Con la firma del Patto per lo sviluppo sostenibile, la qualificazione dell’occupazione, la competitività del sistema economico locale, siglato nel febbraio 2011 tra Unindustria Treviso e le sigle sindacali Cgil, Cisl e Uil della provincia, ha preso il via “Fare Insieme 2012”. Un progetto che prevede istruzione tecnica, promozione dell’occupazione giovanile, welfare per i lavoratori e riqualificazione delle risorse umane.
Abbiamo già parlato dell’iniziativa, raccontando l’evento organizzato da Unindustria Treviso per presentare il progetto nel novembre 2011. Chiediamo ora al direttore generale di Unindustria Treviso Giuseppe Milan di spiegarci come e con quali obiettivi è nato il progetto, e come sta proseguendo.
Perché Unindustria ha avviato il progetto?
L’Italia, come si sa, ha un cuneo fiscale tra i più elevati. Ciò significa che tra il costo del lavoro altissimo per le imprese e il salario, purtroppo non adeguato, del lavoratore, c’è uno spazio “importante”, che rende difficile fare politiche retributive che salvino la competitività dell’impresa e diano maggiore disponibilità salariale al lavoratore.
L’accordo fatto con i sindacati ha l’obiettivo di ridurre un po’ il cuneo fiscale, aumentare il risultato netto in tasca al lavoratore, e possibilmente ridurre il costo in capo all’azienda grazie all’utilizzo di quegli spazi normativi, non molti per la verità, che la legge italiana consente.
Come vi siete mossi?
Abbiamo un assetto contrattuale, definito da accordi confederali a livello nazionale tra Confindustria e le organizzazioni sindacali, che prevede due livelli di negoziazione: quello nazionale e quello aziendale, sul quale si scambiano effettivamente incrementi di produttività e quota variabile di salario. Questo assetto ha però un limite, che deriva dal fatto che la contrattazione aziendale si fa di norma nelle imprese più strutturate, nelle quali c’è presenza delle organizzazioni sindacali.
Dalla “fotografia” che abbiamo fatto al nostro territorio, emerge che queste aziende sono meno del 15% del totale, e occupano solo il 40% dei dipendenti delle imprese. Eventuali azioni per introdurre meccanismi atti a ridurre il cuneo fiscale sono dunque presenti in un numero troppo esiguo di imprese, e coinvolgono un numero troppo basso di dipendenti. Servono quindi politiche e strumenti contrattuali collettivi di tipo territoriale, che estendano il più possibile quegli strumenti di welfare nati dalla contrattazione che solo se sviluppati nella più ampia platea possibile di lavoratori sono in grado di produrre un effetto significativo.
E’ chiaro che politiche di welfare hanno senso solo se ampiamente diffuse sul territorio anziché rappresentare delle “isole”, delle eccezioni che coinvolgono solo una parte minoritaria di imprese e lavoratori.
All’interno di questo quadro si è mossa l’iniziativa, per favorire politiche di welfare che da un lato incontrano bisogni molto sentiti dalla popolazione attiva occupata nelle nostre imprese, e dall’altro riescono a sfruttare quelle forme di agevolazione previste dalla normativa contributiva e fiscale.
Si è trattato di un percorso innovativo?
Abbiamo avviato una trattativa con le organizzazioni sindacali in forma un po’ “eretica” per il nostro sistema. Gli accordi interconfederali raggiunti a livello nazionale prevedono che i soggetti negoziali possibili siano solamente quello nazionale e quello aziendale, senza che ci sia spazio per un terzo livello, come le associazioni datoriali e le associazioni sindacali territoriali. Avviando quindi la trattativa a livello territoriale, nel tentativo di coprire quello spazio non coperto dall’aziendale, abbiamo attivato un percorso nuovo, che le nostre strutture nazionali non hanno sempre appoggiato ma che abbiamo portato avanti ugualmente.
Quando avete iniziato a lavorare?
