Il Jobs Act, il piano del lavoro del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, continua a fare discutere. Tra le tante proposte esaminate o sotto esame si fanno notare temi complessi come la semplificazione dei contratti a termine, le nuove regole sull’apprendistato, e la riforma degli ammortizzatori sociali.
Il decreto che contiene le nuove disposizioni sui contratti è già in vigore dal 21 marzo, ma cosa c’è da aspettarsi su altri temi importanti, come ad esempio l’ambito delle tutele? Il governo, nel disegno di legge delega introdotto in Senato il 3 aprile scorso, ha accolto e fatto proprio il piano per la riforma del sistema degli ammortizzatori sociali elaborato assieme al Ministero del Lavoro da Stefano Sacchi, docente presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Abbiamo chiesto proprio a lui di spiegarci la sua proposta.
Quali sono oggi i problemi degli ammortizzatori sociali in Italia?
Ad oggi, se perdessero il lavoro, quasi un milione di lavoratori dipendenti non avrebbero accesso ai sussidi di disoccupazione, nonostante l’introduzione di ASpI e mini-ASpI a seguito della riforma Fornero abbia dimezzato tale numero. Sto parlando di dipendenti che versano i contributi all’assicurazione contro la disoccupazione e che possiedono il diritto formale, ma che non hanno accesso ad ASpI e mini-ASpI perché non raggiungono i requisiti richiesti. Oltre a questi ci sono i collaboratori, che non hanno invece il diritto formale alla tutela contro la disoccupazione. Inoltre un problema più generale del sistema italiano di ammortizzatori sociali, o meglio di sostegno al reddito per la popolazione attiva, è che chi non ha diritto né alle integrazioni salariali né ai sussidi di disoccupazione, oppure – come visto – non riesce ad accedere ai sussidi, oppure ancora li esaurisce senza aver trovato una nuova occupazione non ha diritto ad alcuna prestazione dal welfare italiano. Per tappare alcuni di questi buchi, in una logica che si voleva emergenziale e di breve periodo, a partire dal 2009 è stato fatto un utilizzo estensivo degli ammortizzatori sociali in deroga. Questi strumenti non conferiscono però diritti veri e propri al lavoratore, e sono costosi, discrezionali e di dubbia equità, poiché due individui in condizioni identiche ma in regioni distinte, o in aziende distinte all’interno della stessa regione, possono essere trattati in modi completamente diversi.
Come dovrebbe essere riorganizzato il sistema degli ammortizzatori in deroga?
Per ristabilire l’equità di trattamento, ma anche per riacquisire il controllo della spesa è a mio avviso indispensabile porre fine all’esperienza degli ammortizzatori sociali in deroga. Per la mobilità in deroga ciò andrebbe fatto contestualmente alla revisione dell’ASpI nel senso di una sua universalizzazione, quindi con l’esercizio governativo della delega in materia di ammortizzatori sociali (nell’ipotesi che tale delega venga conferita). Per la cassa integrazione in deroga è possibile una gradualità, anche tenendo conto della previsione della legge Fornero al riguardo, che destina a tale scopo alcune risorse sino al 2016.
E’ opportuno abolire la cassa integrazione, come auspicato da alcuni economisti?
La cassa integrazione, ordinaria e straordinaria, è uno strumento importante per il sistema produttivo italiano e può essere di aiuto per consentire alle imprese di mantenere in organico manodopera provvista di competenze altamente specifiche a fronte di difficoltà congiunturali o di necessità organizzative, senza dover incorrere in costi elevati di reclutamento e formazione di nuovi assunti quando le condizioni saranno mutate. Per questo non ritengo utile la sua abolizione. Deve però essere drasticamente razionalizzata, cioè ricondotta a principi di corretto utilizzo e gestione, sia dal punto di vista amministrativo e regolativo sia disincentivando comportamenti opportunistici e abusi.
Come propone di modificare la cassa integrazione?
Per quanto riguarda gli aspetti regolativi, così come previsto dal disegno di legge delega elaborato dal governo occorre in primo luogo eliminare la CIGS per cessazione di attività, poiché totalmente priva di razionalità economica; allo stesso modo occorre consentire l’accesso dell’impresa alla cassa integrazione solo dopo aver esaurito tutte le altre possibilità di riduzione dell’orario di lavoro, dalle ferie non utilizzate all’attivazione di contratti di solidarietà, e rivedere i limiti di durata, da legare al singolo dipendente e alle ore complessivamente lavorabili, ad esempio nell’ultimo quinquennio. Al contempo, è auspicabile semplificare le procedure burocratiche, considerando anche la possibilità di meccanismi automatici di concessione. Secondo il Ministero del Lavoro oggi la procedura di autorizzazione è complessa, richiede tempi elevati (7 mesi in media per la cassa straordinaria), e tutto questo a fronte di un numero di domande respinte che non supera l’1%. Una volta razionalizzate le possibilità di utilizzo della cassa, attraverso interventi regolativi e l’introduzione di una struttura di incentivi appropriata, si deve ridurre il carico burocratico sulle imprese utilizzatrici.
