Questo articolo è tratto dal numero 1/2022 di Rivista Solidea, pubblicazione promossa dall’omonima Società di mutuo soccorso e parte del network del nostro Laboratorio. |
Se si guarda alla letalità, gli anziani – soprattutto non autosufficienti – sono coloro che più hanno sofferto l’impatto del Covid-19. Tuttavia le ripercussioni indirette, quelle socioeconomiche, delle misure di contenimento del virus hanno impattato soprattutto sui giovani. Oltre a un peggioramento della loro condizione materiale (legata alla significativa crescita della povertà), la pandemia ha determinato una deprivazione educativa, culturale e relazionale senza precedenti. La sospensione dei servizi educativi e per l’infanzia, la chiusura delle scuole (totale nella prima fase emergenziale, a macchia di leopardo nella seconda) e quella di molte attività ricreative (es. cinema, teatri, biblioteche) ha prodotto una condizione di isolamento destinata, soprattutto nel caso di bambini e ragazzi più fragili, ad avere effetti di lungo periodo sul benessere psicofisico, in generale, e sulla crescita delle disuguaglianze sociali ed educative.
La complessità della “questione giovanile” costringe a una riflessione sulle strategie di intervento da adottare a tutela di bambini e ragazzi. Questo articolo, dopo aver fornito alcuni dati sulla povertà materiale ed educativa e salute mentale, propone una prima riflessione sulle logiche che dovrebbero sottendere gli interventi a sostegno dei giovani.
La povertà materiale
Nel primo anno di pandemia, le persone in condizione di povertà assoluta (ovvero che non accedono a un paniere di beni e servizi considerato essenziale per garantire uno standard di vita minimamente accettabile) erano un milione in più rispetto all’anno precedente (4,6 milioni nel 2019 contro 5,6 milioni nel 2020).
In Italia, la povertà assoluta cresce in maniera inversamente proporzionale rispetto all’età. Questo significa che più si è giovani più aumenta il rischio di essere poveri. Si tratta di una tendenza emersa in maniera decisa negli anni immediatamente successivi alla crisi economico-finanziaria del 2008 e confermata nel quadro pandemico.
Nel 2020, il 13,5% del totale dei bambini e ragazzi presenti in Italia è in povertà assoluta: un esercito di 1 milione e 337 mila minori, ovvero più di 1 bambino su 10. L’incidenza della povertà si riduce attestandosi all’11,3% (oltre 1 milione 127mila individui) se si guarda ai giovani fra 18-34 anni; al 9,2%, per la classe di età 35-64 anni (oltre 2 milioni 394 mila individui), mentre si mantiene su valori nettamente inferiori alla media nazionale (pari a 9,4%) per gli over 65 (5,4%, oltre 742mila persone).
La povertà educativa
La chiusura delle scuole, dei servizi educativi e di molte attività sportive e ricreative ha determinato una crescita della povertà educativa. Tale termine, nella definizione di Save the Children, rimanda al processo che limita il diritto dei bambini a un’educazione e li priva dell’opportunità di imparare e sviluppare competenze di cui avranno bisogno da adulti.
Anche se è ancora troppo presto per valutare l’impatto della pandemia sulle competenze degli studenti e sulla crescita della dispersione scolastica, possiamo aspettarci che la pandemia abbia contribuito a esacerbare una condizione che già in precedenza era critica.
L’Italia non ha ancora raggiunto l’obiettivo europeo di portare al di sotto del 15% l’incidenza dei giovani che ottengono risultati insufficienti in lettura, matematica e scienze. Per tutte queste materie, infatti, le percentuali italiane si attestano ancora tra il 20% e il 25%, al di sopra della media UE, seppure di pochi punti percentuali. Inoltre, le competenze degli studenti italiani sono al di sotto della media OCSE per quanto riguarda lettura e scienze e in linea con essa nel caso della matematica.
Anche l’obiettivo europeo di ridurre il tasso di giovani che abbandonano gli studi avendo completato solo la scuola secondaria inferiore al di sotto del 10% non è ancora stato raggiunto. Nel 2020, l’Italia aveva uno scarto di 3,2 punti percentuali rispetto alla media europea (13,1% contro il 9,9%). Infine, sempre nel 2020, il nostro paese registrava l’incidenza (23,5%) più alta d’Europa di NEET (ovvero di giovani, fra 15 e 29 anni, che non sono occupati e non sono inseriti in percorsi di istruzione o formazione professionale) e si collocava a quasi 10 punti percentuali dalla media UE (14%).
La salute mentale
Il rapporto Unicef (pubblicato a ottobre del 2021) “La Condizione dell’infanzia nel mondo – Nella mia mente: promuovere, tutelare e sostenere la salute mentale dei bambini e dei giovani” evidenzia che, se si guarda a bambini e ragazzi fra i 10 e i 19 anni, più di 1 su 7 convive con un disturbo mentale diagnosticato; tra questi 86 milioni hanno fra i 15 e i 19 anni e 80 milioni hanno tra i 10 e i 14 anni. Lo stesso rapporto sottolinea inoltre che bambini e ragazzi potrebbero risentire per molti anni dell’impatto del Covid-19 sulla loro salute mentale e sul loro benessere. L’interruzione dei percorsi formativi e dell’istruzione, delle attività ricreative e più in generale delle loro routine, unitamente all’insicurezza economica e alla preoccupazione per la salute, ha infatti reso molti giovani arrabbiati e spaventati per il loro futuro.
