I white jobs in Europa. Una costante crescita dell’occupazione
I servizi sanitari, sociali e alle persone – anche detti white jobs – svolgono una funzione fondamentale nei sistemi di welfare europei. Siano essi legati alla non autosufficienza, alla cura e assistenza di minori, anziani, disabili, alla conciliazione tra vita e lavoro o ancora ai processi di deospedalizzazione e costruzione di nuovi percorsi integrati di assistenza al domicilio, questi servizi costituiscono uno dei punti nevralgici dei welfare europei. Pur nella varietà dei sistemi nazionali e delle grandi differenze che corrono tra paesi e gruppi di paesi è su questo fronte che si misurano molte delle grandi sfide che insistono sul modello sociale europeo, in particolare se riferito questo alla risposta ai nuovi rischi sociali, quelli legati ai cicli di vita e non più o non solo ai rischi connessi all’attività lavorativa come è stato per lungo tempo per il welfare fordista. Non v’è dubbio che un buon sistema di servizi alle persone sia oggi di fondamentale importanza per promuovere l’inclusione sociale e indirettamente promuovere la partecipazione attiva al mercato del lavoro. Vi è tuttavia un altro motivo per guardare con attenzione a questo segmento di offerta. Come mostrano chiaramente i dati relativi ai trend occupazionali i white jobs costituiscono uno dei settori che più hanno contribuito a creare occupazione in Europa in questi ultimi anni.
In una fase di recessione e riduzione costante degli occupati nei tradizionali settori di insediamento industriale e manifatturiero questi servizi hanno continuato a dare un contributo positivo in tutta Europa alla creazione di nuova occupazione. A fronte di una perdita di circa 4,5 milioni di posti di lavoro nel manifatturiero (- 11,9%) tra il 2008 e il 2014 e di 3,8 nelle costruzioni e edilizia, i servizi alle persone hanno registrato un incremento di più di 2 milioni di unità (+9%), per un valore complessivo di 25 milioni di occupati. Rispetto al 2000, prima della grande crisi, la crescita è stata sempre costante con un aumento degli occupati tra il 2002 e il 2009 pari a 4,2 milioni, più di un quarto rispetto a tutta l’occupazione creata nell’Unione – circa 15 milioni di nuovi posti di lavoro (Dati Eurostat – Labour Force Survey).
Che i white jobs siano uno dei più importanti giacimenti di nuova occupazione è confermato anche dal riconoscimento ricevuto dalle istituzioni comunitarie. Tanto l’Employment Package del 2012 quanto il Social Investment Package for Growth and Social Cohesion del 2013 prestano particolare attenzione al potenziale di crescita occupazionale di questi settori. Certo è che persistono anche criticità nei white jobs, in particolare nel più ristretto ambito dei servizi alle persone (personal and household services). Le previsioni di crescita pur promettenti, non mettono al riparo del tutto dal lavoro “povero” (alta incidenza di contratti non standard, basse retribuzioni etc..) per limiti strutturali, connessi alla natura relazionale di molta parte di queste prestazioni ad alta intensità di lavoro, e anche per i problemi posti dai vincoli di bilancio crescenti. Resta inoltre in alcuni paesi europei, soprattutto mediterranei, un ampio bacino di lavoro sommerso che riduce il potenziale di crescita di lavoro qualificato. L’alto tasso di irregolarità (soprattutto in Italia) è un fattore negativo perché sottrae risorse fiscali e contributive allo Stato e perché contribuisce a confinare ai margini del mercato del lavoro, anche dal punto di vista della rappresentazione sociale, occupazioni come l’assistenza al domicilio destinate in ogni caso a crescere di incidenza, per effetto delle grandi trasformazioni demografiche e dei nuovi bisogni di cura e conciliazione.
Allo scopo di ridurre l’incidenza del lavoro nero la Commissione Europea ha incoraggiato l’adozione di politiche di solvibilità sul modello dei voucher. Dispositivi di questo tipo, incentrati sul sostegno al potere di scelta delle famiglie rispetto a una platea varia di alternative di cura (profit o non profit, formali e informali) hanno il vantaggio di semplificare le procedure di acquisto e gestione delle prestazioni accreditate, di fatto disincentivando il ricorso al mercato sommerso. Molti paesi europei hanno adottato politiche di questo genere. Tra di essi una particolare attenzione merita la Francia, il paese europeo che prima e di più ha investito su una strategia di integrazione tra politiche sociali e politiche per la creazione di nuova occupazione nei servizi alle persone.
