3 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Come noto, il Covid-19 si sta rivelando particolarmente aggressivo nei confronti delle persone più anziane e con pluripatologia. L’altissima mortalità da nuovo Coronavirus registrata nelle ultime settimane in molte Residenze per anziani nel nostro Paese (RSA) ha alimentato dubbi e polemiche sull’opportunità di utilizzare queste strutture per ricoverare pazienti non gravi affetti da Covid-19 e alleggerire così le strutture ospedaliere. Diventa inoltre interessante interrogarsi sulla condizione in cui le RSA versavano prima della pandemia: condizioni che, con ogni evidenza, le rendevano non solo una soluzione del tutto inadatta a fronteggiare l’emergenza (le RSA si sono infatti presto drammaticamente trasformate in focolai dell’epidemia), ma anche – in una prospettiva di più lungo periodo – una soluzione inadeguata a fronteggiare i bisogni di una quota crescente di popolazione che, a causa del progressivo invecchiamento, si trova in condizioni di non autosufficienza.

Aiuta a fare ordine nei dati e a offrire qualche elemento di conoscenza per rispondere ai tanti interrogativi che ci si pone in questi giorni il paper “Un’emergenza nell’emergenza. Cosa è accaduto nelle Case di Riposo del nostro Paese?”, elaborato da Marco Arlotti e Costanzo Ranci (Laboratorio di Politiche Sociali del Politecnico di Milano). Qual è lo stato di salute delle strutture? Quali tendenze di policy hanno prevalso negli ultimi anni?

In sintesi, il paper mette in luce come in Italia l’offerta di residenzialità per anziani sia molto più contenuta che negli altri paesi occidentali e sempre più piegata su prestazioni ad elevato contenuto sanitario. “La componente alberghiera e abitativa della residenzialità rivolta anche a persone in buona salute e con poche necessità assistenziali – sottolineano gli autori – è pressoché assente e le strutture si presentano come unità di offerta fortemente sanitarizzate per lungodegenti”. Le strutture residenziali in Italia sono 12.500 (al 2016, ultimo dato Istat disponibile), con 285.000 ricoverati con almeno 65 anni. Il tasso di copertura (che misura la quota di anziani over 65 anni ricoverati in queste strutture) nel nostro Paese è circa la metà di quello spagnolo, un terzo di quello tedesco, quasi un quarto rispetto a Svezia e Olanda. Sono inoltre particolarmente marcate le variazioni interne del tasso, con una copertura che varia dal 3% di Lombardia e Nord-Est allo 0,9% del Mezzogiorno. A livello di tendenze, si sottolinea inoltre come nel corso degli ultimi 10 anni non si sia assistito ad alcun aumento della disponibilità di posti letto (a differenza, ad esempio, di quanto avvenuto in Spagna, che li ha raddoppiati).

Il profilo anagrafico e di salute degli ospiti delle strutture restituisce la natura di “unità di offerta fortemente sanitarizzate per lungodegenti” delle RSA: il 75% delle persone ricoverate ha più di 80 anni; la quota di ricoverati (parzialmente o totalmente) non autosufficienti è il 78% (in Lombardia il 94%), le donne (anche grazie a una maggiore aspettativa di vita) sono il 75%.

Arlotti e Ranci delineano dunque l’emergere di due tendenze parallele: da un lato, quella che definiscono “una progressiva sanitarizzazione delle prestazioni e delle strutture” (sempre più simili a ospedali o case di cura per lungodegenti); dall’altro, un aumento della fragilità della platea dei ricoverati, sempre più composta da persone molto anziane, fortemente compromesse nella loro autonomia e integrità fisica. Tutto ciò ha provocato, a cascata, un progressivo aumento dei costi di gestione e personale, cui tuttavia non è corrisposto, nella maggior parte dei casi, un aumento degli importi delle quote sanitarie a carico delle Regioni.

Di fronte all’aggravamento del profilo sanitario degli ospiti e alla riduzione delle risorse, i gestori delle strutture – fanno notare Arlotti e Ranci – si sono così trovati costretti ad alzare le tariffe (i cui aumenti, in assenza di un adeguamento della quota sanitaria, si sono scaricate sugli utenti) e a ridurre il personale (in Lombardia è stato tagliato del 20% fra 2009 e 2016), i minuti di assistenza per paziente, la manutenzione delle strutture. In altre parole, strutture sempre più simili a ospedali (per la gravità delle condizioni in cui versano gli ospiti), anziché essere irrobustite per far fronte ai nuovi compiti, sono state di fatto impoverite. Si pensi che la progressiva "sanitarizzazione" delle strutture si è accompagnata, a livello nazionale, ad un taglio del 15% del personale medico (2009-2016), con evidenti conseguenze sulla qualità dell’assistenza offerta. Il tutto in un quadro di privatizzazione delle strutture che sta (ulteriormente) ridimensionando il peso del settore pubblico.

La conclusione cui giungono gli autori è che, sulla base dei dati analizzati – quelli qui riproposti e molti altri disponibili nel paper –, appare plausibile avanzare l’ipotesi che “le condizioni strutturali di fondo del sistema non hanno certamente favorito l’applicazione di standard qualitativi elevati finalizzati alla tutela sanitaria e assistenziale di una platea di ricoverati in condizioni di grande fragilità fisica, così come degli operatori coinvolti nelle attività di assistenza e cura”. Ancora una volta, la crisi del Covid-19 porta così a interrogarsi sui “nervi scoperti” del nostro sistema di welfare
 

Riferimenti

Arlotti M. e Ranci C. (2020), Un’emergenza nell’emergenza. Cosa è accaduto nelle Case di Riposo del nostro Paese?, Progetto IN-Age, Laboratorio di Politiche Sociali, Politecnico di Milano.