L’Assegno di Inclusione (ADI) e il Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL) sono le due misure istituite dal Decreto Legge n. 48 del 4 maggio 2023 (successivamente convertito, con modificazioni, dalla Legge 85/2023) e chiamate il Reddito di Cittadinanza (RdC), l’ex misura nazionale di contrasto alla povertà.
Di cosa si tratta? Da un lato, l’ADI è una misura categoriale rivolta alle fasce più deboli, in particolare a persone fragili, inabili al lavoro o difficilmente (re)impiegabili. Il SFL è invece una misura di attivazione al lavoro, rivolta ai c.d. “occupabili”, di età compresa tra i 18 ai 59 anni. Sul fronte delle risorse nel 2024 sono stati stanziati circa 5,5 miliardi per l’ADI e 1,5 miliardi per il SFL.
Le domande per il SFL sono attive dal 1° settembre 2023. Dal 18 dicembre all’8 gennaio 2024 è stato invece possibile presentare domanda per accedere all’ADI. Secondo le anticipazioni fornite dall’INPS dei 600.000 nuclei che hanno presentato la domanda per l’ADI, l’88% è costituito da ex percettori del RdC. Quasi la metà proviene da due regioni Campania (26,7%) e Sicilia (21,8%), come nel caso del RdC. A seguire, il 9,6% delle domande proviene dalla Puglia, l’8,1% dal Lazio, il 7,7% dalla Calabria e il 6,2% dalla Lombardia. La platea potenziale è di 737.000 nuclei familiari, pari a 1.757.000 di persone mentre l’importo medio riconosciuto secondo le stime del Ministero del Lavoro sarà pari a 635 euro (contro i 526 euro medi del Reddito di Cittadinanza).
Conclusosi il periodo per presentare le domande per l’ADI, in questo articolo ci concentriamo proprio su questa misura e illustriamo in cosa consiste, a chi si rivolge, come funziona, e quali sono le principali differenze con il RdC.
L’ADI: cos’è, a chi è destinato, quali sono i requisiti
L’Assegno di Inclusione è riconosciuto a decorrere dal 1° gennaio 2024 quale “misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale, condizionata al possesso di requisiti di residenza, cittadinanza e soggiorno, alla prova dei mezzi sulla base dell’ISEE, alla situazione reddituale del beneficiario e del suo nucleo familiare e all’adesione a un percorso personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa” (come riportato sul sito del Ministero delle Politiche Sociali e del Lavoro). L’ADI consiste in due integrazioni economiche:
- una al reddito per un importo che può arrivare fino a 6.000 euro annui oppure a 7.560 euro annui se il nucleo familiare è composto da persone in età pari o superiore a 67 anni o da anziani ed altri familiari in condizioni di disabilità grave o di non autosufficienza;
- una per l’affitto, fino ad un massimo di 3.360 euro, oppure 1.800 euro annui se il nucleo familiare è composto da persone in età pari o superiore a 67 anni o da anziani ed altri familiari in condizioni di disabilità grave o di non autosufficienza.
La misura è destinata solo ai nuclei familiari in cui ci sono componenti fragili o svantaggiati. Quanto ai componenti fragili, l’ADI è nei fatti riconosciuta ai nuclei familiari che abbiano al loro interno un componente disabile, minorenne, o con almeno 60 anni di età. In riferimento a coloro in condizione di svantaggio, la nuova misura si rivolge – come espressamente indicato dal Decreto n. 160 del 29 dicembre 2023 – agli individui in “condizione di svantaggio e inseriti in un programma di cura e assistenza dei servizi sociosanitari territoriali certificato dalla pubblica amministrazione”. Questa macro-categoria comprende una molteplicità di gruppi presi in carico dal servizio sociale e sociosanitario territoriale, ovvero:
- persone con disturbi mentali;
- persone con una certificata disabilità fisica, psichica o sensoriale (superiore al 46%);
- persone con problematiche connesse a dipendenze patologiche;
- vittime di tratta;
- vittime di violenza di genere;
- persone ex detenute;
- individui portatrici di specifiche fragilità sociali;
- senza dimora;
- neomaggiorenni, di età compresa tra i diciotto e i ventuno anni, che vivono fuori dalla famiglia di origine sulla base di un provvedimento (id. “care leavers”).
L’ADI prevede inoltre il requisito di cittadinanza, ovvero che chi ne beneficia sia residente in Italia da almeno cinque anni, di cui gli ultimi due anni in modo continuativo. Al momento della domanda la residenza in Italia deve essere posseduta non solo dal richiedente ma anche da tutti i componenti che rientrano nella scala di equivalenza ADI.