Con i sindacati abbiamo iniziato a ragionare già nel settembre del 2010. Non ci si deve meravigliare dei tempi lunghi, perché non si tratta di burocrazia o lentezza ma di attenzione verso la delicatezza dei temi. L’originalità e “sperimentalità” dell’iniziativa hanno richiesto prudenza e diplomazia da entrambe le parti, e il tempo è stato necessario per trovare gli equilibri.
Siamo partiti nell’autunno del 2010, e siamo arrivati a febbraio 2011 a un accordo in cui, partendo da un’analisi condivisa della situazione, le parti si riconoscono soggetti titolari di una funzione negoziale sui temi del lavoro, del salario, della previdenza e del welfare. In funzione di questa titolarità abbiamo negoziato i presupposti per lo sviluppo di una contrattazione di secondo livello per tutte quelle aziende, piccole e medie, che non sono coperte da contrattazione aziendale. Un percorso che possa portare incrementi di produttività per le imprese e, sulla base di questi, la redistribuzione ai lavoratori in forma di salario o di “pacchetti” di strumenti e prodotti di welfare.
Le parti condividono dunque questi obiettivi, e li rappresentano insieme nei confronti di interlocutori terzi, senza per questo smettere di essere “controparti” dove necessario.
Come è continuato il progetto dal febbraio 2011?
Abbiamo subito avviato un nuovo negoziato per introdurre gli obiettivi nelle aziende. A gennaio 2012 è stato firmato l’accordo che dispone i dettagli applicativi relativi allo schema di contratto da applicare. Mancano solo i valori economici e i parametri per la definizione del premio variabile.
Come avete studiato le iniziative?
Tutto il lavoro è stato accompagnato da due ricerche, messe a disposizione delle aziende. La prima, commissionata a Tolomeo Ricerche, ha approfondito la struttura economica, produttiva, sociale e occupazionale del territorio per capire dove orientare al meglio le politiche di welfare. La seconda, di natura più tecnica e normativa, è stata svolta dallo studio De Filippo & associati, che ha proposto soluzioni che riescano a sfruttare positivamente la normativa vigente.
Come è finanziato il progetto Fare Insieme 2012?
Circa 1,5 milioni di euro sono stanziati per l’intero progetto, e saranno spesi in maggioranza per iniziative di formazione, orientamento e occupazione. Il progetto più oneroso è quello che prevede la riqualificazione di lavoratori in mobilità, che parteciperanno a corsi di formazione ricevendo un indennizzo economico. La somma deriva da bandi di Fondimpresa che abbiamo vinto a seguito della presentazione di progetti, cui si aggiungono costi nostri per le risorse organizzative.
Cosa succederà ora?
Siamo ormai prossimi alla definizione dei contributi per le categorie merceologiche, i primi nell’arco di qualche settimana, mentre entro l’estate crediamo che saranno firmati i contratti per più della metà delle categorie. Un ottimo risultato sarebbe concludere l’accordo per la categoria dei metalmeccanici, che sono una fetta molto elevata della popolazione occupata.
Nell’attesa stiamo iniziando a definire con alcune strutture della grande distribuzione presenti sul territorio il benefit oggi più comune e diffuso, nonché meno complesso da costruire, cioè il carrello della spesa. Stiamo inoltre definendo pacchetti per libri di testo e borse di studio, e forme di copertura assicurativa, per le quali stiamo ancora approfondendo la questione normativa. Ci piacerebbe fornire soluzioni il più possibile flessibili e personalizzate, da scegliere in base a preferenze e bisogni. Ma abbiamo constatato delle rigidità normative in questo ambito.
Siamo in contatto con diverse compagnie assicurative, che hanno iniziato a capire che questi schemi possono costituire un nuovo mercato. Un altro degli aspetti che stiamo valutando riguarda l’erogazione, che potrebbe avvenire con buoni o voucher, e tramite provider convenzionati.
Da dove nasce la volontà di realizzare un progetto così innovativo?
