Da anni circolano diverse parole d’ordine che ispirano il lavoro nella relazione d’aiuto. “Personalizzare il progetto”. “Mettere al centro la persona”. “Partire dai punti di forza”. “Capacitare”. “Redistribuire il potere”. Come operatrici e operatori sociali ci siamo avvicinati a queste idee con entusiasmo, ma abbiamo spesso constatato che al cambiamento del lessico non è seguito un cambiamento nella pratica altrettanto profondo.
Queste parole chiave del lavoro sociale talvolta si riducono a slogan vaghi nei quali chiunque si può riconoscere. Tutti concordiamo sul fatto che i progetti debbano mettere al centro la persona, essere cuciti su misura, personalizzati, che occorra valorizzare le risorse individuali.
Ma cosa significa “mettere al centro la persona”? E soprattutto come farlo concretamente? Spesso le risposte a questa domanda sono assenti o sfuocate, troppo basate sull’intuizione e sulla buona volontà del professionista. Da tale vaghezza deriva una situazione in cui tutti ritengono di lavorare con l’approccio giusto, senza tuttavia condividere – nella pratica operativa – metodologie, strategie e strumenti davvero coerenti con questa proposta.
L’Atlantide della progettazione educativa personalizzata
Con il progetto HOOD – Homeless’s Open Dialogue , come équipe educativa della Fondazione Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo abbiamo avuto l’opportunità di dare maggiore concretezza a questi princìpi. Nella cornice di un progetto Erasmus+ tutt’ora in corso stiamo collaborando con partner di cinque Paesi europei che lavorano nel contrasto all’homelessness1.
All’interno di questo partenariato ci siamo impegnati per tre anni ad approfondire il tema della progettazione educativa, con la supervisione del Centro Studi per i Diritti e la Vita Indipendente (DiVI) dell’Università di Torino. Grazie a questo Centro Studi abbiamo conosciuto la metodologia della Co-progettazione Capacitante, che si ispira all’Open Dialogue (Seikkula e Arnkil 2014): un approccio di lavoro elaborato dal gruppo dello psicologo finlandese Jaakko Seikkula nell’ambito della salute mentale. Mutuando principi ed elementi dell’Open Dialogue, il Centro Studi DiVI ha elaborato la Co-progettazione Capacitante per sviluppare progetti di vita indipendente insieme a giovani adulti con disabilità (Marchisio 2019).
La sfida principale di HOOD consiste nell’adattare la co-progettazione al lavoro con le persone senza dimora, in una cornice di intervento precoce. Sperimentare nella nostra realtà lavorativa questo approccio ci ha permesso di esplorare concretamente e di portare a galla la “Atlantide” di una progettazione educativa che metta al centro la persona. La prima scoperta è che la Co-progettazione Capacitante non è solo un metodo, ma una prospettiva che va a operare su dimensioni profonde del lavoro educativo e del mindset del professionista. Se alcune dimensioni in gioco sono difficili da sistematizzare in un set di strumenti puntuali, la co-progettazione prevede alcuni elementi distintivi che aiutano a mantenere un approccio di empowerment.
In questa sede abbiamo deciso di soffermarci su un aspetto specifico, riservandoci la possibilità di approfondire in futuro altri argomenti. Abbiamo scelto di condividere le esperienze relative a un elemento cardine dell’approccio: il sogno.
Ricordare un futuro felice
“Immaginati felice tra cinque anni”. Questa è la frase con cui, all’interno di HOOD, abbiamo imparato ad avviare i percorsi con le persone. Una frase che a noi e ai nostri partner è parsa insolita, rispetto alle esperienze precedenti di colloqui con le persone che si rivolgono ai nostri servizi. Si tratta della tecnica dei “dialoghi anticipatori” (Arnkil 2018), una pratica dialogica in cui si invita la persona a rappresentare un futuro felice e a procedere a ritroso per ricostruire quali sono i passi e gli elementi che portano a quel punto.