Cos’è e come funziona la scala di equivalenza dell’ADI
Il nucleo familiare del richiedente, inoltre, deve essere in possesso anche di due requisiti reddituali: un ISEE il cui valore non sia superiore alla soglia di 9.360 euro e un reddito familiare non superiore a 6.000 euro annui, moltiplicato per il corrispondente parametro della scala di equivalenza1 Per nuclei composti da persone di età pari o superiore a 67 anni, o di persone anziane assieme ad altri familiari in condizione di disabilità grave o non autosufficienza, la soglia massima di reddito familiare è di 7.560 euro (moltiplicati sempre per il corrispondente parametro della scala di equivalenza). Altri requisiti riguardano il patrimonio immobiliare – diverso dalla casa di abitazione, entro un valore ai fini IMU di 150.000 euro – che non deve essere superiore a 30.000 euro.
Rispetto alla scala di equivalenza, il parametro di partenza associato al nucleo è sempre 1. Oltre a questo, l’ADI ha introdotto altri sei coefficienti associati alle rispettive tipologie di soggetti fragili:
- 0,5 per ciascun componente non autosufficiente o con disabilità;
- 0,4 per ciascun componente di età pari o superiore a 60 anni;
- 0,4 per ciascun componente maggiorenne con carichi di cura;
- 0,3 per ciascun componente adulto in condizioni di grave disagio bio-psicosociale e inserito nei programmi di cura e di assistenza certificati dalla PA;
- 0,15 per ciascun minore fino a due minori;
- 0,1 per ciascun altro minore oltre il secondo (quindi dal terzo minore in poi).
Facciamo un esempio concreto. Per una famiglia composta da una coppia e due figli minori è necessario sommare 1 (ovvero, il parametro di partenza associato al nucleo familiare) più 0,15 per il primo figlio e 0,15 per il secondo. Dunque, il risultato sarà 1,30 da moltiplicare per il valore massimo del reddito familiare (6.000) per un totale di 7.800 euro di reddito familiare. Per una famiglia invece composta da una coppia di due persone con più di 67 anni, di cui uno con disabilità o non autosufficiente, sarà necessario sommare 1 più 0,5 per il componente con disabilità/non autosufficienza, ma in questo caso il valore massimo da moltiplicare per 1,5 non è 6.000 ma 7.560 euro (vedi supra). Per questo, il valore massimo del reddito familiare sarà 11.340 euro.
Il funzionamento dell’ADI, in breve
Ma come funzione nel concreto l’Assegno di Inclusione? Come spiegato sia sul sito dell’INPS che su quello del Ministero del Lavoro, l’ADI viene richiesto con modalità telematiche all’INPS, che lo riconosce previa verifica del possesso dei requisiti e delle condizioni richieste; la richiesta può essere presentata, anche presso i patronati e i Centri di assistenza fiscale (CAF).
È sempre l’INPS ad informare il richiedente che, per ricevere la prestazione economica, deve iscriversi presso il Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa (SIISL), sottoscrivendo un Patto di attivazione digitale. Una volta sottoscritto il patto di attivazione digitale, a decorrere dal mese successivo i richiedenti iniziano a ricevere la prestazione. contestualmente sono tenuti ad aderire ad un percorso personalizzato di inclusione sociale o lavorativa.
Il percorso viene definito nell’ambito di uno o più progetti finalizzati a identificare i bisogni del nucleo familiare nel suo complesso e dei singoli componenti.
Il contributo economico
Il contributo economico è erogato attraverso la “Carta di inclusione” o “Carta ADI”, uno strumento di pagamento elettronico ricaricabile con il quale potranno essere eseguiti prelievi di contante entro un limite mensile di 100 euro per un singolo individuo, moltiplicato per la scala di equivalenza e potrà essere eseguito un bonifico mensile in favore del locatore indicato nel contratto di locazione. La Carta ADI non può essere utilizzata per i giochi che prevedono vincite in denaro, nonché per l’acquisto di sigarette, anche elettroniche e di prodotti alcolici.
Il ruolo dei servizi sociali
I beneficiari devono presentarsi per il primo appuntamento presso i servizi sociali entro 120 giorni dalla sottoscrizione del patto di attivazione digitale. Successivamente, ogni 90 giorni, i beneficiari, diversi dai soggetti attivabili al lavoro, sono tenuti a presentarsi ai servizi sociali (o presso gli istituti di patronato), per aggiornare la propria posizione. In caso di mancata presentazione, il beneficio economico viene sospeso.