Come si possono ridurre gli incentivi all’utilizzo della cassa integrazione quando non è necessaria?
Per quanto riguarda la struttura degli incentivi, occorrerebbe introdurre un principio di responsabilità così da ottenere anche una riduzione del cuneo contributivo e quindi del costo del lavoro. Questo può esser fatto prevedendo una maggiore compartecipazione da parte delle imprese utilizzatrici. Si era inizialmente pensato alla possibilità di introdurre l’obbligo per le imprese utilizzatrici di versare la contribuzione pensionistica – compresa quella a carico del lavoratore – per le ore non lavorate, così come accade ad esempio in Germania o in Austria, ma mi rendo conto che questo possa essere un problema per le imprese che abbiano genuinamente bisogno di ricorrere alla cassa integrazione. Ritengo che comunque la direzione da seguire sia quella di chiedere maggiore, e sostanziale, compartecipazione alle imprese utilizzatrici, e utilizzare i risparmi generati per ridurre gli oneri contributivi per la generalità delle imprese che contribuiscono alla cassa.
Quale può essere il ruolo dei fondi di solidarietà introdotti con la legge Fornero?
La mia preferenza sarebbe per l’estensione a tutti delle casse esistenti, così da non riproporre un dualismo tra chi beneficia della cassa integrazione e chi invece dei fondi di solidarietà, però una soluzione pragmatica potrebbe anche essere l’estensione dell’ambito di questi ultimi.
Quali potrebbero essere i risparmi a seguito di queste modifiche della CIG?
I risparmi sono endogeni – da calcolarsi una volta definito ad esempio il livello di compartecipazione richiesto alle imprese utilizzatrici – però l’abolizione della CIGS per cessazione di attività porterebbe da sola minori oneri per 600 milioni di euro annui.
In caso di disoccupazione, invece, quali sono i problemi che rimangono irrisolti anche a seguito della Riforma Fornero?
Come abbiamo visto, anche dopo l’introduzione di ASpI e mini-ASpI restano ancora esclusi circa 900.000 lavoratori dipendenti, che non riescono ad accedere perché non raggiungono i requisiti contributivi previsti. Inoltre, la separazione tra ASpI e mini-ASpI crea una discontinuità tale per cui chi ha lavorato fino a 51 settimane nell’ultimo anno accede solamente alla seconda, prendendo così una prestazione che dura la metà delle settimane di contribuzione. Mentre da 52 settimane in poi – negli ultimi due anni – si accede all’ASpI, che ha durata fissa.
Oltre a questo, i lavoratori parasubordinati non hanno diritto a sussidi di disoccupazione, se non la famigerata indennità una tantum, peraltro prevista per i soli lavoratori a progetto, che è soggetta a regole così stringenti da escludere dall’accesso la maggior parte dei lavoratori. Infine, come ho già detto vi è un problema più radicale nel disegno del sistema italiano di sostegno al reddito. Chi non può, perché ne è escluso, oppure potrebbe in via teorica ma non riesce data la sua personale storia contributiva a ottenere i sussidi assicurativi di disoccupazione, oppure ancora li esaurisce senza aver trovato una nuova occupazione, non ha diritto ad alcuna prestazione dal welfare italiano. Manca infatti una prestazione di disoccupazione rivolta ai lavoratori che esauriscono i sussidi assicurativi ed erogata in base alla prova dei mezzi, così come manca uno schema di reddito minimo garantito, rivolto a tutti quanti siano in condizioni di bisogno, e non solo ai lavoratori.
Come si dovrebbe intervenire per porre rimedio a questi problemi?
Innanzitutto è necessario semplificare il sistema attuale costruendo un sussidio unico di disoccupazione integrato e universale, che ampli la platea di quanti riescono effettivamente ad accedere al sussidio assicurativo; in secondo luogo occorre prevedere forme di protezione per quanti esauriscano il sussidio assicurativo senza aver trovato lavoro. Infine, ma quest’ultimo pezzo non è previsto nel DDL delega, occorre a mio avviso mettere in cantiere uno schema di reddito di inclusione sociale.