L’esperienza del CESU francese
Il sistema dei servizi alle persone è in Francia da anni al centro di una forte integrazione tra misure di solvibilità della domanda e politiche per creare lavoro nei medesimi servizi. Questa integrazione è il risultato di riforme che a più riprese hanno agito congiuntamente sulle agevolazioni fiscali e contributive per la regolarizzazione dei rapporti di lavoro e sulla revisione dei dispositivi assistenziali – prima nel 2002 con l’istituzione dell’APA (Allocation Personalisée d’Autonomie) nel campo della non autosufficienza, in seguito nel 2005 che l’istituzione del CESU, lo Cheque Emploi Service Universel, ad oggi il principale dispositivo di solvibilità per un ampio spettro di servizi al domicilio, dalle prestazioni di assistenza leggera e disbrigo delle faccende domestiche, fino agli interventi a più alta integrazione socio-sanitaria, compreso il long-term care e la cura degli anziani.
Il CESU è suddiviso in due principali modalità di gestione delle prestazioni, il CESU déclaratif e il CESU préfinancé.
Il CESU déclaratif è un voucher direttamente utilizzato da singoli datori di lavoro per acquistare al domicilio una serie di prestazioni che vanno da servizi domestici, a lavori di riparazione, babysitting, sostegno scolastico, assistenza amministrativa, assistenza leggera alle persone anziane e non autosufficienti, lavori di vigilanza a domicilio, preparazione dei pasti. Il rapporto tra i contraenti prevede la stipula di un contratto di lavoro (per un remunerazione che non può essere inferiore al salario minimo SMIC). La convenienza viene dai forti sgravi contributivi garantiti dallo Stato che di fatto abbattono per il datore di lavoro il costo lordo, fino a rendere sconveniente l’assunzione al “nero”.
Il CESU préfinancé è invece un voucher il cui ammontare è finanziato ex-ante da un datore di lavoro (pubblico o privato), nell’ambito dei benefits integrativi previsti per i dipendenti (CESU Ressource humaines), oppure da un organismo pubblico, sociale o previdenziale, allo scopo di garantire una serie di prestazioni di cura e assistenza, sociale o socio-sanitaria, al domicilio (CESU Social). E’ in questo secondo ambito che ricade la gestione del dispositivo previsto per la non autosufficienza, l’APA, introdotta nel 2002, dal 2005 integrata nel sistema dei servizi alle persone regolati tramite CESU. Il CESU préfinancé Ressource Humaines (RH) è direttamente collegato ai benefit aziendali. Il suo utilizzo è in crescita costante, arrivando nel 2014 a 700.000 utilizzatori , circa il 3% dei dipendenti (Lebrun 2015).
Dal 2005 sono state 8 milioni le famiglie che hanno beneficiate del CESU, per un volume di emissioni pari a 806 milioni di euro nel 2014 (1 punto di Pil aggiuntivo all’anno). Tra dipendenti di organizzazioni private (profit e non profit) e personale assunto direttamente dalle famiglie il numero dei lavoratori regolari è arrivato nel 2014 a circa 1,4 milioni di unità (Dati Cour de Compte, 2014). Nell’ultimo periodo si è assistito a una diminuzione degli impieghi diretti (-5,8% tra il 2012 e il 2013), in parte per gli effetti negativi della crisi economica sui bilanci familiari, in parte per la crescita degli impieghi alle dipendenze presso provider esterni, profit e non profit (+1,7%). Naturalmente vi sono dei costi da sostenere per politiche di questo tipo. Già il solo obiettivo di disincentivare il mercato sommerso richiede un intervento per l’abbattimento del lordo almeno pari alla differenza con il costo netto. L’esonero dei contributi e le agevolazioni fiscali sull’IVA hanno un costo di 3,8 miliardi all’anno. 3,5 sono invece i miliardi di euro dedicati ai crediti di imposta. Se a questi si sommano i circa 4,4 miliardi per gli aiuti diretti, ovvero le spese sociali per l’assistenza ai non autosufficienti e long-term care si arriva a un valore totale di 11,7 miliardi circa (Lebrun 2015, Cour de Compte, 2014).
