Il progetto Minplus, in cui è coinvolto anche il nostro Laboratorio, prevede attività di ricerca volte a mappare i modelli di comunicazione sul tema delle migrazioni, l’accoglienza, i richiedenti asilo e i minori stranieri non accompagnati. In quest’articolo Paolo Moroni, facendo riferimento a diversi studi sull’argomento, ricostruisce i frame dominanti con i quali i media hanno rappresentato le migrazioni, spesso promuovendo immagini fuorvianti e poco rappresentative della realtà.
Nel volume ‘Tracciare confini, L’immigrazione nei media italiani’ – un’analisi approfondita del rapporto più che trentennale tra media e immigrazione in Italia – Marco Bruno ci riferisce che “nella comunicazione riferita al fenomeno dell’immigrazione e in particolare degli sbarchi di richiedenti protezione internazionale in questi ultimi anni, i media hanno rappresentato lo snodo del processo di costruzione simbolica e sociale della realtà”.
Sono venuti a crearsi rapporti bidirezionali tra i soggetti protagonisti della comunicazione all’interno dei quali da una parte i media hanno influenzato l’opinione pubblica e dall’altra ne sono stati dipendenti. Essi stessi sono stati condizionati dalla politica, ma ne hanno anche in parte indirizzato le scelte. Questo insieme di rapporti ha determinato la costruzione di un frame che incornicia gli avvenimenti, definendone simbolicamente i contorni.
L’autore afferma poi che “la costruzione di un quadro di riferimento determina la scelta e la selezione delle notizie, mette ordine negli avvenimenti, li organizza, dà un senso e individua una linea direttrice. La comunicazione è più efficace se dà per scontata l’interpretazione dei fatti descritti”.
Nel volume viene spiegato inoltre che dovendo sintetizzare al massimo le acquisizioni di questi ultimi trent’anni di studio sul tema della rappresentazione mediale dell’immigrazione, in particolare quella in arrivo via mare, è possibile individuare due cornici di riferimento. Da una parte quella attribuita al tema della “sicurezza”, alimentato attraverso notizie che identificano gli stranieri come i principali autori dei crimini e associano intere nazionalità a fatti di cronaca nera. Dall’altra, quello riferito agli “sbarchi”, intesi come violazione dello spazio della comunità e minaccia all’identità culturale nazionale.
A queste due dimensioni si può aggiungere un terzo frame utilizzato meno di frequente, ma solo apparentemente alternativo, e articolato intorno alle narrazioni della dimensione “umanitaria”, spesso declinata con venature che ispirano pietà, utilizzato dai media in occasione di tragedie che coinvolgono i migranti.
I due frame prevalenti centrati sulla difesa dei confini e sulla sicurezza interna, minacciata da criminali che si confonderebbero con i migranti, mirano ad alimentare una percezione diffusa di paure e risentimenti. Questo registro è stato utilizzato principalmente dalla stampa e dai politici di destra, ma è emerso trasversalmente in occasione della sconfitta dell’ISIS nel Vicino Oriente, quando si preconizzava l’arrivo di barconi carichi di foreign fighters e di terroristi sbandati.
Più recentemente lo stesso schema, riferito alla violazione dello spazio nazionale, è stato utilizzato per alimentare paure legate al possibile contagio da Covid-19 da parte dei migranti arrivati via mare. In entrambi e casi la realtà si è rivelata lontana dall’immaginazione di giornalisti e politici: nel caso dei pretesi infetti, come risulta dai dati epidemiologici, la percentuale di contagio tra i migranti è nettamente al di sotto di quella relativa agli autoctoni.
Come ha scritto amaramente Ilvo Diamanti nell’introdurre il Settimo Rapporto della Carta di Roma 2019 dal titolo “Notizie senza approdo”, a fronte del consolidamento di frame negativi, legati a un’esposizione di fatti privi di approfondimento e tematizzazione, una narrazione che cerchi una descrizione alternativa (racconti di buone pratiche di integrazione, di iniziative dal basso, tematizzazione dell’immigrazione e individuazione della complessità delle cause e degli effetti) appare del tutto marginale “quasi che, sull’argomento, prevalesse – prevalga – una sorta di rassegnazione, che induce a dare per scontato, senza discussione, l’accostamento, fra migranti, criminalità, minaccia. La relazione diretta fra immigrazione e in-sicurezza. In modo automatico e naturale. Anche se non è necessariamente così. Almeno, non sempre”.
La costruzione di frame come quelli sopra descritti ha portato dunque nella maggior parte della pubblica opinione alla diffusione di una serie di stereotipi riferiti all’immigrazione, come quello sicuritario o quello legato agli sbarchi, che risultano impermeabili alla dimostrazione di evidenze contrarie, siano esse costituite da dati statistici o da buone prassi di integrazione e accoglienza.
Probabilmente la strada delle spiegazioni empiriche, pur necessaria, si rivela insufficiente: diventa invece essenziale far sì che lo straniero non sia più visto come un’entità astratta e indistinta, ma che attraverso un processo di conoscenza reciproca si arrivi a quella che Stefano Allievi – nel suo saggio ‘Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione’ – definisce un processo di “assimilazione” intesa questa volta come “diventare simili”, dunque nel senso letterale e non antropologico del termine, perché, come intitola uno dei capitoli del volume, ‘Visti da vicino sembriamo uguali’.
E ancora, come ha scritto don Ciotti nel suo pamphlet dal titolo ‘Lettera ad un razzista del terzo millennio’ la vera scommessa del nostro tempo si chiama interazione, un concetto più ampio e complesso di integrazione. “Quest’ultima è asimmetrica: presuppone un soggetto che integra e uno che (…) perde la sua specificità. L’interazione è invece orizzontale, reciproca. È scambio e arricchimento per tutti, base di una crescita culturale, sociale, economica”.