Come ampliare la platea dei beneficiari dei sussidi di disoccupazione?
In primo luogo ASpI e mini-ASpI verrebbero integrate tra loro grazie all’introduzione di un sussidio che per brevità chiamerò Nuova ASpI (NASPI), che mantiene l’importo attuale ma con regole di accesso più inclusive. Secondo il mio piano, potrebbero infatti accedere alla NASPI tutti i lavoratori dipendenti per i quali siano stati accreditati 13 contributi settimanali negli ultimi 4 anni, e la durata della prestazione sarebbe pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi 4 anni, variando quindi da un minimo di 6,5 settimane a un massimo di 2 anni indipendentemente dall’età del lavoratore, con un aumento rilevante rispetto ad oggi.
Quali sono i vantaggi della NASPI rispetto al sistema esistente?
Estendendo il periodo di computo dei contributi agli ultimi 4 anni, la NASPI è un sussidio pressoché universale (per i lavoratori dipendenti, com’è ovvio). Attualmente, se perdono il lavoro, riescono ad accedere all’ASpI l’81% dei lavoratori dipendenti e, in subordine, il 12% alla mini-ASpI. Le percentuali di esclusione sono molto basse fra i lavoratori a tempo indeterminato, ma rilevanti tra i lavoratori atipici. La NASPI include soprattutto questi ultimi, estendendo l’accesso effettivo, in caso di disoccupazione, al 97% dei lavoratori dipendenti. Restano in pratica esclusi, perché non raggiungono il requisito minimo, solo quanti abbiano iniziato a lavorare da meno di tre mesi. Inoltre la NASPI è un sussidio unico e integrato che, abolendo il requisito dei due anni di anzianità assicurativa tuttora previsti per l’ASpI, consente anche ai lavoratori più giovani ma con la contribuzione necessaria di accedere a un sussidio di durata più elevata. Infine, estendendo il periodo di costruzione del requisito di accesso a 4 anni, valorizza la storia contributiva del lavoratore consentendo, come ho già detto, a chi ha lavorato di più di avere un sussidio di durata maggiore.
La NASpI si rivolgerebbe solo ai lavoratori dipendenti? Non ha pensato alla tutela dei lavoratori parasubordinati?
Questa è la seconda dimensione della riforma dei sussidi di disoccupazione, con la loro estensione a tutto il mondo del lavoro dipendente e quasi-dipendente prevista nel mio piano e nel disegno di legge delega, che infatti al riguardo parla di universalizzazione. Per i parasubordinati l’idea è quella di estendere loro la NASPI, seppure con una durata limitata. Questo schema consentirebbe all’80% degli aventi diritto di ottenere il sussidio in caso di perdita del lavoro, escludendo anche qui soltanto quanti hanno lavorato molto poco, come è coerente con un sussidio di tipo assicurativo.
Nella mia proposta dovrebbero avere la possibilità di accedere al sussidio, che per brevità chiamerò NASPI-coll, cioè NASPI per i collaboratori, tutti i lavoratori iscritti in via esclusiva alla gestione separata dell’INPS non pensionati, privi di partita IVA, non amministratori di società né di condominio, il cui reddito individuale assoggettato a contributo della gestione separata INPS non sia superiore al 70% del massimale contributivo valido per lo stesso anno. Questi requisiti estendono la NASPI-coll a tutti i collaboratori (nonché gli assegnisti e i dottorandi di ricerca), esclusi quelli con un reddito molto elevato (circa 70.000 euro nel 2014). Il requisito di accesso è quello di aver contribuito per almeno 3 mesi negli ultimi 12. Qui sta la differenza con la NASPI: la NASPI-coll verificherebbe il requisito andando a guardare l’ultimo anno soltanto, e per conseguenza durerebbe al massimo sei mesi. Peraltro il DDL delega prevede un periodo di sperimentazione di questa misura, pertanto nulla osta ad estenderne eventualmente la durata se la sperimentazione darà esiti positivi.
Quanti lavoratori include la NASPI-coll?
L’80% della platea degli aventi diritto. Considerando che la stragrande maggioranza di questi lavoratori sono collaboratori, se si basa sui dati ISTAT può immaginare che la NASPI-coll si rivolga a circa 400.000 lavoratori, e consenta l’accesso in caso di perdita dell’occupazione ad oltre 300.000 tra questi. Se utilizza altre fonti che stimano in un numero maggiore i collaboratori, avrà un numero maggiore di inclusi, ma cautelativamente preferisco attenermi alle fonti di statistica ufficiale.
