Il seguente articolo è ripreso integralmente dal numero 3/2020 di Rivista Solidea, pubblicazione curata dall’omonima Società di Mutuo Soccorso del Sociale e dedicata ai temi del lavoro, del welfare e della mutualità.
Nello scenario attuale, in cui si stima, per il 2020, una contrazione del PIL italiano dell’8.2% sembra quasi una beffa che nel 2019, dopo quattro anni consecutivi, l’Istat abbia registrato per la prima volta una riduzione dei tassi di povertà.
Nel 2019, erano in povertà assoluta quasi 1,7 milioni di famiglie con una incidenza pari al 6,4% dei nuclei complessivi (erano il 7% nel 2008). In altre parole, 4,6 milioni di persone, pari al 7,7% della popolazione totale (erano l’8,4% nel 2008).
Questa riduzione si è verificata grazie all’introduzione del Reddito di Cittadinanza. Infatti, in un contesto in cui la contingenza economica non ha contribuito a migliorare la situazione della popolazione, le risorse impiegate nell’ambito del contrasto alla povertà hanno permesso di raggiungere dei risultati importanti. Si è trattato di un primo timido segnale del fatto che l’Italia (per diversi anni unico paese europeo in cui è mancato un “reddito minimo di inserimento”) avesse finalmente messo in campo una misura che, seppur con una serie di limiti, ci ha posto in linea con l’obiettivo 1 dell’Agenda 2030 che mira a “sconfiggere la povertà”.
Tuttavia, nella fase attuale, l’impatto delle misure di contenimento del Covid-19 sta generando una recessione globale che non ha precedenti e che porterà a un nuovo drammatico salto in avanti della povertà. L’attuale crisi rischia di colpire ulteriormente bambini e ragazzi che hanno già pagato un prezzo elevatissimo negli anni che sono passati dall’inizio della crisi economico-finanziaria nel 2008 ad oggi.
La povertà minorile prima del Covid
Dal 2008 al 2019 la povertà infantile è cresciuta in misura maggiore rispetto a quella della popolazione complessiva. Se nel 2007 non erano rilevabili differenze rispetto alla fascia di età e la quota di minori in povertà assoluta era pari a quella della popolazione complessiva (3,1%), negli anni successivi la povertà dei minori è cresciuta in misura maggiore e la distanza fra minori e resto della popolazione ha raggiunto il suo massimo nel 2016 quando erano in povertà assoluta il 12,5% dei minori e il 7,9% della popolazione complessiva. Nel 2019, i minori in povertà assoluta erano invece l’11,4%.
Se si confronta il dato dei minori con quello degli anziani emerge poi che la crisi economica ha profondamente cambiato il profilo dei poveri. Infatti, se gli anziani hanno tradizionalmente rappresentato una categoria particolarmente fragile, oggi l’indigenza colpisce molto più i minori rispetto agli anziani.
Fra il 1997 e il 2011, il tasso di povertà relativa fra i minori era compreso fra l’11 e il 12%, nel 2012 superava il 15% e ha continuato a crescere costantemente fino al 2016 quando ha raggiunto il 22,3% per poi ridursi nel 2017 (21,5%) e crescere di nuovo nel 2019 (22%).
Per gli anziani il trend è inverso. Nel 1997, l’incidenza della povertà fra gli over 65 superava di oltre il 5% quella dei minori. Nel 2008, il dato nei due sottogruppi era simile mentre nel 2014 l’incidenza della povertà relativa tra gli anziani era oltre 9 punti percentuali inferiore rispetto a quella dei minori. La massima distanza fra i due gruppi è stata raggiunta nel 2016 quando gli anziani in povertà relativa erano l’8,2% e i minori il 22,3%.
Perché bambini e ragazzi sono i più colpiti?
La crescita della povertà infantile si lega alle difficoltà economiche dei genitori che sempre più spesso non riescono ad accedere al mercato del lavoro, oppure perdono la loro occupazione o, ancora, lavorano ma non guadagnano a sufficienza. In proposito si pensi che la percentuale di disoccupati sul totale della popolazione attiva è cresciuta costantemente nel periodo compreso fra il 2007 (6,1%) e il 2014 (12,7%), per poi ridursi negli anni successivi rimanendo tuttavia decisamente superiore rispetto ai livelli pre-crisi (10% nel 2019).