Patti e percorsi
I servizi sociali eseguono una valutazione multidimensionale dei bisogni del nucleo familiare, finalizzata alla sottoscrizione di un patto per l’inclusione. Nell’ambito di tale valutazione, i componenti del nucleo familiare, di età compresa tra 18 e 59 anni, attivabili al lavoro e tenuti agli obblighi di partecipazione al Percorso personalizzato di inclusione sociale e lavorativa vengono avviati ai Centri per l’impiego (CpI) o presso i soggetti accreditati ai Servizi per il lavoro (SpL), per la sottoscrizione del patto di servizio personalizzato. Il patto di servizio personalizzato è sottoscritto entro 60 giorni dall’invio al CpI o ai soggetti accreditati ai SpL. Successivamente, ogni 90 giorni, i beneficiari sono tenuti a presentarsi ai Centri per l’Impiego (o dai soggetti accreditati ai servizi per il lavoro) presso cui è stato sottoscritto il patto di servizio personalizzato per aggiornare la propria posizione. In caso di mancata presentazione, il beneficio economico viene sospeso.
I beneficiari dell’ADI maggiorenni con responsabilità genitoriali sono tenuti all’obbligo di adesione e alla partecipazione attiva a tutte le attività formative, di lavoro, nonché alle misure di politica attiva individuate nel progetto di inclusione sociale e lavorativa.
Cosa cambia tra Assegno di Inclusione e Reddito di Cittadinanza
L’ADI pone fine all’esperienza di uno schema di reddito minimo universalistico – il Reddito di Cittadinanza – rivolto a tutti coloro che si trovano in uno stato di bisogno in virtù sul principio dell’universalismo selettivo, secondo cui un trasferimento è concesso a tutti coloro in condizioni di bisogno, indipendentemente da altre caratteristiche come l’età, la presenza di disabili nel nucleo, la condizione lavorativa.
L’Assegno di Inclusione è infatti improntato alla categorialità, il principio secondo cui le prestazioni del Welfare State sono accessibili in virtù dell’appartenenza ad una determinata categoria. Dunque, per avere questo supporto, oltre al verificarsi dell’evento dannoso (ad esempio, la caduta in uno stato di povertà) è necessario appartenere ad una categoria “meritevole” di tutela.
Inoltre, le principali differenze tra le due misure emergono in relazione alla modalità di calcolo della nuova scala di equivalenza della componente reddituale, aspetto cruciale che determina l’accesso alla misura e l’importo a cui hanno diritto i beneficiari. Al contempo, i requisiti di residenza sono stati modificati, prevedendo un periodo di residenza di 5 anni (contro i 10 del RdC), di cui gli ultimi due continuativi, come per il RdC. La Tabella 1 riassume le principali differenze e similarità tra Assegno di Inclusione e Reddito di Cittadinanza.
Dall’universalismo selettivo alla categorialità della misura
L’ADI, come illustrato nel volume “Sostegno ai poveri: quale riforma?” (Sacchi et al. 2023) (di cui vi abbiamo parlato qui) è uno schema di reddito minimo “atipico” nel panorama europeo, dove vige ovunque il principio dell’universalismo selettivo. Come sottolineato dagli stessi autori, la riforma riporta l’Italia allo status quo precedente al luglio 2018 quando, con l’eliminazione dei vincoli categoriali di accesso al Reddito di Inclusione (REI), l’Italia si era dotata per la prima volta di un reddito minimo universale (benché selettivo). Una misura universale che era stata confermata anche nel passaggio dal REI al RdC.
Rispetto al RdC, i limiti della parte monetaria dell’ADI restano – quasi – invariati (Aprea et al. 2023). Ad esempio, l’applicazione di una scala di equivalenza che penalizza i nuclei familiari più numerosi (sia nell’accesso che nell’importo, come mostrato precedentemente); la mancata considerazione della dimensione del nucleo familiare nel calcolo delle componenti affitto e mutui o della prestazione; la presenza di un numero elevato di requisiti monetari (reddito, patrimonio e ISEE), che concorre a determinare differenze nell’accesso e nell’importo tra nuclei in condizioni economiche simili; l’assenza di qualsiasi forma di indicizzazione delle prestazioni e delle soglie reddituali e patrimoniali, con la conseguente riduzione reale della generosità dello schema, tanto più grave in un periodo ad alta inflazione, come quello attuale e a fronte di una povertà crescente.