Un’indagine realizzata successivamente al primo lockdown del 2020, dall’Istituto Gaslini in collaborazione con l’Università di Genova, ha evidenziato che, rispettivamente nel 65% e nel 71% dei bambini con età minore o maggiore di 6 anni sono insorti sintomi regressivi e problematiche comportamentali. I disturbi più frequenti hanno riguardato l’irritabilità, il sonno e l’ansia. Inoltre, all’inizio del 2021, in un’intervista rilasciata all’Huffington Post, Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma denunciava che, con l’inizio della seconda ondata, si registrava un notevole rialzo degli accessi al pronto soccorso psichiatrico e che nel 90% dei casi si trattava di giovani (tra i 12 e i 18 anni) che avevano tentato di togliersi la vita.
Infine, più di recente, sono stati gli stessi giovani a chiedere una maggiore tutela del loro benessere psicologico minato dalla pandemia. La salute mentale è uno dei quattro pilastri del documento “Il futuro è nostro. Ripartiamo da zero” redatto dalla Rete degli Studenti Medi all’inizio dell’anno scolastico. Nei primi mesi del 2022, diversi quotidiani e settimanali nazionali hanno posto l’attenzione alla richiesta di salute mentale sollevata dai giovani nel corso di alcune manifestazioni studentesche.
Quali logiche di intervento?
La complessità della condizione giovanile esacerbata dalla pandemia costringe a un ripensamento delle politiche a loro rivolte. Schematicamente, è possibile distinguere tre logiche di welfare alle quali è necessario guardare per mettere in campo interventi a favore dei giovani. La prima è quella “riparativa” che risponde a una prospettiva di breve periodo e mira a offrire risposta a bisogni manifesti ad esempio attraverso interventi volti a curare la malattia mentale, a contrastare la povertà materiale, a recuperare i giovani che hanno abbandonato precocemente gli studi e ad attivare i NEET.
La seconda logica è quella “preventiva” che riflette una prospettiva di medio periodo e mira appunto a prevenire le situazioni di disagio conclamato, intercettando precocemente le situazioni di vulnerabilità legate a particolari condizioni sociali e sanitarie.
Infine, la terza logica, va oltre la prevenzione e guarda, in una prospettiva di lungo periodo, alla promozione del benessere dei giovani in senso ampio. Questa terza logica si pone in linea con le più recenti trasformazioni del welfare locale che sempre più spesso hanno visto la promozione di un modello variamente definito come “di prossimità”, “di comunità”, “generativo”, “capacitante”. Ciò che accomuna queste definizioni è la centralità della comunità e quindi l’idea che i territori siano dei sistemi in cui gli attori di “primo welfare” (gli enti pubblici) concorrono con quelli di “secondo welfare” (terzo settore, enti profit e no-profit ma anche semplici cittadini) alla produzione di interventi volti non solo a rispondere e a prevenire bisogni ma anche a promuovere benessere in senso più ampio.
Per costruire risposte adeguate per i giovani è necessario adottare queste tre logiche e, soprattutto a sostegno della terza, guardare alle opportunità che la comunità offre di promuovere il benessere di bambini e ragazzi. All’interno delle comunità locali un ruolo di primo piano deve essere chiaramente giocato dalle scuole che, oltre a garantire il diritto all’istruzione, dovrebbero presidiare il benessere dei giovani anche grazie a una stretta collaborazione con tutti i soggetti che nel territorio si occupano (a vario titolo) di giovani.
In questa prospettiva, le mense scolastiche dovrebbero giocare un ruolo di primo piano nel contrasto alla povertà alimentare, garantendo a bambini e ragazzi un pasto adeguato al giorno con effetti positivi sulla loro salute presente e futura.
Gli sportelli di ascolto psicologici interni agli istituti scolastici dovrebbero invece intercettare bisogni che richiedono interventi specialistici esterni alla scuola e facilmente attivabili grazie alla rete di collaborazione fra istituti scolastici e servizi sanitari territoriali. Al contrario, dove non emergono dei bisogni conclamati gli sportelli dovrebbero essere degli spazi di ascolto nei quali insegnanti, famiglie e giovani possono trovare risposte utili a migliorare la loro condizione.
L’integrazione fra scuola e comunità dovrebbe favorire lo sviluppo di processi partecipativi che vedono protagonisti i giovani. In questa direzione si collocano ad esempio progetti di ristrutturazione degli edifici scolastici realizzati attraverso processi di partecipazione condivisa che hanno visto il coinvolgimento della comunità scolastica e non (es. Torino fa scuola).
Inoltre una stretta relazione fra scuola e territorio potrebbe favorire un incremento delle opportunità ricreative, sportive, culturali e di socializzazione che possono essere fruite dai giovani anche al di fuori dell’orario scolastico (si pensi ai progetti “scuole aperte”).
Le logiche appena citate concorrono a promuovere il miglioramento dei rendimenti scolastici, la riduzione degli abbandoni e, in generale, la ri-attivazione dell’“ascensore sociale”. Si tratta, infatti, di fenomeni strettamente correlati alla condizione sociale ed economica nelle quali bambini e ragazzi sono inseriti.