Si tratta di un costo ingente che tuttavia ha la capacità di alimentare un mercato regolare dei servizi alle persone che garantisce risorse e entrate fiscali per lo Stato. E’ stato stimato che su 11 miliardi di uscite per lo Stato, vi sono entrate pari a 9 miliardi per un costo finale di 2 miliardi. Per completezza bisogna dire che a questa spesa andrebbe sommato il costo di dispositivi di reddito minimo per il contrasto della povertà. L’utilizzo dei voucher e la politica di sgravi per l’acquisto di servizi alle persone non mette certo al riparo dal problema del lavoro «povero». D’altra parte una delle caratteristiche del sistema francese è la stretta connessione tra politiche per creare lavoro nei servizi e politiche per il contrasto della povertà. In una logica di esportabilità del modello francese, occorre tenere bene in considerazione questo aspetto, soprattutto per l’assenza in Italia di una effettiva politica nazionale di contrasto della povertà.
La proposta di legge sul voucher universale in Italia e il welfare occupazionale
Quanto a evoluzione storica degli assetti di welfare Francia e Italia hanno diverse caratteristiche in comune, dalla centralità degli schemi assicurativi a tutela del lavoro alle dipendenze, fino alla debolezza e frammentarietà dell’assistenza e di contro un rilevante carico di responsabilità sulle famiglie. Ma se questo vale per il passato, non è così se guardiamo agli anni più recenti, in particolare ai servizi di cura. Il sistema italiano, nonostante le riforme – su tutte la 328/2000 – è rimasto sostanzialmente incagliato in equilibri tradizionali, da un lato con una bassa spesa per l’assistenza, dall’altro con un persistente sovraccarico di funzioni di cura sulla famiglia, senza peraltro una esplicita politica per la famiglia. Uno dei problemi è che l’Italia si trova ancora indietro nella definizione di una strategia nazionale per lo sviluppo dei servizi alle persone. I ritardi possono essere colti su più fronti, sul piano dello sviluppo dei servizi, ma soprattutto rispetto alla promozione di politiche che abbiano in animo la creazione e regolarizzazione di nuova occupazione in seno alle famiglie. Molte delle criticità del sistema di welfare nazionale hanno a che fare naturalmente con la scarsità di fondi dedicata all’assistenza alle persone. Carente è stata tuttavia anche l’introduzione delle misure di incentivazione fiscale e contributiva per l’acquisto di cura e assistenza al domicilio.
In Italia non è stato ancora introdotto un dispositivo simile al CESU francese. E’ depositata in parlamento una proposta di legge per l’istituzione di un voucher universale. Obiettivo della proposta è promuovere la crescita di occupazione regolare nei servizi alle persone, attraverso un sistema di voucher (da inserire anche nella contrattazione e piani di welfare aziendale) che disincentivi il ricorso al mercato sommerso. Secondo stime del Censis il costo a regime per lo Stato del voucher universale ammonterebbe a 3,6 miliardi di euro (1,3 per il primo anno). Come per la Francia tuttavia l’introduzione di strumenti di questo tipo ha ritorni diretti e indiretti in termini di risorse fiscali sottratte al lavoro sommerso e nuova occupazione regolare. Da questo punto di vista la previsione netta di spesa ammonta a 1,9 miliardi di euro, ridotti a 700 milioni, tenuto conto dei ritorni indiretti da gettito fiscale e Iva sui consumi di famiglie e lavoratori.
Le stime del Censis indicano inoltre in 326 mila le unità di lavoro regolare sottratte al mercato nero con il lancio del voucher, cui si andrebbero ad aggiungere 315 mila nuovi occupati tra diretti e indiretti. Alla stessa stregua le famiglie prese in carico da una qualche forma di assistenza o servizio attraverso il voucher potrebbero raggiungere la quota di 2 milioni e 754 mila in cinque anni (+ 482 mila), cui vanno aggiunti i lavoratori intercettati attraverso il welfare aziendale, dagli attuali 127 mila ai previsti 858 mila.
Rimane esclusa dal voucher universale l’Indennità di accompagnamento, nei fatti non interessata dal provvedimento legislativo. L’indennità di accompagnamento è oggi il principale dispositivo per la non autosufficienza in Italia (2/3 in favore degli anziani) per una spesa nel 2014 di circa 13,6 miliardi di euro (Inps 2015). Per come è concepito questo dispositivo manca di qualsiasi finalizzazione alla regolarizzazione dei rapporti di cura informali (siano questi garantiti da un familiare o da una badante) o all’acquisto di servizi su un mercato regolare e qualificato dell’assistenza. Secondo alcune stime (Pasquinelli e Rusmini 2013), sarebbero circa 830 mila gli impieghi irregolari nel settore della cura, alimentati dalla indennità di accompagnamento oltre che da risorse private delle famiglie. Senza interventi di riforma nazionali, alcune regioni hanno iniziato a introdurre proprie politiche di sostegno alla cura informale, così come, voucher, assegni di cura e incentivi per la regolarizzazione del lavoro di cura, alcuni dei quali in linea con le principali esperienze europee. Resta un panorama molto differenziato al proprio interno, senza alcun tipo di coordinamento dall’alto.
