È di questi giorni l’uscita del Rapporto Invalsi 2018, che ogni anno scatta una fotografia dei livelli di apprendimento degli studenti italiani. Il rapporto, che in questa edizione mostra alcune novità rispetto alle modalità di raccolta dati e di analisi e restituzione dei risultati, si rivela estremamente interessante per comprendere come affrontare, sia dal punto di vista dell’intervento che della ricerca valutativa e sociale, la povertà educativa in Italia.
Due sono le questioni che saltano maggiormente all’occhio. La prima è la conferma del grande gap in termini di risultati conseguiti tra il Nord e il Sud e le isole. La seconda questione è la relazione tra status socio-economico-culturale delle famiglie di provenienza e risultati nelle prove Invalsi, per cui tendenzialmente gli alunni che vivono in situazioni familiari maggiormente favorevoli hanno maggiori possibilità di conseguire risultati migliori. Come si sottolinea anche nel rapporto, questo non significa che ad una situazione familiare sfavorevole si associno necessariamente risultati peggiori, ma che i ragazzi che vivono in condizioni disagiate hanno meno possibilità. Questa relazione si acuisce nell’Italia Meridionale e insulare, dove, come sottolinea anche il rapporto annuale dell’Istat sulla povertà in Italia, l’incidenza della povertà nelle famiglie è più alta rispetto al Nord e al Centro. Questi dati sono allarmanti visto anche che, secondo il rapporto Ocse uscito nel mese scorso sulla mobilità sociale, in Italia sono necessarie almeno cinque generazioni perché i bambini nati in famiglie svantaggiate raggiungano il reddito medio.
Questa panoramica ci invita a riflettere su cosa oggi si intenda con povertà educativa e quali siano le modalità più efficaci di intervento. Quanto detto finora sottolinea, infatti, come la povertà educativa non sia una caratteristica individuale di un bambino o della famiglia, ma piuttosto il sintomo di profonde diseguaglianze sociali tali da ostacolare l’immaginazione e la progettazione del proprio futuro. La povertà educativa non è dunque questione che riguarda il futuro dei bambini, ma delle collettività di cui essi fanno parte.
Queste considerazioni sono importanti anche per comprendere gli obiettivi e gli approcci delle valutazioni che si occupano di povertà educativa. In questo senso le valutazioni devono interrogarsi non solo sui risultati, ma anche sul come e il perché siano stati raggiunti o meno, in modo da comprendere il processo e la replicabilità e scalabilità dell’intervento stesso. Non si possono inoltre considerare esclusivamente indicatori e misurazioni quantitative che guardino esclusivamente ai bambini coinvolti. Occorre, piuttosto, comprendere in maniera profonda il contesto e i processi con cui le famiglie e la collettività costruiscano sensi e significati della quotidianità e, dunque, del futuro. La valutazione in questo modo restituisce la complessità della questione, che appunto non significa interrogarsi solo sul futuro dei bambini, ma su nuove strategie per ridurre le profonde diseguaglianze sociali che attraversano il Paese.