Mi preme qui far notare alcuni aspetti. Il primo è che l’estensione dei sussidi di disoccupazione ai parasubordinati per poter funzionare richiede il ripensamento del metodo di calcolo e accreditamento dei contributi alla gestione separata. Sembrano aspetti di poco conto, ma questi dettagli hanno poi grandi conseguenze per la vita delle persone, perché da questi dettagli dipende la loro possibilità di accedere o meno ai benefici. Questo è stato meritoriamente preso in considerazione dal DDL delega, così come in esso è prevista l’estensione agli iscritti alla gestione separata del principio dell’automaticità delle prestazioni.
Di che cosa si tratta?
Ad oggi, se un datore di lavoro non versa i contributi previdenziali per un lavoratore dipendente, questi ha comunque diritto alle prestazioni (di disoccupazione, oppure alla pensione) ed è l’INPS a rivalersi sul datore. Questo principio, previsto dal codice civile, non opera per i parasubordinati, che dal punto di vista previdenziale sono considerati lavoratori autonomi. Se un committente non versa i contributi all’INPS, il collaboratore non si vede accreditati i contributi e di conseguenza non ha diritto alla prestazione. Potrà rivalersi sul committente, ma è ovvio che questo limita moltissimo l’accesso ai diritti previsti. Come dicevo, il DDL delega prevede l’estensione ai collaboratori di questo meccanismo. È una misura di civiltà, altrimenti rischiamo di dare diritti che sono tali sulla carta. Su un punto però il DDL delega andrebbe a mio avviso modificato in Parlamento: riferendosi ai collaboratori, una categoria di stampo lavoristico, e non agli iscritti alla gestione separata, una categoria previdenziale, nella sua attuale formulazione il DDL delega esclude dottorandi di ricerca e assegnisti dalla NASPI-coll. È un aspetto che auspico possa essere corretto.
A questo punto sarebbero escluse solo le Partite IVA. Si potrebbe fare qualcosa anche per loro?
Immagino che intenda quelle non iscritte agli ordini professionali. Partiamo dalla constatazione che individuare la mancanza di lavoro nel caso di partite IVA è molto difficile. Sarebbe probabilmente più corretto parlare non di disoccupazione ma di redditi insufficienti a garantire uno standard di vita accettabile.. La tutela “naturale” dovrebbe quindi essere un reddito di inclusione sociale che funga da complemento a uno insufficiente. Qualora comunque ci fosse una domanda da parte delle partite IVA si potrebbe pensare di estendere la NASPI, ma questo andrebbe fatto su base obbligatoria fino a un determinato reddito per evitare fenomeni di selezione avversa. Si potrebbe ad esempio pensare di utilizzare la stessa soglia della NASPI-coll (circa 70.000 euro di reddito nel 2014), al di sotto della quale l’adesione allo schema, e quindi la contribuzione corrispettiva, siano rese obbligatorie. Tutto questo, ripeto, se vi fosse effettivamente una richiesta in tal senso. Uno schema su base meramente volontaria non può funzionare.
Al netto di queste proposte, sembra rimanere il problema della mancanza di uno schema di reddito minimo garantito. Ha una proposta anche in questo senso?
Sì, ma non è inclusa nel DDL delega. Occorre però considerare che il DDL delega prevede, oltre all’estensione dell’assicurazione contro la disoccupazione, l’introduzione di una tutela totalmente nuova in Italia: una prestazione che chiamerei assegno di disoccupazione, rivolta ai lavoratori che esauriscono la NASPI (e per questa intendo anche la NASPI-coll) senza aver trovato una nuova occupazione, e destinata a quanti fra essi siano in condizione di bisogno, cioè con mezzi – anche patrimoniali – insufficienti all’interno del nucleo familiare. Sia l’accesso alla misura, sia la sua entità sarebbero quindi determinate in base all’ISEE del richiedente. Indicativamente, si potrebbe pensare di fissare l’importo massimo a 700 euro al mese, che è la misura massima dell’ASpI (e quindi della NASPI) al termine del periodo massimo di fruizione. Ma i dettagli di questa misura sono ancora da elaborare. Resta il fatto che si tratterebbe di una tutela fino ad ora inesistente in Italia, che avvicinerebbe il nostro paese alla maggior parte degli altri paesi europei.
Quale sarebbe la differenza tra NASPI e assegno di disoccupazione?