Chiedere a chi da poco si è ritrovato a vivere per strada o in una condizione di fortuna di immaginarsi felice tra cinque anni permette di compiere contemporaneamente due operazioni. In primo luogo, sposta lo sguardo della persona dalla situazione di crisi presente che, essendo spesso insostenibile e scioccante, paralizza le risorse e l’immaginazione. Modificare l’orizzonte temporale permette di costruire una progettazione con un respiro più ampio. In secondo luogo, non chiediamo di immaginare un futuro plausibile a partire dalla condizione di vita attuale, ma un futuro felice. Questa scelta ha anche un portato politico: implica riconoscere a tutti e tutte il diritto e la possibilità di avere una vita degna e felice – secondo le diverse definizioni che ognuno può darne.
Anche le persone senza dimora coinvolte nel progetto si sono sorprese di fronte a tale domanda. Qualcuno ha colto subito l’opportunità di immaginare, mentre altri si sono mostrati inizialmente più reticenti. Per le persone che la condizione di homelessness ha più compromesso, incontrate dai colleghi danesi che si occupano di riduzione del danno nel lavoro di strada, questa domanda si è rivelata quasi impossibile da affrontare. L’esperienza realizzata in Danimarca dimostra come la Co-progettazione Capacitante sia particolarmente indicata in una cornice di intervento precoce, quando l’esperienza di homelessness è recente e non ha intaccato in profondità le competenze, l’autostima e la capacità di proiettarsi nel futuro del soggetto.
Nell’immaginare un futuro felice, le persone senza dimora hanno condiviso scenari disparati: chi immaginava di trasferirsi in Cina per incontrare una donna conosciuta online, chi voleva diventare medico e vivere al mare, chi trovare un lavoro simile a quello da poco perso e iniziare una nuova relazione amorosa. Alcuni sogni ai nostri occhi apparivano più fattibili, altri meno, alcuni più “adatti”, altri addirittura pericolosi. Con la supervisione del Centro Studi DiVI abbiamo allenato la capacità di tenere sotto controllo le opinioni personali, mettendole in secondo piano e trasformandoci in quello che le pedagogiste del Centro Studi hanno definito un “vaso vuoto”, capace di accogliere quanto arriva senza aggiungere nulla di proprio. Il futuro felice, il sogno della persona non riorientato, modificato o corretto dal professionista, diventa dunque il fine ultimo del progetto educativo da co-costruire. Il sogno fa sì che la persona prenda il timone del proprio percorso e ci aiuta a mettere concretamente in pratica quella redistribuzione di potere tanto spesso menzionata nel dibattito sociale.
Nell’applicare questo approccio metodologico ci siamo resi conto che molti progetti passati, ai nostri occhi costruiti insieme alle persone assistite, in realtà erano “standardizzati”. Li avevamo sviluppati a partire dal set di possibilità messe a disposizione dai nostri servizi o da noi accumulate con l’esperienza e verso queste avevamo orientato le scelte delle persone, con un atteggiamento professionale che potremmo definire “strategico”. Lasciare il sogno della persona al centro del progetto scombina ogni set preordinato di opzioni, con un effetto anche di spaesamento per il professionista. È una condizione posta dalla Co-progettazione Capacitante: lavorare per l’empowerment della persona, abbandonando l’obiettivo di orientare il suo futuro. Come sostengono anche i creatori dell’Open Dialogue, si tratta di una scelta alternativa: non è possibile fare entrambe le cose all’interno dello stesso intervento. Mettere al centro il sogno della persona così com’è, accogliendolo come “vasi vuoti”, permette di imboccare la strada della promozione dell’empowerment e di abbandonare l’atteggiamento “strategico”.
Il sogno come motore del progetto
Il sogno diventa quindi il “timone” lasciato alla persona, con una notevole cessione di potere da parte dell’operatore sociale. Oltre a ciò, il sogno costituisce anche un “motore”. Proprio perché è un futuro felice personale, accende il desiderio e la tendenza ad attivarsi nel rincorrerlo. È l’elemento propulsore di un percorso in cui la persona può sentirsi protagonista. È con l’attenzione fissa sul sogno che si inizia a costruire un insieme dettagliato di azioni decise in maniera condivisa per avvicinarsi a quell’obiettivo. L’operatore e la persona assistita disegnano il percorso definendo chi svolgerà ogni azione, calendarizzandole e fissando altri incontri per ricalibrare insieme il progetto.