Nello stesso periodo è quasi raddoppiata la percentuale di lavoratori part-time involontari sul totale dei lavoratori part-time passando dal 38,5% del 2007 al 64,5% del 2019 (dato Istat). Contemporaneamente è cresciuta la percentuale dei cosiddetti lavoratori poveri, che salgono dal 9,3% del 2007 al 12,2% del 2019 (dato Eurostat). Tutte tendenze che si concentrano sulle giovani generazioni piuttosto che sulla forza lavoro più anziana.
In sostanza, la presenza di redditi percepiti attraverso una debole partecipazione al mercato del lavoro ha portato i giovani genitori a subire pesantemente la crisi del 2008. Al contrario, i redditi da pensione, percepiti perlopiù dagli over 65, hanno retto decisamente meglio l’impatto della crisi.
Covid, occupazione femminile e rischio di povertà
Come sta cambiando la povertà nell’ambito della crisi attuale? In un recente rapporto basato sulle informazioni raccolte attraverso i Centri d’Ascolto (CdA), Caritas Italiana segnala un incremento dell’incidenza della povertà fra le donne, gli italiani, i giovani di età compresa fra 18 e 34 anni; ma anche fra i coniugati, le famiglie con figli e quelle con minori.
L’aumento della povertà delle donne si lega alla loro debole partecipazione al mercato del lavoro. Un recente rapporto Irpet, ha evidenziato che la crisi attuale sta avendo un impatto sproporzionato sulle donne rispetto alle recessioni “tradizionali”, che hanno colpito maggiormente l’occupazione maschile. Questo, da un lato, è dovuto a una maggiore presenza femminile nel terziario (che comprende una quota rilevante dei settori più colpiti dalle misure di distanziamento) e, dall’altro, a una iniqua distribuzione del lavoro di cura all’interno delle famiglie; iniquità che è stata esasperata dalla sospensione delle attività educative/scolastiche e dal ricorso alla didattica a distanza.
Inoltre, come evidenziato dall’INAPP, con la fine del lockdown di marzo-maggio – quando nelle coppie con figli è stato possibile scaglionare i rientri al lavoro – sono state perlopiù le donne a rimanere a casa. Questa scelta trae origine da fattori organizzativi (quando le donne affermano di poter beneficiare di una maggiore flessibilità oraria), economici (perché percepiscono stipendi più bassi e dichiarano quindi che se sono loro a rimanere a casa la perdita economica è minore) ma anche culturali (quando le donne ritengono di avere una maggiore capacità nella gestione e cura familiare). Si tratta di uno stop che può essere temporaneo oppure prossimo alla decisione di dimettersi definitivamente per esigenze familiari. Una condizione che ha conseguenze importanti sul rischio di povertà dei minori che aumenta significativamente quando il nucleo percepisce un solo reddito.
Non solo materiale: la povertà educativa nel contesto del Covid
A tutto ciò si deve aggiungere che, a seguito delle misure di contenimento del Covid 19, bambini e ragazzi stanno sperimentando una condizione di deprivazione educativa e culturale senza precedenti. La sospensione dei servizi educativi e per l’infanzia, la chiusura delle scuole (che è stata totale nella prima fase e procede a macchia di leopardo nella seconda), quella di molte attività ricreative (es. cinema, teatri, biblioteche) e sportive produce infatti una crescita della povertà educativa. Con questo termine si fa riferimento a un processo che limita il diritto dei bambini a un’educazione e li priva dell’opportunità di imparare e sviluppare competenze di cui avranno bisogno da adulti6. Questa deprivazione avrà purtroppo effetti di lungo periodo sull’apprendimento, sulla dispersione scolastica e sulla crescita delle disuguaglianze.
