeno 6 mesi di servizio civile dai connotati fortemente educativi. Ma proporrei la stessa “educazione” anche per i soggetti che beneficiano di prestazioni di sostegno al reddito con quote di lavori utili alla collettività. Dobbiamo recuperare gli ultimi 25 anni in cui tutto è stato concesso e molto in educazione è stato “scontato”. Solo così potremo pensare di ridurre la povertà nel nostro Paese trasformando uno stato di bisogno in una grande opportunità.