In attesa di interventi organici sul sistema dell’assistenza, un fattore di spinta per lo sviluppo dei servizi alle persone può essere rappresentato dalla contrattazione integrativa, in particolare dalle prestazioni di welfare contrattuale e aziendale (Ferrera e Maino 2013; Pavolini, Mirabile e Ascoli 2013) costruite attraverso la contrattazione tra le parti sociali e in alcuni casi anche in interazione con le amministrazioni territoriali e una ampia pluralità di attori sociali (Ferrera e Maino 2014).
Gli incastri del welfare occupazionale (entro cui possiamo collocare tanto il welfare contrattuale, quanto quello aziendale) dipendono oggi da una serie di fattori in via di definizione ma non ancora consolidatisi. Se per quanto riguarda il welfare contrattuale siamo di fronte a una espansione costante di organismi bilaterali su un ampia fascia di aree di intervento (in particolare previdenza complementare, assistenza sanitaria integrativa, sostegno del reddito) ancorché molto diversificate tra loro a seconda del settore, del tipo di contratto di lavoro, del territorio di riferimento, sul welfare aziendale insistono maggiori limiti. In primo luogo la questione della volontarietà. Sebbene il testo unico delle imposte sui redditi agli articoli 51 e 100, già oggi disponga sgravi fiscali e agevolazioni che rendono conveniente l’erogazione dei benefits in-kind (più del semplice aumento salariale), questi non sono vincolati alla contrattazione. Si tratta di pratiche volontarie, sulle quali di contro sarebbe importante promuovere più stretti vincoli per il rafforzamento della contrattazione decentrata. Secondo punto: il ventaglio dei servizi erogati attraverso il welfare aziendale è ancora limitato risolvendosi soprattutto in buoni pasto, flessibilità negli orari, facilitazioni del disbrigo delle faccende domestiche, borse di studio, convenzioni, nidi aziendali e più limitamento long-term care. L’offerta è ancora abbondantemente sotto la domanda. Basti pensare che i dipendenti che vorrebbero usufruire di asili nido e servizi di cura, compresa la non autosufficienza sono quasi un dipendente su due, mentre a offrirli sono meno di un datore di lavoro su dieci (Ciarini e Lucciarini 2015).
Ultimo ma non meno importante, il plafond per i vantaggi fiscali. Il potenziamento delle dotazioni finanziarie a vantaggio del welfare aziendale costituisce un prerequisito per lo sviluppo dei servizi, dando un impulso al rafforzamento delle prestazioni sul modello del CESU préfinancé Ressource Humaines (RH). Se le grandi aziende possono già contare su piani strutturati più complessi, è sull’allargamento verso le reti di imprese di più piccole dimensioni che persistono ancora carenze. Soprattutto nei contesti di piccola impresa la possibilità di contare su piani integrativi che vedano il coinvolgimento finanziario anche delle amministrazioni locali costituisce un fattore determinante, al fine di garantirsi quelle economie di scala che le piccole dimensioni in partenza non consentono di raggiungere. In questo quadro la logica della partnership si basa sulla possibilità di contare sull’integrazione con i servizi del welfare territoriale, anche rispetto alla diffusione di voucher appositamente dedicati. Vincolare risorse al potenziamento di partenariati pubblico-privato di questo tipo è utile sia per allargare le prestazioni, sia per ridurre quei dualismi che continuano a persistere tra aziende di grandi e piccole dimensioni, tra area dotate di reti in grado di auto-attivarsi e aree più svantaggiate sul piano degli insediamenti produttivi e di riflessi dei servizi integrativi connessi.
Il presente articolo prende spunto da un dossier dal titolo "Servizi alle persone e creazione di nuova occupazione. L’esperienza del CESU in Francia e le possibili riforme per l’Italia", realizzato per la Fondazione EYU.
Riferimenti bibliografici
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