La riforma riduce la durata della residenza in Italia necessaria per poter presentare domanda all’ADI (e al SFL). Quindi attenua, senza eliminare, il problema dell’accesso in base al criterio della residenza. La norma inoltre introduce nel calcolo dei requisiti una franchigia pari a 3.000 euro nel caso di reddito aggiuntivo da lavoro dipendente che allevia, rispetto al RdC, l’aliquota marginale effettiva su quel reddito. Questo però – come notato da Aprea et al. (2023) e Granaglia (2023) – avviene contestualmente ad un forte inasprimento delle norme relative alla condizionalità per i percettori di ADI che stabiliscono, ad esempio, l’obbligo di accettare qualsiasi lavoro a tempo indeterminato (sia full-time che part-time) nell’intero territorio italiano e, in aggiunta, qualsiasi lavoro a tempo determinato, indipendentemente dalla sua durata, entro 80 km dal luogo di residenza (nel caso di contratti di durata da 1 a 6 mesi l’ADI viene temporaneamente sospesa).
Oltre a non aver corretto le iniquità orizzontali, ovvero i trattamenti differenziati per nuclei in condizioni simili, la riforma ha ridotto il requisito reddituale di accesso per i nuclei che vivono in affitto (da 9.360 a 6.000 euro), cancellando inoltre l’integrazione monetaria per chi paga un mutuo. La misura di contrasto alla povertà resta dunque iniqua per le famiglie più numerose, sia per l’integrazione al reddito che per quella all’affitto. In aggiunta, la permanenza di requisiti patrimoniali (uguali a quelli previsti per il RdC) continua ad escludere chiunque superi anche di un solo euro la soglia prevista.
Dopo il Reddito di Cittadinanza: quale riforma serve per sostenere davvero i poveri
La riflessione di Elena Granaglia (2023) in tal senso pare particolarmente pregnante. La condizionalità della misura (presente anche nel caso del RdC) presuppone un requisito di do ut des che rischia di minare l’essenza del diritto ad un reddito adeguato: l’incondizionalità. Ciò che colloca l’ADI in discontinuità rispetto al RdC è proprio la categorialità, che implica, come già detto, che il diritto al reddito sia riservato a coloro che sono inabili al lavoro o difficilmente occupabili. Questo comporta – sottolinea Granaglia (2023) – un nesso tra lavoro e meritevolezza. La disponibilità al lavoro è concepita come segnale di disponibilità a fare la propria parte per la società e come un segno di meritevolezza sociale. Per percepire il reddito è necessario guadagnarselo e trovarsi in una situazione di povertà non basta (più). È necessario mostrare di voler (si noti bene, non solo poter) lavorare e, nel caso dell’ADI, di appartenere ad una specifica categoria sociale (anziani, persone in condizioni di svantaggio, genitori) affinché il trasferimento di risorse pubbliche dai “lavoratori” ai “non lavoratori” sia giustificato.
Il Reddito di Cittadinanza aveva mostrato segnali di debolezza sul fronte dell’equità orizzontale e non aveva funzionato nel suo intento di favorire l’inserimento dei più fragili nel mercato del lavoro. Ma è innegabile che, seppur con una condizionalità abbastanza forte e con un regime sanzionatorio in caso di rifiuto di un’offerta di lavoro congrua, abbia sostenuto – come mai era stato fatto prima – il reddito delle famiglie più povere.
L’ADI non ha risolto le principali problematiche del RdC: anzi, ne ha esacerbato i limiti già esistenti e ne ha aggiunti altri, attraverso l’evidente indebolimento del diritto ad un reddito minimo e adeguato che sembrava si stesse, progressivamente, consolidando anche nel nostro Paese. Possiamo dunque ritenere che l’ADI ci riporti al passato? Dalla nostra prospettiva, sì. E non solo: si tratta di una decisione che disallinea – di nuovo – il nostro Paese rispetto agli schemi di reddito minimo e contrasto alla povertà degli Stati dell’UE.
Per approfondire
- Aprea, M., Gallo, G. e Raitano, M. (2023), Verso l’assegno di inclusione: un passo indietro di 5 anni, Etica e Economia, Menabò 193/2023, 14 maggio 2023.
- Granaglia, E. (2023), Reddito Minimo e condizionalità al lavoro, Etica e Economia, Menabò 193/2023, 14 maggio 2023.
- Pogliotti, G. (2024), Assegno d’inclusione e supporto di formazione, ecco l’identikit di chi li ha chiesti, Il Sole 24 ore, 20 gennaio 2024.
- Sacchi, S., Ciarini, A, Gallo, G. Lodigiani, R., Maino, F. e Raitano, M. (a cura di) (2023), Sostegno ai poveri: quale riforma? Dal Reddito di Cittadinanza alle Misure del Governo Meloni, Milano, Egea.
Note
- La scala di equivalenza è il parametro che consente di confrontare situazioni familiari differenti, tenendo conto delle economie di scala che derivano dalla convivenza e di alcune particolari condizioni del nucleo familiare che comportano maggiori spese o disagi (presenza di persone con disabilità, nuclei monogenitoriali, famiglie numerose).