Questo è per noi un nuovo modo di interpretare il ruolo associativo. Realtà aziendali come la famosissima Luxottica dispongono di strutture organizzate, competenze e da un numero consistente e certo di beneficiari in base al quale trattare con gli interlocutori. Il nostro obiettivo deve essere invece quello di raggiungere quelle piccole e medie imprese che costituiscono la maggioranza del nostro tessuto imprenditoriale, e che non hanno al proprio interno quelle capacità organizzative. Ci siamo dunque posti come “soggetto collettivo” in grado di offrire competenze, ma con la difficoltà di non poter negoziare numeri certi. Proponiamo infatti un meccanismo volontario per imprese e lavoratori, che non ci consente di stipulare accordi con la certezza del numero dei futuri beneficiari.
Siamo partiti dalla volontà di dare un nuovo valore all’associazione, che deve seguire da vicino il corpo associativo che opera nel territorio, ma talvolta anche starvi davanti. Ciò significa non solo raccogliere le istanze e interpretare le esigenze, ma in qualche caso guardare avanti, anticipare e spingere a innovare. Vogliamo essere un’ombra che sta davanti, non alle spalle.
Come vedete la collaborazione con i sindacati?
Crediamo fermamente che le relazioni industriali possano evolvere da luogo di conflitto a strumento per la crescita e per lo sviluppo, tracciando una nuova idea di società più collaborativa. Una nuova visione culturale che può partire proprio dall’arena di scambio tra impresa e lavoro, pur sempre nella differenza di ruoli e interessi. Così come un buon cliente e un buon fornitore sono l’uno il successo dell’altro.
La tradizione del territorio influenza le relazioni industriali?
La Fiom in provincia di Treviso è estremamente presente, e non è certo meno battagliera dei suoi rappresentanti in altri territori. C’è però nel nostro una tradizione di concretezza che porta a un clima di collaborazione, pur nella contrapposizione su alcuni temi. Non escludo che possano emergere delle divergenze nella stesura dei diversi accordi di categoria, ma confido nel fatto che siano superate in tempi ragionevoli.
Come si sono poste le istituzioni locali?
Le istituzioni locali, regionali e provinciali, hanno manifestato il proprio apprezzamento nei confronti dell’iniziativa, ma in questa fase non sono coinvolte direttamente.
Come hanno reagito gli imprenditori?
Abbiamo raccolto molto e convinto interesse da parte degli imprenditori, quindi ci aspettiamo una buona risposta.
Nessuna paura delle aziende nei confronti di ingerenze sindacali?
L’accordo del febbraio 2011 prevede che il sindacato si impegni nei confronti delle imprese che aderiranno a non presentare richieste per tutta la durata dell’accordo, e per un ulteriore anno dalla scadenza. Questo per non alimentare una falsa preoccupazione, evitare cioè che l’iniziativa potesse essere letta come la volontà dei sindacati di usare un “cavallo di troia” per inserirsi in aziende dove non si era mai sentito il bisogno della rappresentanza sindacale diretta. Il sindacato è così in grado di “coprire” lavoratori che non sarebbe riuscito a raggiungere altrimenti.
Quali prospettive vede per il welfare territoriale?
Le associazioni imprenditoriali di Como e Pordenone ci hanno contattati per approfondire la nostra esperienza, segno che l’iniziativa si sta allargando. E all’interno del Club dei 15 (il network della associazioni provinciali di Confindustria dove è più alta l’incidenza del manifatturiero nella formazione del Pil) il tema è stato posto all’attenzione dei membri.
Riferimenti
Il progetto Fare Insieme 2012
Il Patto per lo sviluppo del febbraio 2011
L’accordo del 13 gennaio 2012
Unindustria Treviso e sindacati studiano il welfare territoriale per la Provincia, 15 novembre 2011
Gli studi:
- PAOLO FELTRIN, “I BISOGNI DELLA POPOLAZIONE DELLA PROVINCIA DI TREVISO”, Tolomeo Studi & Ricerche
- ANGELO DE FILIPPO, “PROGRAMMI DI WELFARE A SCALA AZIENDALE E TERRITORIALE”, De Filippo & Associati