Il panorama delineato dallo studio “Generazioni. Giovani e anziani nel 2020” appare tanto realistico quanto scoraggiante, sia per il sindacato che per gli stessi lavoratori. Evidenzia certamente l’opportunità di un momento di incontro e dialogo tra le generazioni, e al tempo stesso introduce la necessità di una seria riflessione circa il futuro dell’organizzazione e il suo compito di rappresentanza.
Al termine del Festival, abbiamo chiesto a Valeriano Formis, Segretario Generale Pensionati della Cisl lombarda, un bilancio a caldo rispetto all’iniziativa, e un commento sulle conclusioni dello studio presentato durante i lavori.
La differenza di generazione sarà davvero generativa di conflitto all’interno del modello di rappresentanza, come si legge nelle conclusioni dello studio che avete presentato?
Purtroppo condivido parzialmente la preoccupazione, e proprio per questo credo si debba lavorare sulla percezione dei giovani rispetto al ruolo del sindacato e alle sue posizioni.
Finita la grande ondata dei “vecchi” pensionati provenienti dai settori tradizionali, i nuovi pensionati avranno pensioni più basse e non potranno farsi carico di integrare le risorse scarse, come facciamo noi oggi come categoria dei pensionati. Come Cisl stiamo da tempo ragionando sulla rappresentanza, e per questo stiamo attuando un programma di ristrutturazione interna.
Come si ricollega il Festival con il tentativo della Cisl di cambiare?
Sarebbe meglio potersi fermare a riflettere e pianificare il percorso, e sappiamo che dovremo affrontare poi molti dei problemi irrisolti nella fase di impostazione. Come si dice, i nodi vengono al pettine.
Però, seppur con un fondo di scetticismo da parte di molti, abbiamo messo in piedi questa iniziativa per fare qualcosa di nuovo e inedito. Si tratta di una novità assoluta, quella di mettere insieme giovani e anziani per comprendere il passato e parlare del futuro. Seppur con alcuni limiti, l’intuizione è fortissima. Per questo vogliamo continuare a lavorare perché limiti e carenze vengano aggiustati.
Il bilancio è quindi positivo?
Il bilancio a caldo sicuramente sì. La sfida ora è quella di riuscire a trarne qualcosa in termini di aggiustamenti necessari per lo sviluppo di lungo periodo, e naturalmente in una logica di costi-benefici che non possiamo ignorare.
Quali risultati volete ottenere?
Non sto certo parlando di efficienza economica, ma di ricadute sia interne all’organizzazione che esterne. Il dibattito che abbiamo iniziato deve unire, favorire il confronto e soprattutto anticipare la nascita di feroci contraddizioni tra le generazioni. All’esterno poi, vogliamo contribuire a far percepire il problema.
Il problema dei giovani?
Innanzitutto quello, ma non dimentichiamoci che esiste anche quello degli anziani. Problemi annosi e mai risolti sono anche la non autosufficienza, l’invecchiamento demografico e il peso insostenibile sulle famiglie.
Come muoversi rispetto a questo?
Con il Festival abbiamo aperto la discussione. Ora si tratta di valorizzare l’esperienza e diffonderne gli esiti – anche in termini di relazioni e scambio di esperienze – sui territori.
Come continuerà il progetto?
L’iniziativa del Festival in un certo senso è nata “dall’alto”, ma in Lombardia è stata subito raccolta e fatta propria. Continueremo a lavorare, come abbiamo fatto nei mesi precedenti al Festival, perché ci sia un vero dialogo tra le generazioni. L’evento ha avuto una certa risonanza, anche perché è stato studiato come un appuntamento per tutti, senza barriere, anziché “marchiato” come iniziativa sindacale.
Un tentativo non squisitamente sindacale ma aperto alla cittadinanza per sensibilizzare circa la questione intergenerazionale, che però ora deve trovare seguito concreto nei territori, e in Lombardia abbiamo già diverse idee per il futuro.
Perché avete deciso di non “mettere l’etichetta” della Cisl sull’iniziativa?
La dirigenza a livello nazionale ha fin dall’inizio tenuto molto a ribadire che non si tratta di una iniziativa sindacale “tradizionale”, per lasciare che si configurasse come un evento libero e inclusivo. Una sorta di strategia di avvicinamento, per incentivare una partecipazione più ampia possibile e una conseguente diffusione più estesa e “neutrale” del messaggio, senza mettere barriere. E’ come dire: anziché parlare sempre tra di noi, perché non cerchiamo di intercettare quelli che sono fuori?
Tornando ai risultati della ricerca, quali sono le strategie per scongiurare il verificarsi dello scenario proposto?
Non sono troppo ottimista, e non credo ci siano vere e proprie risposte da offrire. Come Paese penso che dovremmo ripartire dai nostri punti forti: le bellezze artistiche, il turismo, le nostre città, la moda. Le grandi realtà industriali oggi sono in crisi. Bisogna fermarsi e cercare di cambiare “in corsa” riconoscendo l’emergenza. Come stiamo facendo noi, cercando di attuare un progetto di riorganizzazione in cinque mesi per “recuperare” un po’ di tempo.
Anche il sindacato sente dunque la crisi?
Il limite delle risorse pubbliche ha modificato anche il nostro approccio. I bisogni delle persone non cambiano, e lavoriamo perché le poche risorse rimaste vengano distribuite correttamente.
Sembra quasi non ci siano prospettive..
C’è ragione di preoccupazione, ma non di pessimismo. Bisogna però essere realisti e capire che il lavoro del sindacato è diventato più difficile. Prima le condizioni oggettive del lavoro favorivano la nascita di una coscienza condivisa e un sentimento di solidarietà più esteso. Oggi la società è più spezzata: come puoi fare solidarietà in un’azienda in cui ci sono decine di contratti diversi?
Quale è il problema con cui vi scontrate nel vostro lavoro?
Modelli aggregativi molteplici e competizione tra questi. La rappresentanza dei diversi interessi è più evidente, e quindi più difficile da gestire. Il sindacato oggi non ha più il monopolio della rappresentanza, e deve considerare le diverse spinte concorrenti. Questo ci spinge però a continuare a qualificare il nostro lavoro.
Quale è il rischio che correte?
Il sindacato si alimenta dei risultati che “porta a casa”, e questo è un momento i cui i risultati sono pochi. A differenza del mondo politico, che vive spesso di promesse, noi inseguiamo le azioni concrete che derivano dai servizi che diamo alle persone. E’ però più difficile, per noi come per i nostri iscritti, percepire il valore aggiunto di quel che facciamo ogni giorno.
Le risorse sono scarse, e ci occupiamo più spesso di vertenze difensive – se non addirittura concessive – per mantenere il lavoro e farlo ripartire dove non c’è più.
Cosa caratterizza oggi il vostro lavoro come Cisl?
Ritengo che il nostro punto forte sia il tentativo di relazionarci giorno dopo giorno con una società non ideologizzata, non più suddivisa in schemi “classici”. Cerchiamo di non avere un approccio rigido, ma essere invece pratici e operare dentro la realtà. Inutile promettere, come sindacalisti dobbiamo essere realisti e riformisti, nella logica di voler conseguire risultati piccoli ma concreti, ogni giorno.
Riferimenti
L’intervista a Paola Gilardoni