Per i bambini più piccoli, è ormai noto che un periodo decisivo per lo sviluppo è quello della prima infanzia e che l’accesso a servizi educativi di qualità nei primi anni di vita (0-5 anni) ha un impatto rilevante sulle opportunità future. Le esperienze educative extra familiari precoci sono particolarmente importanti nel caso dei bambini svantaggiati (economicamente e/o socialmente) e di quelli con disabilità. La sospensione totale di questi servizi ha allora pesanti ricadute sul futuro di bambini e ragazzi.
Per i più grandi, la didattica a distanza favorisce invece la crescita delle disuguaglianze; questo avviene ad esempio perché ci sono bambini e ragazzi che vivono in case sovraffollate e non hanno quindi spazi adeguati allo studio, ma anche perché i genitori non dispongono di risorse utili a supportare i propri figli – ad esempio perché non hanno tempo o competenze per farlo; infine ci sono bambini e ragazzi che non possiedono computer o tablet o che li possiedono ma devono comunque condividerli con altri componenti del nucleo.
Si tratta di una situazione destinata a fungere da detonatore per la crescita della dispersione scolastica. E questo potrebbe essere devastante in un paese, come il nostro, che registra tassi superiori alla media europea (13,5% contro una media UE del 10,3% nel 2019 secondo l’Eurostat) e che si piazza al quinto posto fra i paesi con la performance peggiore.
La crescita della povertà educativa dei ragazzi, unitamente alle difficili condizioni del mercato del lavoro, rischia poi di portare a un ulteriore drammatico aumento dei giovani che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in percorsi formativi. Si tratta dei cosiddetti NEET, un esercito (nel 2019) di 2 milioni 189 giovani, pari al 22,2% totale; un tasso questo che ci colloca all’ultimo posto in Europa.
Cosa dovremmo fare per superare questa crisi?
In un quadro così complesso e nel quale la fine della pandemia da Covid-19 sembra ancora lontana, sul fronte delle politiche di welfare tre possono essere le strategie che andrebbero adottate con decisione. La prima riguarda la messa in campo di sostegni economici utili a garantire una vita dignitosa a tutti i bambini e i ragazzi che si trovano in condizione di indigenza. Ampio accesso deve allora essere garantito a misure come il Reddito di Cittadinanza e/o altri interventi messi in campo dagli enti locali per far fronte alla povertà materiale; sia essa alimentare, sanitaria o abitativa.
La seconda è considerare la scuola e i servizi educativi per la prima infanzia come “servizi essenziali” e garantirne quindi il funzionamento anche nelle fasi di maggiore recrudescenza del virus. Questa è l’unica strada percorribile per ridurre i costi di lungo periodo dell’attuale crisi e non penalizzare ulteriormente le giovani generazioni.
La terza riguarda, infine, il rafforzamento delle politiche di conciliazione. Questa crisi ha infatti evidenziato tutta la debolezza di un welfare “fai da te” in cui la conciliazione si basa sui servizi di cura offerti dai nonni nei confronti dei nipoti. In attesa che questa ondata passi e che serie politiche economiche (da realizzare anche grazie alle risorse provenienti dall’Europa) ci permettano di ripartire è necessario adottare tutti gli strumenti utili a promuovere l’occupazione femminile e ridurre così il rischio di povertà dei bambini.
Alcuni riferimenti
Istat, Statistiche Flash, III trimestre 2020. Stima preliminare del PIL, www.istat.it.
Istat (2020), Rapporto annuale 2020. La situazione del paese, www.istat.it; Corte dei Conti (2020), Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica, www.corteconti.it.
Caritas Italiana (2020), Gli anticorpi della solidarietà. Rapporto 2020 su povertà ed esclusione sociale in Italia, www.caritas.it.
Irpet (2020), L’occupazione femminile ai tempi del Covid-19, nota 12/2020, www.irpet.it.
INAPP News, La disparità di genere nel post lockdown: qualcosa (non) è cambiato. Intervista a Valentina Cardinali, www.inap.org.
Save the Children (2014), La lampada di Aladino. L’indice di Save the Children per misurare le povertà educative e illuminare il futuro dei bambini in Italia, Roma.
Save the Children (2020), L’impatto del Coronavirus sulla povertà educativa, www.savethechildren.it.