La NASPI è indipendente dalla condizione di bisogno, è una prestazione assicurativa che viene data a tutti quanti hanno versato i contributi necessari, anche se, per farne capire la logica, possiedono una seconda casa in montagna e una terza al mare. L’assegno di disoccupazione viene dato solo a chi, avendo esaurito la NASPI senza trovare una nuova occupazione, si trovi contestualmente in condizione di bisogno. Se uno esaurisce la NASPI ma ha una seconda casa al mare, non otterrà l’assegno di disoccupazione, potendo decumulare patrimonio per far fronte alle proprie necessità materiali.
Quanto costerebbe tutto questo? Possiamo permettercelo?
Il costo totale di NASPI e NASPI-coll in un anno come il 2013 è stimabile in 8,8 miliardi di euro. La spesa per prestazioni di disoccupazione comparabili (indennità ordinaria, ASpI e mini-ASpI) nel 2013 è stata previsionalmente stimata a 7,2 miliardi di euro. Il maggior costo sarebbe quindi di circa 1,6 miliardi, che possono essere interamente finanziati attraverso i risparmi di spesa derivanti dall’abolizione o quantomeno dal venir meno degli ammortizzatori sociali in deroga (almeno 2,5 miliardi di euro) e dall’abolizione della CIGS per cessazione di attività (600 milioni di euro). Questo calcolo lascia a disposizione per ulteriori interventi a sostegno del reddito circa 1,5 miliardi di euro.
A risorse attuali invariate è quindi possibile finanziare un sussidio di disoccupazione universale, integrato e inclusivo, che copre la totalità dei dipendenti e l’80% dei collaboratori, nonché introdurre degli schemi di sostegno al reddito ulteriori, quali l’assegno di disoccupazione.
Resta il fatto che l’assegno di disoccupazione si rivolge solo a quanti prendevano la NASPI, quindi non è un vero reddito minimo garantito…
Ha ragione. Ma consideri che il DDL delega, che trova le sue radici nelle proposte del Jobs Act, contiene misure direttamente connesse all’occupazione, mentre uno schema di reddito minimo ha caratteristiche più generali, relative all’inclusione sociale oltreché lavorativa. Inoltre non bisogna nascondersi i dubbi all’introduzione di uno schema di reddito minimo esistenti all’interno di varie forze politiche che compongono l’attuale maggioranza, a maggior ragione date le attuali condizioni di finanza pubblica.
Questo significa che l’introduzione di un reddito minimo garantito è impossibile?
No. Significa che, sia per ragioni culturali, sia per motivi di controllo della spesa pubblica, è più facile in questo momento introdurre tutele comunque rivolte ai lavoratori piuttosto che alla generalità dei cittadini/residenti. Ciò non toglie che a mio avviso occorra continuare nell’elaborazione culturale e scientifica, così da convincere i dubbiosi della necessità di una garanzia di risorse per tutti. Le proposte in questo ambito sono ormai molto dettagliate e sofisticate, come dimostra l’esperienza del gruppo di lavoro all’interno del quale abbiamo elaborato, appunto, una proposta di Reddito d’inclusione sociale per quanti versino in condizioni di povertà assoluta, il REIS, nonché della commissione presieduta nel governo precedente dal viceministro Guerra, nell’ambito della quale abbiamo elaborato delle linee guida per l’introduzione di una misura chiamata SIA, Sostegno di inclusione attiva.
Uno schema di sostegno al reddito potrebbe essere modellato proprio seguendo tali indicazioni. Mentre nei lavori della commissione sul SIA non abbiamo potuto, per limiti di tempo, elaborare stime di costo, il costo del REIS per coprire tutte le famiglie in povertà assoluta è stimabile nell’ordine dei 7 miliardi di euro all’anno. Si potrebbe però iniziare a destinare alla misura una spesa di 1,5 miliardi all’anno; questo consentirebbe di garantire un sussidio a circa 400.000 famiglie in povertà assoluta.
Che cosa auspica per il futuro del Paese in materia di sostegno al reddito?
Ciò che vedo per il futuro dell’Italia è l’istituzione di un sistema di ammortizzatori sociali in linea con gli altri paesi europei. Un sistema integrato e universale composto da tre pilastri: il primo assicurativo costituito dalla NASPI, un secondo rappresentato invece dall’assegno di disoccupazione per tutti i lavoratori in difficoltà che esauriscono la NASPI senza aver trovato una nuova occupazione, e un terzo e ultimo schema di reddito di inclusione sociale per i cittadini che versano in condizione di povertà. Nella sua forma più completa, quest’ultimo pezzo è di difficile attuazione oggi, data la situazione di finanza pubblica, ma resta a mio avviso possibile prevederne un’introduzione per gradi.