Nell’accompagnare questi percorsi attivati dal “sogno” ci siamo resi conto che accade qualcosa che le pedagogiste del Centro Studi DiVI ci avevano anticipato: le persone, nel costruire il proprio futuro, cambiano. Scoprono nuovi elementi, conoscono altre persone e realtà, cambiano idea, fanno diversi tentativi, cadono e si rialzano. Il percorso educativo co-progettato accompagna tutti questi sviluppi, li sostiene e viene ridefinito progressivamente. Come nella vita reale, è il progetto che si adatta allo svolgersi della dimensione esistenziale, senza volerla indirizzare in maniera predefinita.
Così una ragazza, studiando per il test di ingresso a medicina, è venuta a conoscenza di altre facoltà meno selettive, ma altrettanto interessanti, e ha deciso di iscriversi a più test, ampliando le proprie possibilità di accesso all’università. Un uomo che, con la remissività che spesso ci si aspetta da chi si rivolge ai servizi, aveva dichiarato che “qualsiasi lavoro sarebbe andato bene”, ha avuto la capacità di riconoscere e sostenere le proprie attitudini, concludendo che la professione di OSS prospettata non sarebbe stata adatta a lui e che avrebbe preferito cercare qualcosa nella grande distribuzione. Una giovane donna ha iniziato un percorso da parrucchiera, per poi abbandonare e decidere di formarsi come cuoca assecondando le proprie preferenze elettive.
Il sogno diventa il motore, ma il cuore del progetto educativo è il processo attivato, che costituisce un’occasione di apprendimento. Per questo, diversamente da quello che succedeva spesso nei nostri servizi, i cambiamenti di direzione e i ripensamenti delle persone senza dimora vengono accolti come elementi positivi e fondamentali, prova del loro protagonismo.
Al momento gli operatori e le operatrici di HOOD stanno accompagnando percorsi co-progettati all’interno delle rispettive organizzazioni, confrontandosi tra loro e riflettendo su come questo approccio debba fare i conti con le specificità organizzative degli enti di appartenenza e con le cornici legislative e i sistemi di welfare nazionali coinvolti. Ci auguriamo che questo breve articolo possa accendere la curiosità di altre operatrici e operatori in cerca di risposte come noi e, proprio per questo, concludiamo ragionando sulla replicabilità del progetto.
Come realtà che lavorano nel campo dell’homelessness, abbiamo già messo in atto un primo passaggio mutuando la Co-progettazione Capacitante dall’esperienza con i giovani adulti con disabilità. Tuttavia, è importante sottolineare che la co-progettazione non è una ricetta da seguire alla lettera, quanto piuttosto un processo di apprendimento, di messa in discussione e trasformazione profonda delle organizzazioni e delle figure professionali che intraprendono questo cammino, in cui ci auguriamo di essere affiancati da sempre più compagni di viaggio.
Bibliografia
- Arnkil T. E. (2018), Dialogical Meetings In Social Networks, Routledge Arnkil.
- Marchisio C. (2019), Percorsi di vita e disabilità. Strumenti di coprogettazione. Roma, Carocci.
- Seikkula, J. & Arnkil T. (2014), Open Dialogues And Anticipations. Respecting Otherness In The Present Moment, Finland, Teema.
Note
- Ufficio Pio è capofila del progetto HOOD che vede la partecipazione come partner di: PROJEKT UDENFOR (Copenhagen), SJD Serveis Sociais (Barcellona), Klimaka (Atene), CESIS (Lisbona), Università degli Studi di Torino (Torino); e come partner associati: FEANTSA, fio.PSD, HOGAR SÍ, Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste.